sabato 28 novembre 2009

No mercy for the rude ( Park Cheol-hie , 2006 )


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Esordio convincente


Altro esordio promettente questo di Park Cheol-hie (già conosciuto come sceneggiatore) che scrive e dirige questo film, ennesimo tentativo di fusione di vari generi.
Diciamo subito che il risultato è senz'altro apprezzabile e lascia ben sperare per il futuro, grazie ad una regia attenta e stilisticamente valida.
Il protagonista del film ( un superbo Shin Ha-kyun che già muto vedemmo in Mr Vendetta) è un giovane che per un difetto della lingua non riesce a parlare e decide di racimolare i soldi che gli servono per l'intervento correttivo facendo il killer, lavoro che se rende bene è però profondamente inadatto a lui , troppo incline alla compassione e ai buoni propositi; troverà la quadratura del cerchio della sua coscienza imponendosi come regola di uccidere solo la feccia dell'umanità.
E' talmente di animo buono il giovane che la sua casa diverrà rifiugio per una bella fanciulla dal lavoro equivoco e per un fanciullo che vive in strada , i quali , soprattutto all'inizio, gli saranno di non poco intralcio, lui abituato a stare da solo e impossibilitato a comunicare.
Quando il traguardo della somma necessaria sembra quasi raggiunto , alcuni colpi di scena porranno un freno al suo progetto e , soprattutto, saranno i sentimenti e la sua sete di giustizia a venire a galla in modo dirompente.
Se la figura dell'angelo vendicatore risulta un po' abusata nonchè forzata, il resto del film si muove con brillante scioltezza tra noir , commedia e grottesco con una curiosa carrellata di personaggi quasi inverosimili soprattutto nella prima parte che si avvale di una certa leggerezza , nonostante i frequenti fendenti al torace inferti alle vittime designate. Poi assistiamo al viraggio verso il dramma vero quando alcune situazioni giungono alla resa dei conti in un finale intriso di lacrime , sangue e di una eccessiva melodrammaticità.
Il film comunque vale pienamente la visione e lascia un senso di amara tristezza ; l'esistenza dei tre personaggi principali, a loro modo emarginati e rifiutati, è ben rappresentata, soprattutto grazie alla voce narrativa del protagonista che funge da descrizione del suo fiume di pensieri, dimostrando come, anche in difetto di favella , lo scorrere dei sentimenti può essere chiaro e leggibile; in alcuni momenti brilla anche per sprazzi di poeticità e offre soprattutto alcune scene veramente valide (le maldestre azioni dei poliziotti, il picnic con abiti sivigliani e corride simulate) che si avvalgono di una variegata colonna sonora che spazia da Ravel a "Bella ciao".

venerdì 27 novembre 2009

Beyond the years ( Im Kwon-taek , 2007 )


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Cento volte Im

Per onorare il suo centesimo lavoro, Im si permette il lusso ( lui può...) di autocitarsi riprendendo il suo magnifico Sopyonje e manipolarlo al punto che il risultato non è nè un sequel nè un film parallelo: utilizza gli stessi protagonisti inserendoli in un background diverso e ci porta a spasso nel tampo per circa 40 anni.
Vediamo Dong-ho alla ricerca della amata sorella , che poi sorella non è visto che entrambi sono stati adottati dal padre, imbattersi in luoghi che scatenano tempeste di ricordi e la sua ricerca a ritroso nel tempo, vista come racconto, assume ben presto i connotati melanconici e del rimpianto.
Il suo non è amore fraterno, tanto che se ne accorge anche la moglie svogliatamente spostata, è amore quasi platonico in cui manca assolutamente l'aspetto carnale e fisico.
Song-hwa , avendo più talento di lui, vivrà tutta la vita a fianco del padre alla ricerca della perfezione nell'arte del pansori, subendo le vessazioni e l'egoismo di quest'ultimo.Morto il padre arriva il momento di ricongiungersi, ma questo avverrà solo fugacemente tanto doloroso sembra essere il loro rapporto affettivo. Nel corso della vita Dong-ho rincorre la sorella per tutta la Corea, le fa da bussola il canto triste e la voglia di tornare assieme.
Un finale quasi fiabesco lascerà molti dubbi, non certo quelli sulla qualità del film.
Ancora una volta Im mostra grandissma sensibilità e legame con la propria terra; presenta il pansori come la summa delle tradizioni da difendere e da rivalutare, guarda con occhio pessimista al futuro tecnologico che costruisce dighe, prosciuga fiumi, abbatte alberi e toglie asilo alle cicogne.
La maestria tecnica è sublime, creando un opera dal punto di vista stilistico quasi perfetta, con la giusta miscela di colori, paesaggi e natura.
Rispetto a Sopyonje le emozioni sono meno forti e laceranti e quindi colpiscono di meno, ma l'organicità del film , seppure tra magistrali flashback , è davvero superba.
Inviamo agli Dei della celluloide anche per Im la preghiera che ce lo conservino ancora per tanto tempo con la stessa forza poetica e voglia di cantare i sentimenti.

