mercoledì 30 dicembre 2009

Dans ma peau ( Marina De Van , 2002 )


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Dramma della carne

Opera prima di Marina De Van apprezzata attrice nonchè cosceneggiatrice di alcuni lavori di Ozon, Dans me peau è film durissimo, che potrebbe spiazzare non poco chi vi giunge alla visione non preparato.
Esther è una giovane donna dalla vita apparentemente normalissima, ben inserita nel mondo del lavoro, felicemente accoppiata con Vincent, l'uomo che ama, fino a quando una sera per un banale incidente rimane ferita ad una gamba: da quel momento qualcosa deflagra in maniera violentissima nella sua psiche. Inizia così ad autoinfliggersi ferite, a leccarne il sangue, a conservare i brandelli di cute che si asporta, il tutto mentre continua con non poche difficoltà a tentare di condurre una vita normale fatta di cene di lavoro in cui, mentre i colleghi disquisiscono sulla qualità della vita nelle città europee , lei si affonda coltello e forchetta nelle carni . L'unico a intuire qualcosa è Vincent che però cozza contro un muro di silenzio quando chiede spiegazioni troppo razionali che Esther non sa e non vuole dare.
L'escalation della forma morbosa è inarrestabile e in un lungo quasi muto finale che vede solo la protagonista sullo schermo,...

Drag me to Hell ( Sam Raimi , 2009 )


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Un Raimi fiacco

Torna all'horror Sam Raimi con questo Drag me to Hell che si presta ad una duplice lettura: da un lato indubbiamente conferma la bravura del regista nel costruire un film, dall'altro lascia la sensazione di assistere ad una pellicola ben costruita da un bravo mestierante ma priva di forza penetrativa.
Christine lavora in banca, è in attesa di un importante avanzamento di grado e quando si trova a dover scegliere su come comportarsi con una vecchia gitana dall'apparenza raccapricciante che implora un prolungamento per il pagamento di un mutuo pena la confisca della casa, lei sceglierà , rifiutandolo obtorto collo, di seguire il suo spirito arrivista e aziendalista, , venendo meno ai suoi valori di solidarietà, ma nel contempo convinta che ciò possa agevolare la sua promozione.
La vecchiaccia le lancerà contro una di quelle maledizioni che tolgono il sonno e per la giovane avrà inizio l'incubo: una colpa da espiare amaramente in nome del denaro e del carrierismo, una battaglia impari contro un demone (Lamia) evocato dalla zingara con la maledizione.
Raimi usa ancora la sua nota ironia sin dall'antefatto (le banche in periodo di recessione...) e ne fa largo uso lungo tutta la vicenda grazie ad una serie di scene gore talmente eccessive da risultare quasi comiche soprattutto per certa ossessività orale;...

martedì 29 dicembre 2009

Achille e la tartaruga ( Takeshi Kitano , 2008 )


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Parabola sull'arte

Partendo dal paradosso di Achille e la tartaruga, che col film c'entra poco, ma funge da morale della storia, Kitano scrive e interpreta questa parabola sull'Arte, eterno campo di battaglia tra talento, passione e libertà espressiva.
Molto di autobigrafico , relativamente alla sua passione pittorica, c'è dentro, condito col sarcasmo e l'ironia che sono propri al Maestro giapponese.
La storia narra la parabola artistica di Machisu che vediamo sin da bambino appassionato di pittura e totalmente estraneo alle attività scolastiche; suo padre è un ricco magnate che si veste da mecenate offrendo aiuto agli artisti. Quando la fortuna negli affari volta le spalle al genitore con relativo suicidio , il piccolo sarà affidato dapprima ad uno zio rozzo e quindi ad un collegio, dove nessuno però sembra avere interesse per la sua passione.
Da giovane cerca di conciliare il lavoro con la scuola d'arte , spinto dalla convinzione che le manchino talento e conoscenza tecnica; il suo rimane comunque un approccio all'arte di tipo ancestrale , distaccato, non facendosi coinvolgere più di tanto nei fervori artistici dei suoi compagni di studio.
Infine giunto all'età matura, sposatosi con una donna che le fa da assistente, lo vediamo nei tragicomici tentativi di dare voce alla sua arte, sistematicamente rifiutata dai galleristi.
Kitano non risparmia alcun aspetto del mondo dell'arte, usando la sciabola dove serve soprattutto verso quel certo snobismo culturale che richiede all'artista sempre di andare oltre i propri limiti: fin dove l'artista è libero di esprimersi secondo le sue emozioni? Quanto lo status sociale influenza la riuscita di una opera d'arte? E' lecito per il pittore cercare di andare oltre i suoi limiti sfruttando la sua inquietudine, quando non i tormenti?
Son tutte domande cha aleggiano pesanti sullo scorrere del film, cui Kitano cerca di dare risposta, mettendo in gioco se stesso e il suo personale senso pittorico: mettendo alla berlina i quadri di Machisu, il regista sferza se stesso, essendo la gran parte delle opere presenti nel film effettivamente sue; ed indubbiamente il trionfo di colori e di forme che emergono dai dipinti sono tra le cose più belle del film.
La regia di Kitano è saggia e ben dosata tra un inizio quasi melò ed un finale che vira al grottesco, ma le qualità del regista ormai sono indiscutibili, in ogni caso; manca nella parte finale, quella in cui compare Kitano stesso, un po' di verve, troppo incentrata sui ridicoli tentativi di dar corpo ad un avanguardismo artistico che non è proprio del personaggio; una descrizione del contrasto tra la (tanta) passione ed il non eccelso talento avrebbe probabilmente giovato di più.
Sta di fatto che il film ha l'indubbio pregio di squarciare un velo sull'essenza dell'arte e sui suoi limiti, nello stesso modo in cui il paradosso di Zenone che da il titolo al film cerca di convincerci che se un qualcosa non la si ha non c'è verso di poterla raggiungere anche correndo molto più veloci di quello che dobbiamo agguantare.

lunedì 28 dicembre 2009

La voltapagine ( Denis Dercourt , 2006 )


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Vendetta sottile ma violenta

Le immagini di Melanie bambina al piano si alternano con quelle del padre che maneggia e taglia quarti di bue: è l'inizio del prologo che ci mostrerà la ragazzina respinta ad un concorso causa un autografo firmato da Ariane, nota concertista facente parte della giuria, che fa cadere la sua concentrazione.
Gli occhi e lo sguardo della fanciulla che si allontana fanno presagire rancori che non saranno mai sopiti.
Una decina di anni dopo troviamo ancora Melanie stagista nello studio del noto avvocato , marito di Ariane e seppur non svelato chiaramente, intuiamo che il piano di vendetta sta per scattare.
L'avvocato , terminato lo stage, la assumerà come educatrice del figlio di 10 anni, anche egli pianista in erba ; ben presto la sua algida eleganza e la sua bellezza conquisteranno la ignara Ariane che le proporrà di divenire la sua voltapagine.
Con la freddezza di chi ha covato per anni la vendetta, Melanie saprà rendersi un elemento fondamentale nella vita artistica della fragile pianista, infondendole una sottile ma morbosa attrazione. Vendetta sarà: senza sangue, senza rumore, una vendetta che distrugge la mente, l'anima e le dinamiche familiari.
Film di fortissimo influsso chabroliano, questa opera prima indubbiamente risulta valida, seppur con qualche pecca data soprattutto da un finale un po' sottotono e da uno svilupparsi degli eventi in cui prevale troppo il non detto.
D'altra parte il rapporto tra le due donne, fatto di un continuo specchiarsi una nell'altra , costituisce l'aspetto più bello del film. Amore e odio, ammirazione e dipendenza psicologica, attrazione lesbica, sguardi , silenzi e aspetti sociali si mescolano sullo sfondo di un quadro che si rifà alle ambientazioni tipiche di certo Chabrol, condito da un sottile e raffinato erotismo fatto di sguardi e mani appena sfiorate.
Il rancore profondo che attanaglia Melanie sembra sciogliersi solo quando accanto ad Ariane volta le pagine dello spartito, a significare, comunque, il comune substrato emotivo delle due donne e la sua glacialità insinua in ogni momento l'attesa spasmodica del gesto di vendetta che sarà invece discreto, senza rumore ma di una lacerante violenza.
La regia risulta molto curata , forse troppo laccata, ma sicuramente efficace nel rendere gli sguardi,arrichita da musiche che fanno da sfondo al rincorrersi degli occhi. Come detto qualche pecca nella sceneggiatura esiste, laddove non è chiaro se il piano sia premeditato e soprattutto nella inevitabile (ma che non c'è) resa dei conti che renda tutti consci del gioco che si è chiuso.
Bravissime le due attrici soprattutto nella forza che emanano gli occhi: Catherine Frot a suo agio nel ruolo di una fragilissima Ariane e la giovane Deborah Francois , sguardo algido ed eleganza da vendere, una che il cinema lo mastica, giovanissima, dai tempi dei fratelli Dardenne.