giovedì 26 novembre 2009

Il profeta ( Jacques Audiard , 2009 )


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Carcere e vite segnate.

E' rimasto in lizza fino all'ultimo per la vittoria della Palma d'oro, in ballottaggio con Il nastro bianco di Haneke : alla fine nella giuria presieduta da Isabelle Huppert ha prevalso, una volta tanto, l'affinità artistica al proverbiale sciovinismo francese.
Il lavoro di Audiard comunque non avrebbe sfigurato affatto come vincitore del Concorso, anzi.
La storia, un po' gangster story, un po' da filone carcerario tanto in voga qualche anno fa è di quelle che lasciano il segno, colpendo per il cinico realismo e per la descrizione di un ambiente irrimediabilmente votato al dramma.
Malik (un bravissimo Tahar Rahim) è un giovane di origini arabe che viene sbattuto in carcere per scontare sei anni; all'ingresso nel penitenziario lo vediamo quasi come un vitello pronto per il mattatoio e l'inizio dell'esperienza non è dei migliori: prima i soprusi poi le avanche e infine l'incarico, autentico battesimo di fuoco, da parte di un boss corso (un fantastico Niels Arestrup) che spadroneggia nel carcere, di uccidere uno scomodo testimone.
Il giovane non sa e non può rifiutare e questo lo porterà nell'orbita del boss corso che lo prenderà sotto la sua ala protettiva.
Il tempo passa e con furbizia e scaltrezza, muovendosi tra le varie bande del carcere e con missioni camuffate da permessi premio, il giovane assurgerà a boss emergente fino a svincolarsi dal vecchio padrino.
Il finale, apparentemente positivista, nasconde invece un retrogusto amarissimo: finita la vita nel carcere, ci si getta nel mondo libero per continuare a vivere nello stesso modo.
Audiard dirige il film con grande discrezione, lasciando parlare la marea di facce da galeotto, le coltellate, gli sguardi , le trame, insomma tutto il microcosmo che si ricrea in un carcere a somiglianza del mondo esteriore; non c'è ricerca di redenzione, c'è solo il tentativo di rimettere in piedi l'unico mondo che conta per un malvivente. L'ascesa del giovane Malik e la caduta lenta e inesorabile del vecchio corso si incrociano, collimano e si scontrano spesso in un rapporto che sa tanto di aguzzino e carnefice, da qualsiasi angolo lo si valuti e il cinico messaggio che per affermarsi serve solo la violenza. Il carcere assurge ad emblema del luogo dove l'unica amicizia che conta è quella che ti fa sopravvivere dalla parte giusta, privo di ogni senso morale e di via d'uscita; il carcere passa e la vita rimarrà la stessa, anche con una bambina che aspetta fuori il portone della galera.

lunedì 23 novembre 2009

Le luci della sera ( Aki Kaurismaki , 2006 )


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Elegia della solitudine


Koistinen è un povero disgraziato che sbarca il lunario come guardia giurata in un centro commerciale; i benpensanti e gli psicologi lo definirebbero un sociopatico: taciturno , senza amici nè donna, deriso dai colleghi di lavoro, è semplicemente un uomo solo.
Quando una avvenente bionda lo avvicina per scopi molto poco nobili, il nostro proverà se non amore almeno un po' d'effetto per lei, che lo ricambia mettendolo in un guaio che gli costa il lavoro, la casa e che lo spedisce in galera per un anno con l'accusa di favoreggiamento in una rapina.
Lui sopporterà con spirito ben più che evangelico, un po' per un senso di amore e di onestà verso l'imbrogliona e un po' perchè si convince vieppiù che il suo è un destino di perdente.
Come sempre Kaurismaki leviga un po' gli spigoli in un finale dove perlomeno si intravvede un po' di luce.
Questo lavoro del regista finlandese, sempre più apprezzato da chi ama il cinema di qualità, è una sorta di elegia , triste e cupa della solitudine, generata ed amplificata da una umanità senza valori e senza alcuna morale.
Ritratto di perdenti, disegnato a tinte più scure rispetto ai lavori precedenti e messo sullo schermo usando una tecnica cinematografica depurata di ogni aspetto superfluo: immagini nette, fredde, che mostrano una periferia di Helsinki al limite dell'alienante, dialoghi secchi, battute con sguardi fissi a scrutare lontano, commento musicale cha spazia da Gardel, alla lirica e al rock e soprattutto una storia intrisa di grande umanità, quasi uno studio antropologico.
Sembra un po' più pessimista Kaurismaki in questo film: la rivincita morale dei perdenti è appena abbozzata, quasi fosse un lampo, in uno sconcertante e amaro degrado in cui la solitudine sembra la sola risorsa per andare avanti.

giovedì 19 novembre 2009

Cadaveri eccellenti ( Francesco Rosi , 1975 )


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Rivisitazioni cinematografiche / 9
C'era una volta il cinema di denuncia


La rivisitazione di questo film,fedelmente ispirato a Il Contesto, bellissimo romanzo di Leonardo Sciascia, lascia un amaro senso in bocca: la percezione netta della morte e sepoltura, in Italia almeno, del cosiddetto cinema di denuncia di cui Rosi senz'altro è stato uno degli autori più validi. In pieno periodo di strategia della tensione, drammatico preludio agli anni di piombo che verranno, il regista prende un testo molto controverso, bersaglio di aspre critiche e lo mette sul grande schermo dando sfoggio di una grande coraggio e di una lucidità narrativa pari al romanzo e attirandosi critiche ben più feroci che il libro.
L'ispettore Rogas si trova ad indagare sugli omicidi di alcuni alti magistrati dietro i quali si celano nefandezze provenienti dalle più alte cariche politiche e militari dello stato. Muovendosi tra la Sicilia e i palazzi del potere di Roma capirà che il gioco è più grande di lui e non avrà modo di fermarsi, l'ingranaggio ormai è in moto e nulla può fermarlo.
La lucida e feroce descrizione del potere e dei suoi paladini domina su tutta la storia con riferimenti a fatti e personaggi che seppur di fantasia risultano facilmente intellegibili. La conduzione dell'indagine dell'ispettore è fatta con ritmi lenti, ambientata in spazi grandi che smaterializzano quasi i protagonisti, porta il poliziotto a contatto con un pittoresco ambiente che orbita intorno alle leve del comando fatto di feste snob in cui comunisti (antesignani di certo snobismo cattocomunista ) e reazionari si lanciano in danze sfrenate e in conversazioni da salotti bene.
Due momenti del film su tutti: lo splendido inizio in cui il morituro giudice Varga ( un carismatico Charles Vanel) ci guida in una camminata nei sotterranei della chiesa tra mummie e scheletri con marcia funebre di Chopin in lontananza e un confronto, che poi è quasi un monologo, tra il presidente della Corte di Cassazione Riches ( un gelido Max Von Sydow) e l'ispettore, in cui il magistrato si lancia in parabole e teorie antivolteriane per spiegare l'infallibilità della Giustizia.
La sconfinata schiera di grandi attori ( oltre i citati, Tino Carraro e Fernando Rey) , impreziosisce il film garantendo una recitazione di livelli eccelsi: su tutti emerge però Lino Ventura, faccia da Maigret nostrano, il cui volto passa dalla poliziesca curiosità iniziale all'incredulità del servitore dello stato onesto che scopre le trame fino al terrore per le conseguenze che lo aspettano.

mercoledì 18 novembre 2009

Spider lilies ( Zero Chou , 2007 )


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Tatuaggi e delicatezza.