domenica 27 dicembre 2009

Ebbro di donne e di pittura ( Im Kwon-taek , 2002 )


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La pittura e il cantico per una nazione

Prendendo a pretesto la storia del famoso pittore coreano Jang Seung Up, vissuto nella seconda metà dell'800, Im tratteggia il consueto affresco sulla storia coreana, fatta di tradizioni, usi, costumi ed arte.
Partendo dalle umili origini del pittore, passando per la giovinezza , la maturità e la fine misteriosa che ne ha contribuito alla creazione dl mito, viene narrato come il talento pittorico, espresso già in età giovanissima, trova sfogo in maniera acerba e non strutturata; l'incontro con i mecenati e i maestri dell'epoca poco inclini ad apprezzare un'arte fatta solo di grezza genialità e sensibilità non supportate da conoscenze tecniche e scolastiche; parallelamente vediamo l'affermarsi di un carattere fiero seppur sregolato, alla perenne ricerca del meglio di sè e del superamento dei limiti , la ricerca dell'ebbrezza come fonte di ispirazione, la difesa dell'indipendenza dell'artista di fronte ai lavori commissionati dai ricchi e dal potere.
Sullo sfondo campeggia una precisa ed accurata descrizione del periodo storico, la Corea priva di qualsiasi identità, soggiogata dai cinesi e pronta ad offrirsi all'altro giogo dei giapponesi, la difesa dell'arte come unico polo condensante di una identità culturale in rovina, la figura del pittore intesa come orgoglio nazionale e soprattutto la difesa strenue dei valori e delle tradizioni di un popolo vicino all'annientamento.
Im sa descrivere come pochi tutto ciò e sa far vibrare forte le corde dell'emozione, si parli di pantsori o di pittura poco importa: per farlo da vita ad un personaggio indimenticabile, ben disegnato nei suoi tormenti artistici e nella sua furia che rappresenta la vitalità della cultura coreana. Il sacro furore o la calma riflessiva con cui Seung muove il pennello sulla carta sono momenti di altissimo cinema: la carta bianca che diviene la visione del mondo di un'anima perennemente tormentata ed inquieta.
La regia di Im è superba, ricchissima di inquadrature fisse in cui il movimento è dato dalla scena che si pone agli occhi; le ricostruzioni sono bellissime, con gran dispendio di particolari utilissimi a noi poveri occidentali; la bravura di Choi Min-sik, confermata in maniera definitiva l'anno seguente con Old Boy, contribuisce a dar vita ad un personaggio di quelli che il Cinema non dimenticherà così facilmente.

Three...extremes ( Fruit Chan , Park Chan-wook , Takashi Miike , 2004 )


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Tris d'assi, tris di ossessioni

Presentato a Venezia con immancabile scia di polemiche (per lo più fuori luogo), il film ripete l'esperimento già riuscito con Three , di cui è formalmente un proseguimento : mettere assieme tre fra i più validi e visivamente provocatori registi orientali per confezionare un thriller in tre parti tra loro svincolate.
Dumplings di Fruit Chan è senz'altro il più bello, quello più completo nel suo insieme nonchè il più duro e disturbante: la ricerca dell'eterna giovinezza attraverso la consumazione di ravioli ripieni di tritato di feti umani. Zia Mei, moderna fattucchiera, possiede la ricetta per sanare l'ossessione femminile per la giovinezza da mantenere a tutti i costi; si rivolge a lei Qing ex attrice ormai avviata ad una inevitabile maturità che vede sfuggirle di mano il marito che la tradisce con donne giovani e belle. L'iniziale disgusto di fronte all'orrido pasto si tramuta quindi in una sorta di dipendenza, visti pure i risultati; il finale drammatico da un lato e ammiccante dall'altro lascia più di un punto interrogativo.
Chan dirige il corto con maestria consumata, soffermandosi su particolari che potrebbero essere orridi ma che di fatto risaltano solo per la vivacità cromatica; affronta senza mezze misure quella che anche in oriente ormai è una mania , mostrandoci Qing quasi come una versione femminea di Faust, a tutto disposta pur di placare la propria folle ossessività.
Cut di Park Chan-wook narra la storia di una vendetta (tanto per cambiare...) : quella dell'attore mediocre, fallito che scatena la sua violenza contro chi ha fama, talento, denaro e che non mostra alcun lato negativo di sè, impersonificato dalla figura di un regista cinematografico. Per metterla in atto trasporta il malcapitato e la moglie nello studio cinematografico che riproduce la casa del regista, infliggerà torture indicibili alla moglie, umilierà il regista accusandolo di essere privo di difetti e di cattiveria e il finale, con colpo di scena, sarà in perfetto stile Park col sangue che si disperde sul pavimento a scacchiera.
Se dal punto di vista tecnico il film è magnifico (basti pensare alla scena iniziale) con la consueta regia provetta di Park, dall'altro manca qualcosa in fatto di consistenza della storia che appare un po' deboluccia, avendo come risultato la netta sensazione che Park stavolta abbia voluto semplicemente mettere in piedi un magnifico esercizio di stile.
Box di Takashi Miike , tra i tre, risulta il più enigmatico e al contempo il più intigante, così sospeso tra sogno e realtà , condizione nella quale Kyoko, giovane scrittrice di successo, si trova: il sogno di una scatola sotterrata che la contiene che si interrompe sempre allo stesso punto. Dietro ciò c'è il senso di colpa per la morte della sorellina quando lavoravano in un circo come illusioniste e il morboso rapporto col patrigno dal quale lei non si è ancora liberata.
Un finale in bilico tra attività onirica e realtà sembrerà far quadrare il cerchio, ma il dubbio su cosa sia stato sogno e cosa realtà rimarrà sospeso.
Miike è bravissimo con la regia, offre riprese molto belle pur nella loro essenzialità, gioca col sogno e con la vita reale di Kyoko senza risolvere l'enigma, ma solo mostrandoci il potere destruente del senso di colpa e del rammarico.
Tre film, tre ossessioni che ognuno saprà metabolizzare secondo la propria sensibilità ed esperienza, sapientemente stimolate dalla forza visiva e narrativa di tre grandi registi.

Dolls ( Takeshi Kitano , 2002 )


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Formalismo e sostanza

Le bambole del titolo sono quelle del teatro bunraku che aprono il film con un prologo, rappresentazione tradizionale di amore, dolore e potere e fanno da filo conduttore di tutta la storia affacciandosi di tanto in tanto sullo schermo come a scrutare le umane vicissitudini tanto simili a quelle delle marionette.
Kitano mette in scena questo dramma della follia e dell'amore in una forma apparentemente poco familiare al suo concetto di cinema, ma con una potenza e una profondità che dimostrano la superlativa sensibilità di questo autore.
Tre storie tra loro slegate che si sfiorano solo marginalmente in mezzo ad un bosco, in riva al mare, lungo una strada; tre storie di amore e follia , dolore e rimpianto, tratteggiate con il pessimismo cui il regista ormai da tempo ci ha abituato.
La follia della donna abbandonata dal suo amato, costretto dalla famiglia a sposarsi con una ricca ereditiera , che abbraccia il suicidio (non riuscito) come gesto liberatorio; rimarrà viva ma avulsa da tutto ciò che la circonda, compreso il suo amore che, con atto estremo anche lui, lascerà la sposa sull'altare e correrà al capezzale della mancata suicida. La loro vita sarà un vagare senza meta, uniti uno all'altra da un cordone rosso che gli varrà l'epiteto di "vagabondi legati", privi di qualsiasi emozione, da soli nel loro dolore e rimpianto anche quando una scintilla accenderà il ricordo.
La follia e il rimpianto dello yakuza ormai vecchio e malandato che ricorda la sua scelta di abbandonare la donna amata quando era giovane per intraprendere senza vincoli la carriera malavitosa e la follia della donna che invecchia aspettando sulla panchina il ritorno del suo amato, tutti i sabati con il pranzo pronto. L'amato ritornerà dopo tani anni, solo il cuore le farà riconoscere quell'uomo ormai grigio e malato e le darà l'illusoria quiete ben presto rotta da un colpo di pistola.
Ed infine la follia di un fan sfegatato di una giovanissima cantante pop che reagisce all'abbandono prematuro delle scene del suo idolo, causa un incidente stradale che le deturpa il volto, con un atto di autopunizione estremo che lo priverà della vista ma non dell'agognato incontro in riva al mare con la cantante di cui potrà godere solo della voce , prima che il destino anch'esso cieco si abbatta su di lui.
Se è vero , come affermato da larga parte della critica, che il film mostra un formalismo ridondante, è altrettanto giusto concedere al Maestro giapponese una profondità e una poesia che toccano i sensi (anche troppo forse), motivo per cui l'accusa di formalismo lascia il tempo che trova in quanto la forma contiene ed avvolge una sostanza forte e pregnante.
Non è facile raccontare l'amore nelle forme con cui si esprime Kitano, intrise di pathos e della sempiterna lotta amore e morte, con tinte sempre oscure, ed il regista di tanto in tanto sembra calcare anche troppo la mano, ma indubbiamente le tematiche sono sviscerate senza veli e senza mezze misure, in un affresco cui la natura circostante da il meglio del suo cromatismo e della sua partecipazione all'implacabile scorrere del tempo.
La forma domina il film come detto, colori che si accavallano ad immagini che sembrano cartoline, gli elementi della poetica di Kitano che si rincorrono: il mare e le spiagge deserte, la neve che somiglia tanto a quella di Hana-Bi, la stanchezza e il declino dello yakuza e la morte come soluzione pacificatrice del malessere che nasce dalle ossessioni e dalla follia.
Nel finale, pieno di simbolismi, le marionette si fonderanno agli uomini andando a braccetto incontro al comune destino, chiudendo il cerchio disegnato dall'amore e dalla morte.

sabato 26 dicembre 2009

Throw down ( Johnnie To , 2004 )


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Caleidoscopio di immagini ed emozioni

Non finisce mai di stupire il Maestro HKese: quello che per qualcuno è un film minore, risulta alla resa dei conti uno dei suoi più belli e riusciti, nel quale è capace di condensare i cardini della sua poetica filmica immergendo il tutto in un ambientazione quasi da film fantasy (o fiabesco se si preferisce).
Tre personaggi che sembrano uscire dallo schermo tanto sono splendidamente disegnati e che a modo loro sono perfettamente in linea coi numerosi eroi narrati da To: Tony , appassionato di judo che girovaga alla ricerca della sfida che plachi la sua voglia di combattere, Sze To , una volta grande judoka e ora gestore di un night bar e alle prese con debiti e alcool, Mona , una giovane alla ricerca della fama e della notorietà disposta a tutto pur di ottenerla.
I loro destini si incrociano con maestri di judo, boss accaniti frequentatori di sale videogames, campioni di judo che già una volta incrociarono la strada di Sze To, scagnozzi obesi e gente da night.
Ognuno a modo suo otterrà ciò che vuole, risollevando le sorti della propria vita e dei propri destini.
Il contesto in cui il regista cala la storia è banale, fin troppo ovvio, ma la sostanza che ci mette dentro è superba. I personaggi, e non solo il trio principale, sono caratterizzati in modo vivace e per nulla manierato; nel corso della storia emergono i consueti concetti della lealtà, dell'amicizia, della solitudine, della sfida che questa volta è a mosse di judo, senza neppure l'ombra di una pistola; ma ciò che fa di questo film un autentico gioiello è la magistrale capacità di To di far emergere l'aspetto umano, estraniando quasi i protagonisti di cui non sappiamo nulla, ma che ci sembra di conoscerli da una vita, li inserisce nella solita Hong Kong fatta di luci e di vicoli deserti con ambientazioni che sembrano un po' Police Tactical Unit e un po' Breaking News, sostituisce le danze con le pistole coi combattimenti di judo fatti di incroci di corpi che volano e si avviluppano, disegna con colori indimenticabili gli ambienti bui del night, solo di rado attraversati da bagliori improvvisi e naturalmente non fa mancare la sua consueta ironia come nella scena della fuga nel gabinetto in condominio del night.
La regia tocca le vette più elevate, risultando senz'altro tra i film di To meglio girati, coi ritmi giusti e con riprese che strappano l'applauso e la scena della fuga di Mona inseguita dagli sgherri della bisca con vorticosa scia di banconote svolazzanti va inserita di diritto tra le più belle della storia del cinema.
Una splendida colonna sonora , ben incastonata nel film, completa l'opera, così come la bravura dei tre protagonisti.
Non è un film minore e neppure leggero, è semplicemente un caleidoscopio di immagini che appagano gli occhi e un concentrato di emozioni che fanno sorridere ed anche commuovere.

giovedì 24 dicembre 2009

Gli abbracci spezzati ( Pedro Almodovar , 2009 )


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Almodovar citazionista e la sua grandissima pupilla