Film al femminile, ma con sentimenti universali, trattati con delicatezza (forse troppa) e al contempo fermezza e precisione.
Jade è una giovane che vive con l'anziana nonna, abbandonata dalla madre e si guadagna da vivere come protagonista delle sexychat, Takeko lavora come tatuatrice e si porta sulle spalle il fratello rimasto shockato dall'avere assistito alla morte dei genitori durante il terremoto: l'immagine che porta negli occhi è quella del giglio ragno che il padre aveva tatuato sul braccio , fiore che secondo la tradizione e la leggenda segna il percorso che porta all'inferno. Takeko si tatuerà a sua volta lo stesso fiore nella speranza che possa essere daiuto al fratello.
Entambe quindi con perdite ed abbandoni dolorosi alle spalle ed un presente vuoto e faticoso si ritrovanonel negozio della tatuatrice , dopo essersi incrociate anni prima con Jade bambina che provava un senso di adorazione per Takeko e il suo tatoo .
Stavolta l'attrazione e l'amore saranno più sostanziali , realizzati nel tatuaggio che una disegnerà per l'altra ,seppur segnati da lacrime e dolore con un finale che sembra indirizzare verso il "tutto è bene....".
Se effettivamente il film presenta una dolorosa e lacerante delicatezza commista ad un sottile senso dell'eros, d'altra parte sembra indulgere un po' troppo sui traumi e sui disagi delle due giovani, oltre che sul significato filosofico del tatuaggio, apparendo come un nastro che gira e si riavvolge e non scava troppo a fondo sulla natura dell'attrazione che non può essere dettata solo dalla solidarietà di chi è segnato dalla vita.
Viceversa le due figure femminili hanno una loro forza e si impongono bene sullo schermo, aiutate da una regia valida e da ambienti sempre soft, però alla fine molta della loro carica si perde in una sceneggiatura a volte incerta.
Il film comunque vale la visione, anche in virtù dei numerosi riconoscimenti che ha ricevuto: rimane solo il rammarico per un finale incerto, quasi ovvio e per una eccessiva sordina posta ad una storia che poteva essere ben più dirompente.
Molto brave le due attrici: Rainie Yang nella parte di Jade e soprattutto Isabella Leong a suo agio nei panni della tormentata Takeko.

martedì 17 novembre 2009

L'odio ( Mathieu Kassovitz , 1995 )


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Rivisitazioni cinematografiche / 8
Odio senza via d'uscita


Lungometraggio quasi d'esordio di Kassovitz che fece gridare al miracolo considerata la giovane età del regista, che però ahimè è rimasto più una vaga promossa che una realtà consolidata, alternando lavori buoni ad altri decisamente meno.
Il film , premiato a Cannes tra le polemiche, ritorna periodicamente in auge in coincidenza con i frequenti problemi di ordine pubblico che affligono le banlieues parigine, ma, è bene dirlo, la pellicola ha una sua profonda validità e credibilità, non tanto relativamente ai fatti accaduti da cui prende lo spunto, bensì per una forza indagatrice che la percorre.
Vinz , Said e Hubert sono tre giovani della periferia parigina , in vario modo vivono una vita ai margini della legalità, fatta di emarginazione, rabbia, disprezzo ed espedienti: li seguiremo per circa 20 ore in coincidenza delle proteste seguite al pestaggio di una sedicenne arrestato e ridotto in fin di vita.
Questa situazione diventa per loro un modo per vendicare la loro misera esistenza, resi spavaldi e forti dal fatto di aver trovato una pistola persa dagli agenti durante gli scontri. Tre personaggi che vivono la loro situazione sociale in modi diversi , a volte contrapposti, ma immancabilmente segnati dall'odio verso tutto ciò che è precostituito.
La storia è ben diretta, con dialoghi crudi , taglienti , spesso ridondanti ma credibili, con un bianco e nero bello, soprattutto nelle scene notturne che concorre a determinare un clima pesante che si apprezza in tutto il film: quello del disagio , della disperazione, della mancanza di futuro, del pessimismo più cupo.
Viene da porci la domanda che poi in tanti, sociologi , psicologi e politici, si pongono: sono queste situazioni in cui osservare e capire è lecito e giusto? Oppure bisogna bollare i tre giovani come teppaglia e basta?
La risposta sta nel colpo di pistola che all'alba si udrà e che chiude il film: comunque qualcuno in questo gioco tra disperati perde di sicuro.