Questa volta il "dissacrante" Pedro Almodovar stupisce un po' tutti col suo nuovo lavoro : un film infarcito di citazioni come solo Tarantino riesce a fare, cinema nel cinema insomma , il cui risultato però non è convincente al cento per cento. Manca quel graffio, quella sferzata emozionale che contraddistingue sempre le opere del regista spagnolo, risultando un film troppo freddo e didascalico in larghi tratti.
Anche la sua struttura, che non aiuta per nulla nella descrizione della pellicola, risulta un po' contorta anche se la classe del regista impedisce che la storia divenga raffazzonata e confusa.
Harry Caine in realtà di chiama Mateo Blanco, ha deciso di cambiare nome in seguito alla drammatica conclusione della sua storia d'amore con Magdalena che lo ha lasciato cieco; da apprezzato regista si è trasformato in sceneggiatore affiancato nel suo lavoro da Judit e dal di lei figlio Diego che fungono da agente e assistente. Nonostante la cecità , ci fa sapere all'inizio del film , ha deciso di godersi tutto ciò che la vita gli offre, motivo per il quale non disdegna di ringraziare sessualmente sul divano di casa una bella bionda che lo ha aiutato nell'attraversare la strada.
All'improvviso ricompare nella sua vita, deciso a scrivere una sceneggiatura a fronte impronta autobiografica, Ernesto Martel, figlio dell'industriale possessivo amante e convivente della Magdalena che lui gli sostrasse durante la preparazione di un film di cui il magnate era produttore.
La vita di Harry ha un pericoloso balzo all'indietro di 14 anni fatto di ricordi e di chiarimenti, ai tempi in cui la passione per la sua attrice si consumò nella tragedia: sottoforma di intima confessione resa a Diego conosceremo tutta la storia e i suoi drammatici risvolti.
Par chiaro come Almodovar abbia voluto omaggiare il cinema unendolo alla passione amorosa e alla ossessione: veste l'attrice nel film di Mateo come Audrey Hepburn, lascia scorrere le immagini di Viaggio in Italia di Rossellini, cita Loius Malle, ma altresì racconta una scia di passioni sane ed insane che segnano il destino dei protagonisti.
La storia è raccontata e diretta con la consueta bravura, con un regia senza pecche che sa creare un clima di tragedia incombente in ogni fotogramma, molto elegante ma , come detto, manca di calore, rimane distaccata, poco coinvolgente , nonostante la bravura di Penelope Cruz che offre una recitazione spettacolare; a fare da contraltare Lluis Homar nel ruolo di Mateo, molto poco credibile, quasi a disagio in un ruolo simile.
In conclusione un Almodovar che sa raccontare le passioni come pochi, ma che questa volta non colpisce dritto, si limita a colpettini telefonati cui , ahimè, non farà mai seguito la stoccata vincente.

mercoledì 23 dicembre 2009

Made in Hong Kong ( Fruit Chan , 1997 )


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Giovani ad Hong Kong

La travagliatissima genesi e il budget ridotto all'osso non hanno minimamente influito sull'eccellente risultato ottenuto da Fruit Chan con questo Made in Hong Kong che ha portato definitivamente alla ribalta il talento purissimo del regista HKese.
In una Hong Kong lontana dalle luci e dagli sfarzi, alle soglie del passaggio sotto il governo della Cina Popolare, Moon, poco più che adolescente, vive la sua vita da nullafacente (ma con talento, a suo dire); svolge qualche lavoretto di riscossione da parte di un boss e si dedica con grande carattere alla protezione di un amico ritardato mentale, spesso bersagliato dalle angherie; la sua famiglia è in pieno disfacimento e la strada con le sue dure regole è il suo pane quotidiano.
L'incontro con Ah Ping, la cui madre è strozzata dai debiti e l'assistere al suicidio apparentemente senza motivo di Hui Boshan, una ragazza che compie il gesto estremo gettandosi da un palazzo di fronte al quale campeggia una enorme croce di cemento, portano nella sua vita una nuova linfa, fatta di voglia di redenzione che passa attraverso l'amore per Ah Ping e la presenza onirica della suicida.
Il pessimismo estremo di Chan condurrà la storia su binari tragici dopo averci regalato momenti di autentica e sorprendente poesia.
Il film, convine dirlo subito, è duro, durissimo, avvolto da un alone nero che a momenti stordisce man mano che le tematiche intimamente presenti si svelano: il disagio giovanile, il rapporto con la morte, il senso profondo del suicidio, vivere e morire intesi come beffardi capricci di un fato privo di ogni etica e di senso di giustizia, il temuto da molti, agognato da pochi, ricongiungimento di Hong Kong alla madre Cina; a tutto ciò fa da sfondo una società ed una città sporche , degradate, che nulla di rassicurante hanno da offrire, in cui la rabbia giovanile non sembra avere altri sbocchi che non siano comunque e sempre drammatici e a poco sembra servire il brano di Mao sulla gioventù letto alla radio che chiude il film.
Il talento visivo di Chan sa fare di questo film un gioiello purissimo, mostrandoci un realismo fatto di sporcizia e di sentimenti; l'uso delle tonalità di colore da connotati cromatici bellissimi, struggenti in certi momenti ed infine Chan ci regala una scena grandiosa, quella del cimitero, più altri momenti che trasudano lirismo puro.
Anche questo film è la dimostrazione tangibile di come sia essenziale avere qualcosa da raccontare per fare un bella pellicola, a prescindere dai mezzi usati e dai soldi spesi: se hai una buona storia farai un buon film, come diceva il saggio.

martedì 22 dicembre 2009

Blood and bones ( Yoichi Sai , 2004 )


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Saga nippocoreana e Kitano mattatore.

Ispirandosi all'autobiografico romanzo di Yan Sogiru, Yoichi Sai costruisce una epopea famigliare nippocoerana che abbraccia circa 60 anni di storia pregna di grandi eventi che va dall'imperialismo nipponico alla seconda guerra mondiale e all'utopia nordocoreana di Kim Il-sung.
Kim Shunpei è un emigrato coreano che negli anni venti si trasferisce ad Osaka seguendo un'onda migratoria di notevoli dimensioni. Stabilitosi nel quartiere degli emigrati coreani mette su famiglia e una fabbrica che lavora pesce; si distingue per la sua feroce cattiveria ed egoismo conditi da una violenza cieca che annichilisce e tiene soggiogata tutta la famiglia e i suoi lavoranti. Nel progressivo degrado morale che contraddistingue la sua vita si dedicherà all'usura, favorito dalle condizioni economiche critiche del paese a ridosso della guerra e abbandona la famiglia mettendosi in casa altre donne che regolarmente ingravida; concluderà la sua esistenza in Corea del nord solo, nella neve ma con una fortuna economica ingente.
Inevitabilmente il film ruota sulla figura di Kim , superbamente interpretato da un grandioso Takeshi Kitano, e questo è nel contempo il grande pregio e difetto della storia: il personaggio catalizza in modo massiccio gli eventi impedendo però lo sviluppo di uno studio più approfondito degli altri membri della famiglia e Kitano appare un mattatore inarrivabile nel dare corpo e volto ad un personaggio così imbevuto di cattiveria che raramente ci è dato di vederne nella storia del cinema. Il suo egoismo violento e rozzo riempie lo schermo in maniera quasi fastidiosa, senza avere nulla di "soprannaturale", risultando anzi assolutamente "umano"; i suoi gesti privi di qualsiasi parvenza di umanità, improntati a scoppi improvvisi di violenza e brutalità, hanno come risultato solamente quello di sprofondare nella paura e nella disperazione tutta la famiglia, annientata da una presenza così dispotica. Nulla riesce a fermare la deriva morale del protagonista e la caduta agli inferi della moglie e dei figli.
Si direbbe quasi una sorta di compendio sugli aspetti più deteriori dell'animo umano questo film di Sai , anche perchè gli altri personaggi sono appena tratteggiati e non colpiscono con la loro storia umana; questo è senz'altro un limite del film che appare in alcuni tratti addirirttura superficiale.
Viceversa la regia è valida, la ricostruzione del quartiere di Osaka è molto convincente e curata e a naturalmente il film , considerato il tema e la sua struttura stessa, è stato un grande successo, di pubblico e di critica.
La stupefacente bravura di Kitano impreziosisce la pellicola, arrichendola di un valore aggiunto che pochi attori saprebbero offrire in queste proporzioni.

lunedì 21 dicembre 2009

Bangkok dangerous ( Oxide Pang Chun , Danny Pang , 1999 )


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I tormenti di un killer

Storia nerissima di killer e di sangue, girata a ritmo ora di videoclip frenetico, ora a ritmo di lento da pianobar; viene narrata la storia di Kong , killer spietato che trova nel suo talento balistico la rivincita di una vita da emarginato, lui sordomuto e deriso fin da bambino, asceso al rango di efficacissimo e ben pagato assassino su commissione.
Come tutti i killer che si rispettano sa esser molto professionale, privo di emozioni, chiuso nel suo mondo privo di suoni e di parole, affiancato solo dalla compagnia e dall'amicizia di Jo e della sua donna Aom che furono i primi ad accorgersi del talento del giovane Kong, allora addetto alle pulizie del poligono di tiro.
Quando la malavita rivolgerà la sua perniciosa attenzione su Aom prima e su Jo poi, Kong si troverà ad affrontare la situazione rivolgendo l'arma contro quelli che erano i suoi datori di lavoro; ma lo squarcio decisivo sulla coscienza del killer sarà procurata da Fon , giovane ragazza che si interesserà a lui e che gli offrirà la sua compagnia "pulita" per lo meno fino a quando non scoprirà il suo lavoro.
Il finale drammatico , tinto di melodramma, ma senz'altro molto bello ci regalerà l'ennesimo ritratto di killer che sotto la dura scorza nasconde un animo incline ai buoni sentimenti, un aspetto che forse nessuno aveva portato alla luce .
Il film dei fratelli Pang, che poi andranno avanti negli anni seguenti con luci ed ombre (compreso il remake americano di Bangkok dangerous) è un bell'esempio di noir e di action movie, che si lascia apprezzare anche per la scelta tecnica di ripresa, per i suoi repentini cambi di ritmo, per l'uso dei rapidi flashback sempre azzeccati ed esplicativi e per una regia attenta ed efficace.
Il personaggio di Kong è molto ben costruito, credibile, rappresentato nel suo mondo asettico che gli permette di non avere sentimenti, una sorta di autismo emozionale che si frantuma nel momento in cui se non proprio l'amore, almeno l'affetto inizia a farsi strada dentro di lui portandolo al pentimento finale.
Peccato solo avere insozzato questo lavoro valido curando anche il remake stelle e strisce che nulla ha da spartire con questo: almeno questo i fratelli Pang avrebbero potuto lasciarlo fare ad altri.

venerdì 18 dicembre 2009

Le Samourai (Frank Costello faccia d'angelo) ( Jean-Pierre Melville , 1967 )


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Rivisitazioni cinematografiche
Pietra miliare


Dopo oltre quaranta anni ancora verrebbe voglia di insultare pesantemente colui che ha tentato di deturpare questo capolavoro presentando un titolo in italiano così assurdo e ridicolo che , soprattutto, spoglia il film del suo senso più intimo, della sua genesi artistica e culturale: eh sì perchè titolo originale e citazione iniziale raramente sono così rappresentativi ed esplicativi di una pellicola che, possiamo ben dire ormai, rappresenta una pietra miliare nella storia del cinema, un paradigma cui tanta cinematografia in tutto il mondo ha fatto riferimento.
Mai descrizione di un killer è stata così grandiosa e geniale , nella sua solitudine, nel suo travaglio, nel suo modo di essere contro tutto e contro tutti: quante volte abbiamo visto nei noir di Hong Kong personaggi simili? Quanto di Melville c'è in larga parte dei gialli e dei noir francesi ed europei?
Essersi affermato universalmente come riferimento per tanto cinema è un onore che solo pochi grandi hanno avuto il privilegio di avere(Leone e Kurosawa ad esempio) e la regia di Melville è bellissima , secca, tagliente come una lama, senza fronzoli, usando solo materia primordiale ed un attore che ha saputo essere glaciale ed asettico in ogni momento: quando si crea il doppio alibi, quando ruba la macchina, quando compie la sua missione, quando è attratto nella tela del ragno dalla pianista, quando fugge e semina i pedinatori tra vagoni della metro e viuzze parigine, quando capisce il gioco sporco col quale lo hanno incastrato; anche nel suo gesto finale non c'è emozione, c'è la solitudine che si prende la rivincita; il suo sguardo sembra avere degli impercettibili sussulti solo quando osserva l'uccellino nella gabbia, unica sua compagnia e nel contempo presenza metaforica sulla sua esistenza.
Quando un film, seppur visto e rivisto, dona sempre qualcosa di nuovo e carpisce l'attenzione e i sensi, significa che è un capolavoro assoluto, e questo "Le Samourai" lo è in pieno.

giovedì 17 dicembre 2009

Vengeance ( Johnnie To , 2009 )


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Storie di killer e di vendetta (con Melville sullo sfondo)

Nonostante la massiccia livrea tinta di Europa e di cosmopolitismo linguistico, l'ultima fatica del Maestro di Hong Kong è saldamente e tenacemente inserita nel solco cinematografico tracciato negli anni dal regista; semmai la coproduzione francese, nonchè la presenza di una star come Johnny Hallyday , non potranno che portare vantaggi sulla distribuzione.
Francis Costello (potenza del nome...) accorre al capezzale della figlia miracolosamente salvatasi dalla carneficina che ha sterminato la sua famiglia; ora è uno chef e possiede un ristorante nella Parigi che conta ma nel passato ha maneggiato con arte la pistola e porta come ricordo una pallottola in testa che gli procura problemi con la memoria.
Quando la figlia prima di essere riportata in Europa le chiederà vendetta, lui da vecchia volpe rizzerà le antenne e non gli parrà vero di vedere all'opera in maniera chirurgica tre killer legati alle triadi.
L'offerta è succulenta: vendetta in cambio di contanti , del ristorante ( dal nome profetico "i Fratelli") e della casa parigina.
I tre killer accettano anche perchè scatta in loro quel senso dell'onore e della lealtà che li porta ad aborrire l'uccisione dei due piccoli nipoti di Costello.
La brigata si mette quindi sulle tracce degli assassini e una volta scovati , sapranno che il mandante della carneficina è il boss dei tre, un mr Fung/Simon Yam intriso di ferocia. Non avranno dubbio i tre con chi schierarsi, reiterando quella rivolta dei boiardi che tante volte To ha proposto nei suoi lavori.
Sarà comunque Costello a mettere fine alla vicenda dimostrando che le stigmate del killer sono ancora fresche in lui.
Ancora una volta quattro personaggi ai limiti, chiusi nel loro destino, legati da una amicizia che sembra provenire dai canyon del Nevada, drammaticamente leali e con la loro etica purissima; stavolta To li muove tra Macao e Hong Kong mostrandoci un po' meno del ventre molle delle due ex colonie; ci regala alcune scene magnifiche tra cui una sparatoria al chiaro di luna che va e viene e un inseguimento a ritroso tra poggia e selve di ombrelli in cui un po' tutti ci siamo sentiti Costello; ma soprattutto fa sfoggio di una regia raffinatissima da leccarsi i baffi, senza mai una battuta a vuoto, scandita da un ritmo che non è frenetico ma costante e coinvolgente.
Ai soliti noti Anthony Wong, Simon Yam ,Suet Lam , tutti sempre efficaci e bravi si affiancano il carisma e gli occhi di ghiaccio di un grande Johnny Hallyday, la cui risata in riva al mare chiude il film con un tocco enigmatico e amaro.

mercoledì 16 dicembre 2009

Zift ( Javor Gardev , 2008 )


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L'inganno e "il potere distruttivo femminile"