In the cut ( Jane Campion , 2003 )


Giudizio: 3.5/10
Presunto thriller incrociato a psicodramma sessuale.

Ingredienti per il guazzabuglio: prendere un best seller (Dentro di Susanna Moore, cosceneggiatrice del film), manipolarlo all'uopo, aggiungere un'attrice (Meg Ryan) campionessa di ruoli brillanti e trasformarla in protagonista drammatica con l'aggravante di millantate situazioni hard, spacciare il tutto come un thriller contando sul marchio di garanzia posto da una regista stimata. Il risultato è un polpettone noioso, brutto, che del thriller non ha nulla e in cui le strombazzate prestazioni hard si riducono ad una scena in penombra in cui la Ryan ci offre la visione del suo non certo florido seno e del lato b.
Sembrano veramente lontani anni luci i tempi di Lezioni di piano ed il film brilla solo per la confusione e la sgangheratezza (ben esplicitate dalla faccia perennemente ebete di Meg Ryan).
Se a ciò aggiungiamo che il polpettone è riccamente farcito di luoghi comuni stucchevoli che vanno dal machismo dei poliziotti alle fregole sessuali delle donne mature infarinate di psicodramma, dalle immagini stereotipate di New York (compreso l'immancabile ponte di Brooklyn, ma ci sarebbe stato bene anche lo skyline con le Twin Towers se fossero state ancora in piedi) alle frustrazioni di donne mature (di nuovo) semifrigide ma che covano dentro il demonio pronto ad esplodere se ben stuzzicate; il tutto spalmato su una trama che vorrebbere essere quella di un thriller con tanto di morti fatti a pezzi , ma che di fatto ruota tutto intorno ad una fellatio in un gabinetto di un bar con annesso voyeur interessato.
Inutile dire che del thriller non c'è assolutamente nulla e che se il torbido clima iniziale che porta la protagonista in rotta di collisione col poliziotto che scatenerà la sua ingordigia sessuale può avere un qualche fascino, il seguito del dramma piscosessuale si fonde con la presunta struttura del thriller e ne viene fuori una storia che fa smaniare non poco lo spettatore tanta è la voglia di abbandonare la visione.

domenica 15 novembre 2009

Even if you walk and walk ( Hirokazu Koreeda , 2008 )


Giudizio: 8/10
Lacerante saga familiare

C'è profumo di saga familiare nel nuovo lavoro di Hirokazu Koreeda: in poco meno di due ore siamo guidati con grande delicatezza e pudore nelle storie che si intrecciano nella famiglia Yokoyama, radunatasi come tradizione nel giorno dell'anniversario della morte del figlio maggiore.
Tutto l'ambiente infonde un clima di grande serenità ma man mano che proseguiamo nel racconto ci si rende facilmente conto che sotto l'armonia covano situazioni ed intrecci personali non proprio idialliaci.
Il capofamiglia è un anziano medico in pensione, burbero, ancora legato al suo lavoro che vive la delusione di non avere visto nessuno dei figli ripercorrere le sue orme professionali; la madre è una donna culinariamente dinamica che ancora cerca di insegnare alla figlia ricette e segreti di cucina e che vive di continui ed affettuosi contrasti col marito.
Il figlio maschio , restauratore che stenta ad affermarsi nel campo del lavoro, sposato con una donna vedova con figlio al seguito e la figlia femmina sposata con un cialtrone chiassoso e con prole altrettanto chiassosa che brigano per potere andare a vivere nella bella casa dei genitori; su tutti aleggia la figura del figlio morto giovane in mare nel tentativo di salvare un ragazzino che vediamo nel corso del film presentarsi in visita alla casa , come tradizione da quando il suo salvatore è morto, e che diviene l'inconsapevole bersaglio del dolore represso della madre che non allevia in minima parte, anzi rinfocola , il suo senso di colpa.
Tutto viene a galla, in modo pacato ma non per questo meno incombente: la delusione paterna, il senso di inadeguatezza e il rancore del figlio, ancora adesso troppo spesso paragonato e confuso col fratello morto, la possessività materna che si scontra con le dinamiche coniugali del figlio, la totale assenza di moralità della famiglia della figlia, il senso di strordimento del figlio della vedova che vorrebbe vedere nel marito della madre una nuova figura paterna. Tutto viene a galla e nulla si risolverà, mostrando il rimpianto per avere perso il momento adatto per sistemare le cose.
Pur non toccando le vette eccelse di Nobody knows, anche stavolta Koreeda fa centro in maniera splendida: un affresco di famiglia dilazionato in poco più di 24 ore in cui la forza dei sentimenti emerge senza fragore ma con un grande senso di rimpianto; quello che è stato ormai non è modificabile, manca il tempo e forse anche la volontà di non soffrire troppo. I fitti dialoghi sono il vero pezzo forte del film che, lungi dal soffrire di staticità,corre sullo schermo con grande grazia.
Rimane alla fine un amaro senso di incompiuto in cui la gran parte degli spettatori si rispecchierà: quante volte ci è mancato il tempo o abbiamo perso l'attimo fuggente per compiere un gesto piccolo o dire una parola? Vero, la famiglia Yokoyama avrà l'occasione l'anno seguente , al prossimo anniversario, ma intanto il tempo passa......