Sta per uscire di galera Tarma, dopo una lunga detenzione per un reato non commesso; vi è entrato che la Bulgaria non era ancora comunista e satellite sovietico e ne esce perchè ha contribuito alla causa comunista in carcere.
Ci racconta la sua vita tra flashback e presente, di come si sia cacciato nel guaio e di come progetta di tornare a una vita normale, del dolore per un figlio nato e morto mentre era in galera,dell'arricchimento avuto in carcere leggendo tutto ciò che poteva e stringendo amicizie con strani filosofi che propugnano teorie sul potere distruttivo femminile.
Ma il passato non è ancora sepolto e riaffiora con addosso le divise militari per costringere Tarma a confessare dove si nasconde il prezioso bottino di un furto.
Scoprirà, nell'arco di una giornata, che tutto sommato la teoria dell'amico galeotto filosofo tanto balsana non è e che il mondo intorno a lui è cambiato troppo, governato dall'inganno e dalla meschinità.
Girato in un bianco e nero elegante e sorprendente questo lavoro, già insignito di alcuni premi, colpisce per la sua scarna essenzialità, per la forza delle parole del narratore (il protagonista) e per la descrizione di personaggi e situazioni che per anni hanno dominato nel mondo dei paesi comunisti. C'è una atmosfera cupa e degradata che emerge dal film, in cui l'inganno subito da Tarma è solo l'aspetto più appariscente, in perfetto stile noir arrichito da quella sorta di vena melanconica che contraddistingue il personaggio e le sue vicende.
Ciò che colpisce maggiormente è comunque una regia bellissima, capace di alternare i flashback e il presente in modo lineare e senza strappi, puntando sempre l'occhio sui personaggi e i loro volti, non concedendo mai cali di ritmo. La scelta del bianco e nero valorizza uteriormente i personaggi e gli attori, tra cui spicca per bravura il protagonista Zahari Baharov nel ruolo di Tarma.

martedì 15 dicembre 2009

A serious man ( Joel Coen , Ethan Coen , 2009 )


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...e alla fine arriverà un ciclone


Storia di sventure con prologo (in perfetto stile coeniano) , tre inserti e finale apocalittico: questo il senso del nuovo lavoro dei fratelli americani, che stavolta ci mettono anche qualcosa di autobiografico, presentando ampi tratti di una comunità ebraica del Mid West e dei suoi riti religiosi.
1967 ,Larry insegna fisica all'università in attesa di avere la cattedra, la famiglia apparentemente come tante, cova al suo interno situazioni che in un breve lasso di tempo esploderanno sulla testa del povero malcapitato: la moglie vuole divorziare e glielo dice come se gli chiedesse di comprargli il tacchino, ha una relazione con un amico di famiglia stimato e ben voluto dalla comunità; la figlia gli ruba i soldi per metterli al pizzo nell'attesa di rifarsi il naso e intanto si lava sempre i capelli, il figlio frega i soldi alla sorella per comprarsi l'erba e alla scuola ebraica ascolta i Jefferson Airplane invece di seguire le lezioni del rabbino, in casa vegeta un fratello suonato, nullafacente che ha la pretesa di scrivere un trattato sui calcoli probabilistici. Come non bastasse sul lavoro deve far fronte ad uno studente coreano che cerca di corromperlo per superare l'esame e ad un collega che ogni volta che si affaccia alla sua porta sembra portare solo sventure e notizie che non agevoleranno la sua carriera accademica.
Finirà col vivere in un motel, subendo passivamente le decisioni della moglie e a chiedersi in continuazione come uscire da cotanto marasma, lui che avrebbe voluto (e credeva di essere) un uomo serio (ebraicamente parlando); neppure rivolgersi a tre rabbini (compreso il saggio rabbino capo che non lo riceverà) porterà a nulla, neppure appellarsi a Dio gli darà delle spiegazioni:il mondo va a rotoli e nessuno può farci nulla.
Anche quando il fato sembra rimettere le cose su un binario accettabile, ecco che all'orizzonte si stagliano una radiografia da ritirare e un ciclone che avanza e che (forse) spazzerà via tutto
Il consueto mondo alla deriva dei Coen questa volta non risparmia nessuno, religione compresa: chi vuol essere un uomo normale deve superare prove innumerevoli e titaniche, il mondo va a fondo e restare a galla è impossibile. Il pessimismo dei registi stavolta però rimane più sottotraccia, meno visibile, ma non per questo meno pungente e nero; confezionano un film con una regia sontuosa che si diverte (amaramente) a giocare con lo spettatore, a partire dal fantastico prologo girato tutto in yiddish, che già fa capire quale sarà il tono del film, fino alla scena conclusiva, nera più della pece e del ciclone che avanza.
Scena da consegnare ai posteri: il rabbino capo che riceve il giovane figlio di Larry dopo il suo bar mitzvah e che gli recita la formazione dei Jefferson Airplane.
Bravi gli attori, tutti poco noti ma tutti perfettamente il linea coi personaggi.
Anche stavolta, insomma, per i Coen il mondo è veramente un gran casino.

Whispering corridors ( Park Ki-hyeong , 1998 )


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Rivisitazioni cinematografiche
Il capostipite delle ghost story


Rivisto il film a qualche anno di distanza, e con tante pellicole sfornate da allora, è palpabile la sensazione che siamo di fronte ad un lavoro che possiede una importanza fondamentale, probabilmente al di là anche del suo reale valore artistico: insieme a Ringu di Hideo Nakata è sicuramente il capostipite del nuovo cinema horror orientale e non solo per aver dato il via ad una serie che fino ad ora ha prodotto cinque film, ma soprattutto perchè ha influenzato in maniera netta tutto il filone delle ghost story in salsa coreana.
Ad essere onesti l'aspetto horror è probabilmente il meno valido all'interno del film, che quando imbocca la fase discendente in cui deve spiegare come e perchè i fantasmi infestano i lugubri corridoi della scuola, assumendo in modo più stretto i connotati della ghost story, scade abbastanza , cadendo in alcuni momenti nell'ovvio. L'importanza del film sta nei suoi forti connotati sociali che emergono dalla descrizione di un sistema scolastico severissimo, al limite della vessazione, in cui dominano come aguzzini insegnanti che non ci pensano due volte ad infliggere punizioni corporee e morali alle allieve, le quali dal canto loro mostrano una competitività che trascende nell'odio e nel disprezzo reciproco. Assumono così un valore quasi protettivo le amicizie che legano le allieve, il loro condividere segreti , passioni e dolori, al punto che tutto ciò diviene substrato per la vendetta di fantasmi che tornano nella scuola dopo esserne usciti da allievi.
Apprezzeremo in seguito come il concetto di fantasma materializzazione di rancori, torti subiti, traumi repressi diventerà fondamentale nella cinematografia di genere made in Corea (ed in oriente in genere), motivo per cui Whispering corridors dell'esordiente Park Ki-hyeong si pone come ideale punto partenza, pur essendo un lavoro che soffre di alcune vistose pecche ed in cui la regia non è certo indimenticabile, affidandosi per creare la (poca ) suspance esclusivamente ai lunghissimi e lugubri corridoi scolastici.

sabato 12 dicembre 2009

Bellamy ( Claude Chabrol , 2009 )


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Ancora sospetti e scheletri nell'armadio

Il famoso Paul Bellamy, detective parigino, trascorre le sue vacanze a Nimes nella casa di famiglia della moglie, dove , ben lungi dal dedicarsi ai cruciverba e al riposo, viene coinvolto in maniera piuttosto atipica in uno strano caso di cronaca nera su cui indagano i locali investigatori.
La sua curiosità professionale nonchè il suo altissimo fiuto per il sospetto lo spingeranno a mettere in piedi una sorta di indagine parallela in cui verranno a galla meschinità, tradimenti, ardite truffe stile furbetto del quartierino, chiacchiere di provincia e sospetti. Anche la su vita privata viene messa a dura prova dall'arrivo del fratello, alcolizzato , nullafacente e puttaniere che serba grossi rancori verso di lui.
L'atipica struttura del giallo porterà ad un finale telefonato che sarà solo una delle molteplici facce delle storie raccontate e anche per Bellamy ci sarà un redde rationem.
Per la prima volta il grande Maestro si avvale del mostro sacro Depardieu per un suo film, creando un binomio che sembra rispecchiarsi in se stesso, tanto la figura del detective ha in comune col modus operandi del regista così pregno di curiosità e disincanto.
I peccati più o meno torbidi della provincia tornano ancora in prima piano in un film di Chabrol, descritti e studiati con la solita distaccata ed elegante classe dal regista; la figura del detective per buona parte del film si fonde con l'occhio di Chabrol , salvo poi scoprire che scheletri dentro l'armadio ne ha anche lui e pure pesanti; la sua curiosità professionale lo porta ad indagare sempre col sospetto che lo tallona, anche per le faccende famigliari.
Ecco quindi che da una parte il giallo segue i suoi binari che tutto portano tranne che suspance , dall'altra il ritratto di Bellamy acquista contorni sempre più nitidi attraverso il suo modo di condurre le indagini, il suo rapporto con la bella moglie che sa molto di platonico e poco di carnale ma non per questo privo di stima ed amore, il suo eterno scontro col fratello che nasce da atavici contrasti.
Alla fine il film risulta atipicamente bello nell'ottica chabroliana, forte di un intimismo non proprio consono al Maestro e magnificamente nobilitato da un Depardieu in gran forma , sempre più grasso, ma sempre più bravo, affiancato da una brava Marie Bunel (nel ruolo della moglie), a tratti con forti venature erotiche soprattutto quando comunica al marito di essere uscita senza mutandine.

mercoledì 9 dicembre 2009

301 , 302 ( Park Chul-soo , 1997 )


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Ossessioni e turpitudini

Da come parte il film intuiamo subito il ruolo che il cibo avrà nel suo svolgimento: presentazioni di ricette raffinatissime, preparazioni accurate, ingredienti scelti con cura; tutto concorre allo sviluppo di una forma di ossessione che sarà solo una delle numerose presenti nella storia.
Due donne , vicine di casa, apparentemente diverissisme tra loro: una estrosa , provetta cuoca, con una casa open space fatta solo di una immensa e funzionalissima cucina che ha dedicato tutte le sue forze all'arte culinaria sin da quando era sposata; l'altra più simile ad un' anacoreta, silenziosa, schiva che vive la sua esistenza da giornalista in totale isolamento, anoressica e asessuata.
Così diverse in apparenza, ma così simili quando iniziamo a conoscerle meglio , passando attraverso la diffidenza iniziale, la contrapposizione violenta ed infine, intuiamo , una sorta di attrazione amorosa, fino al finale drammaticamente degno di tutta la storia in cui ogni cosa troverà il giusto posto ed ogni ossessione verrà placata.
Il film di Park è una carrellata lucida e spietata di ossessioni (cibo e sesso) soprusi (molestie sessuali ) turpitudini varie (violenza psicologica su adolescenti) che incute un disagio profondo che contorce il ventre.
La donna che cerca nell'ossessione per la cucina una forma di gratificazione da parte del marito e che non disdegna l'atavico connubio cibo-sesso , giungendo fino alle soglie dell'obesità quando l'unica soddisfazione giunge solo da se stessa prima di approdare al divorzio, l'altra donna vessata, molestata da bambina dal padre, annientata psicologicamente che rifiuta il cibo ed il sesso sentendo dentro di sè la ripugnanza per quanto subito. Troveranno, nel narrarsi reciprocamente le loro vite, una forma di unione sempre più profonda fino all'attrazione finale e alla conclusione che è quella intimamente desiderata da entrambi , che si materializza con un altro gesto estremo.
La forza disturbante del film è sicuramente l'aspetto più valido insieme alla sapiente regia che sa giostrare le due protagoniste in lunghi flashback e in spazi ben fotografati con un cromatismo pastellato dominante.
Non è del tutto fuori luogo ritenere questo un film "malato" e "marcio" , ma è altrettanto vero che Park ha saputo creare un lavoro con tematiche simili senza cadere mai nell'ovvio e nella spettacolarizzazione; soprattutto è riuscito a tratteggiare due personaggi a modo loro difficili e ostici con grande chiarezza e forza empatica.

Il mio amico Eric ( Ken Loach , 2009 )


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Il potere del mito

Eric fa una vita grama, consegna e smista posta, il suo unico vero amore lo ha mollato ormai 30 anni orsono dopo avergli dato una figlia e lui non l'ha mai dimenticata, la seconda moglie è sparita lasciandogli come simpatico dono due adolescenti nullafacenti, la sua casa sembra più un bordello di quart'ordine che una dignitosa dimora, la figlia studia all'università cercando di conciliare il suo ruolo di madre di un bamboccetto quasi neonato e quando gli chiede di accudire il piccolo dividendosi i compito con la sua prima moglie, va nel pallone, troppo grande essendo il fardello di doverla rincontrare.
Uniche consolazioni sono i suoi amici e colleghi di lavoro che si danno da fare nel sostenerlo , senza grandissimi risultati a dire il vero e la sua infinita idolatria per Eric Cantona, ex campione del Manchester United, di cui serba una gigantografia nella sua camera. Un giorno mentre rimugina con se stesso fumandosi tristemente una canna l'idolo diviene realtà, si siede accanto a lui, gli passa lo spinello e da quel momento diventa il suo consigliere personale invisibile, il suo compagno di chiacchierate, il suo mentore , la sua coscienza critica.
Anche quando le cose prenderanno una piega drammatica, il totem vivente sarà accanto a lui e lo spronerà, portando a galla una personalità sopita dall'abbrutimento.
Ancora una volta Loach fa centro, dimostrando una versatilità e una capacità di muoversi tra commedia e dramma con grande tatto e sensibilità; i grandi temi sociali sono alle spalle, appena accennati in questo film; qui c'è un ricorso ad un intimismo del microcosmo personale in cui l'esaltazione del potere taumaturgico della solidarietà parentale e dell'amicizia dominano incontrastati.
L'apparizione del mito di una vita ha l'effetto di uno specchio nella vita di Eric, uno specchio in cui riflettersi e da cui ottenere forza, auotstima, coraggio: un confronto tra la vita triste di Eric e la vita dorata del campione cui però non manca sensibilità e altruismo anche nel raccontare le sue epiche gesta sportive.
I diaolghi tra i due sono molto belli con Cantona nel ruolo del saggio dispensatore di consigli ( "Ci sono sempre più scelte di quanto crediamo") che esalta il libero arbitrio e la capacità umana di poter decidere il proprio futuro e le propie azioni in maniera attiva e vitale.
Quasi nel finale Loach ci regala una divertentissima scena quasi surreale nel momento in cui parte la spedizione "punitiva" contro il bullo del quartiere, reo di turbare il ritorno ad una vita normale di Eric, all'insegna dei cori su Eric Cantona intonati dai tifosi del ManUtd.
Steve Evets è bravo nell'interpretare un Eric ora triste e abulico, ora tenero e volitivo ed Eric Cantona si dimostra immenso istrione anche fuori dal campo interpretando se stesso con la stessa classe e apparente strafottenza con cui calcava i campi di calcio, sorretta da una simpatica autoironia rappresentata da quel suo modo di tirarsi su il colletto della maglietta di calcio che tanto ha stregato milioni di tifosi.

domenica 6 dicembre 2009

Closer ( Mike Nichols , 2004 )


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Bei dialoghi, film non convincente