Running out of time ( Johnnie To , 1999 )


Giudizio: 7.5/10
Noir leggero

Gustosissimo noir , un po' meno nero del solito, questo lavoro di Johnnie To, confezionato con molta ironia e leggerezza.
Cheung, ladro gentiluomo e un po' atipico, dopo avere scoperto di avere ormai poco da campare causa un cancro, mette in piedi un colpo con relativa fregatura da tirare ad un boss malavitoso: in modo più o meno volontario coinvolge e attira, quasi fosse un gioco, il detective Ho, alle prese con colleghi inetti e costretto grazie alla sue doti di negoziatore a mettere riparo alle loro malefatte.
Tra i due nascerà una sorta di strana complicità e "amicizia", necessarie ad entrambi per portare a termine i loro piani.
E' questo forse l'unico film di To, commedie escluse, in cui non assistiamo alle leggendarie sparatorie, agli inseguimenti arditi e ai corpi trafitti da pallottole; tutta la storia è sapientemente giocata su un piano etereo con scampoli da commedia , a tratti addirittura comici. Il tema dell'amicizia virile e della lealtà è visto con occhio più divertito e meno tragico, non per questo risultando però meno incisivo. Il sottile gioco che si insinua tra i due, fatto di mezze verità e mezze menzogne, condurrà ad un finale col sorriso sulle labbra , solo appena venato di mestizia.
E' quindi ancora una volta la dinamica delle relazioni tra i personaggi ad incuriosire il regista che anche in questo caso ce li disegna come eroi solitari e ben calati nelo loro destino.
La scena nella sala da bowling, perfetto controaltare non violento ai duelli cruenti tipici di To, risulta ugualmente molto ben costruita e giostrata nello spazio scenico.
Bravi i due attori principali : Andy Lau nel ruolo di Cheung ,perennemente in bilico tra mestizia e sorriso accattivante, e Lau Ching-Wan nel ruolo dell'ispettore Ho.
Ritroveremo la stessa leggerezza e ironia quasi 10 anni dopo in Sparrow, a dimostrazione che la classe non è acqua.

venerdì 13 novembre 2009

Kill Bill ( Quentin Tarantino , 2003 )