Trasposizione cinematografica del grande successo teatrale di Patrick Marber , questo Closer di Mike Nichols non convince per nulla, pur risultando un lavoro in cui la mano del regista si apprezza soprattutto nella gestione dei dialoghi, resi bene e con il ritmo giusto.
Ma non sempre, anzi quasi mai, un buon pezzo teatrale è necessariamente un buon film , maggiormente quando tenta di rimanere il più fedele possibile al testo originale.
La storia è quella di un giornalista, nonchè mezzo fallito scrittore che lavora come redattore di necrologi, un dermatologo, una spogliarellista americana e una fotografa , le cui vie si incrociano, si scontrano, si allontanano, si arrovellano restando sempre alla stesso punto e cioè la difficoltà di avere rapporti normali, basati sulla fiducia e sul rispetto reciproco; viceversa l'amore inteso come possesso e come lotta di egoismi.
Il film parte bene, rimane su binari che attraggono, ma poi ad un certo punto inizia a contorcersi su stesso senza costrutto, infondendo anche un certo senso di fastidio, avendo la percezione di trovarci , a volte, più in una soap opera che in un film. Peccato perchè i dialoghi sono belli , serrati, diretti , taglienti soprattutto riguardo al sesso, trattato senza peli sulla lingua, ma sfugge ad un certo punto il contatto con le tematiche che possono accalappiare il pubblico.
Bravissimo Owen, che offre la sua credibilissima faccia un po' carognesca al personaggio meglio disegnato, brava la Portman nella sua freschezza, meno credibile Jude Law, un po' troppo bamboccesco in alcuni momenti, assolutamente fuori luogo la Roberts, la cui faccia perennemente lessata non si addice a personaggi di così forte impatto emotivo interiore.

sabato 5 dicembre 2009

Gli innocenti ( Per Fly , 2005 )


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Borghesia e rimorso

Carsten, docente universitario stereotipo del rivoluzionario da salotto , intrattiene una relazione con una sua ex allieva militante dei gruppi dell'estrema sinistra; quest'ultima in una azione di sabotaggio rimane coinvolta nell'uccisione di un poliziotto e sarà proprio il suo amante a convincerla a non confessare il delitto, dando il via a una cascata di rimorsi, sensi di colpa e lacerazioni interiori che stravolgeranno la vita del brizzolato docente.
L'occhio critico e attento di Per Fly si posa stavolta su certa borghesia intellettuale e pseudorivoluzionaria non immune però dalle meschinità e dagli egoismi: Carsten sembra agire più in virtù di un riflesso di autoconservazione nel tentativo di manipolare la propria giovane amante, spaventato dalla sua possibile perdita, salvo poi mostrarcelo vestito da figliol prodigo quando tenta di tornare dalla moglie una volta capito che i rimorsi e i sensi di colpa appartengono solo a lui.
Il bravo Jesper Christensen da il volto ad un personaggio che non convince appieno, sembrando in alcuni momenti più un cinquantenne insoddisfatto e con fregole giovanilistiche , e questo probabilmente è il limite maggiore del film, insieme ad uno scontato e a tratti quasi patetico metaforico volo in deltaplano che fa capolino ogni tanto e che chiude la storia.
Per il resto la regia è senz'altro valida, molto curata con frequenti zone d'ombra che accentuano il senso drammatico del film, anche se talvolta il ritmo della narrazione raggiunge livelli quasi saporiferi.
Se il fine del regista era quello di descrivere i tormenti e le lacerazioni di una certa borghesia, l'operazione è riuscita , seppur con qualche limite, se invece l'intenzione era quella di raccontare la forza destruente del rimorso il risultato è lungi dall'essere compiuto a regola d'arte.

venerdì 4 dicembre 2009

A Petal ( Jang Sun-woo , 1996 )


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Catarsi e coscienza

Inserti in un bianco e nero sfocato squarciano la storia mostrando quello che rimane un macigno pesantissimo sulle coscienze e sulle esistenze di tanti coreani. Tutto nasce da quei giorni a Kwangiu: vite spezzate, esistenze distrutte ed annientate per sempre, morti spostati come sacchi di patate e vivi che vagano sembrando morti.
Jang descrive con crudezza i drammi umani che esitano da quei giorni, prendendo come paradigma la giovane vita umiliata della 15enne protagonista, rimasta sola e in preda alla confusione totale.
Il dramma di una nazione e quello dei singoli, la violenza delle armi e quella privata sotto forma di abuso, la mente e il corpo implosi sotto il peso di una esperienza che strappa l'adolescenza lasciando solo uno spettro allucinato e senza futuro.
Ma neppure la violenza sessuale e i modi da troglodita dell'uomo presso cui cerca riparo riescono a scuotere la ragazzina, che solo in un lungo dialogo immaginario col fratello morto, troverà la forza di ricordare e raccontare tutto, prima di sparire alla nostra vista per sempre, inconsapevoli del suo destino.
E' un film durissimo, quasi provocatorio, che suona tanto come catarsi personale per il regista e per tutti coloro che vissero quei giorni del 1980, in cui i crepitii delle armi, i blindati , le strade disseminate di cadaveri rimangono sempre in un piano lontano, volendo invece focalizzare il dramma intimo e privato che tanti coreani investì.
C'è molto neorealismo nella descrizione del degrado e della disperazione, c'è molto Kim Ki-duk nella descrizione del morboso rapporto quasi vittima-carnefice tra la ragazzina e il suo nuovo tutore e c'è grande bravura di Jang nel tracciare un filo poetico ricco di dramma e abiezione ricorrendo al bianco e nero per le scene dei tumulti e all'animazione per i momenti onirici e allucinatori.
Rispetto al più recente May 18 ,che tratta dello stesso tema con un impronta più di cronaca, sicuramente questo ha una forza maggiore e crea uno stato di commozione strisciante che diviene struggente in alcuni istanti , rendendo alla perfezione il senso del dramma epocale insinuato nei singoli.
Piccola nota per la bravissima Lee Jung-hyun , splendida interprete della annichilita ragazzina protagonista, nei cui occhi domina il velo dell'annientamento.

giovedì 3 dicembre 2009

Orphan ( Jaume Collet-Serra , 2009 )


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Thriller innevato

Un agghiacciante inzio onirico ed un finale con colpo di scena racchiudono questo thriller che dice poco di nuovo, ma svolge almeno la storia in maniera progressivamente incalzante e coinvolgente.
La famiglia è di quelle tipiche: genitori benestanti, bella casa , due pargoli , una delle quali sordomuta, qualche scheletro neanche tanto nascosto nell'armadio (tresca lui, alcolismo lei) sempre utile per creare il substrato di colpa e rimorso, dolorosissimo evento che lascia cicatrici eterne (la morte della terza figlia in prossimità del parto), grande gesto di altruismo ed amore con la decisione di adottare una bambina per colmare il vuoto e indirizzare l'affetto della comunità familiare verso chi ne ha bisogno.
La scelta cade su Esther, che fulmina subito i due coniugi con una intraprendenza e una brillantezza non propriamente consone alla sua età: e che la bambina sia quantomeno strana lo dimostra subito: dipinge quadri come fosse Ligabue, suona Tcaikovski al piano senza spartiti, si veste come una bambola con sfoggio di merletti e nastri, da sfoggio di conoscenze sessuali e soprattutto dove c'è un guaio c'è sempre lei. Quando la madre adottiva scoprirà le sue doti di manipolazione sui fratelli e la sua capacità di infilarsi tra le pieghe dei problemi familiari con fare mestatorio, molti dubbi inizieranno a sorgere, compresa la provenienza della fanciulla.
Il colpo di scena finale darà l'avvio ad una sequela incalzante con soluzione tra le nevi e il ghiaccio.
Come detto, se il prodotto non brilla certo per originalità, comunque la storia viene via bene anche nei momenti di calma apparente, portando ad una impalpabile tensione crescente, quella tipica di quando è chiaro che qualcosa di deflagrante sta per avvenire; ma soprattutto il film vive sull'interpretazione maestosa della giovane Isabelle Fuhrman, sguardo satanico in un corpo quasi privo di movimento. La costante e opprimente presenza della neve contribuisce a creare un clima cupo in un efficace contrasto cromatico.
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