Giudizio: 9/10
Epopea del Cinema


Rivedere Kill Bill è come vedere ogni volta un film nuovo; ti chiedi : " E questa scena? da dove salta fuori? Possibile che non la ricordi? Possibile che mi sia sfuggita questa battuta?" Poi , quando ti fai una ragione che questo non è un film come gli altri, bensì un compendio universale del Cinema in tutte le sue variegate forme, ti rendi conto che è assolutamente normale. Esistono veramente pochissimi capolavori che racchiudono in sè una forza dirompente come questo, un parossismo cinematografico estremo che esplode in ogni angolo e che rimanda ad altre pagine e ad altri momenti di grande suggestione.
Solo uno come Tarantino , vissuto a pane e cinema, poteva concepire una tale operazione e portarla a termine col risultato che possiamo ammirare: ha assorbito e metabolizzato generi, momenti magici, facce , musiche e poi come un antica divinità greca dell'Olimpo li ha manipolati e forgiati a sua immagine e somiglianza disegnandoli sullo schermo e facendoli rivivere.
Il melò che va a braccetto con lo splatter, l'action movie che si fonde col fumetto, il dramma che da vita all'eroe senza tempo, tutto visto con gli occhi di chi è stato bambino, di chi ha amato il western e i B movie, Kurosawa e i manga, il cinema orientale e il noir; operazione sublime, indimenticabile omaggio ad un'arte che fa dell'immagine il suo epicentro; e le immagini di Tarantino sono ridontanti, esagerate, muove la sua mano un amore infinito per le storie da Cinema che contemplano la vendetta, l'amore filiale, l'erculeo eroe invincibile mai domo, la forza interiore insegnata dai saggi orientali, il truce rispetto per chi , cacciatore famelico, porta solo morte.
La frase che apre il film ("La vendetta è un piatto da servire freddo") fa da motore a tutta la storia, intrisa di amore e sangue, odio e disprezzo: una lunga corsa per arrivare in tempo a farsi servire il piatto freddo.
Su tutto questo ribollire domina l'idea cinematografica del regista, ricca di ironia, sarcasmo, ricerca dell' (elegante)esagerato da lanciare addosso a chi guarda investendolo e stordendolo, usando un montaggio frenetico, un alternarsi del colore e del bianco e nero, dei dialoghi fitti a volte, muti altre, giocati solo con gli occhi; dipana la storia in un trambusto temporale che non confonde , anzi affascina, mostra violenza e ferocia come momenti essenziali al ruolo dei personaggi e infine regala pagine di pura estesi cinematografica ben sostenute da musiche che vanno dal country a Moricone passando per la disco dance.
Un'opera geniale quindi, splendida , di quelle da conservare in caso di disastro nucleare che annienti l'umanità, un film che diventa calidoscopio di immagini e di sensazioni forti, che appagano corpo e anima.
Dice Tarantino che la Sposa riposerà per dieci anni e poi forse tornerà all'opera: se così sarà dovremo iniziare il countdown , proprio come si fa per gli eventi epocali, sperando sempre che la genialità del regista rimanga purissima e stupefacente.

giovedì 12 novembre 2009

La mala ordina ( Fernando Di Leo , 1972 )


Giudizio: 7.5/10
Rivisitazioni cinematografiche / 6
Nascita di un assassino


Luca Canali si guadagna da vivere come magnaccia, non è tagliato per essere un malavitoso serio, è un pidocchio, come lo definisce il boss imperante, ha una figlia ed una moglie dalla quale è separato e che sdegnosamente rifiuta gli aiuti econimici di denaro sporco. Il destino gli riserva un ruolo di inconsapevole capro espiatorio: la sua testa viene offerta ai boss d'oltreoceano come colpevole di una furto di eroina che invece ha eseguito il boss milanese Tressoldi.
Passerà dall'essere circondato da donnine svestite e frequentatore di night a fuggiasco , con alle calcagna due killer che vengono da New York e con il boss locale che gli fa fuori figlia e moglie: la trasformazione sarà quindi inevitabile, anche lui guappo da quattro soldi diventa uno spietato assassino accecato dalla vendetta.
Sullo sfondo della solita Milano a cavallo tra 68 e freakettoni e anni di piombo, dominata dalle bande malavitose, Di Leo tira fuori dal cappello quest'altro noir secco , diretto, essenziale costruito su personaggi credibili , che si distingue per la totale assenza di figure che facciano riferimento all'ordine costituito: si può ben dire che nella storia del cinema è uno dei rarissimi casi di film d'azione in cui non si veda uno straccio di poliziotto. Tranelli, tradimenti, giochi sporchi e innocenti lordati di sangue completano il quadro.
Anche questo come il precedente Milano calibro 9, che risultava però più cupo, assurge a modello di noir d'azione, divenuto riferimento per tanta cinematografia, anche grazie alla consacrazione decretata da Tarantino che molto ha amato questi film. La regia sembra quasi assente , tanto scorre liscia la storia e questo è un pregio enorme del film.La scena finale, notevolissima, tipico duello trasposto dal western, si svolge in un cimitero per auto, dando un senso di squallore e di abbandono.
Accanto a Mario Adorf, sempre a suo agio in ruoli simili, si muovono bene i due killer americani Henry Silva, sempre più cattivo, e Woody Strode e , soprattutto, un Adolfo Celi ,cui neppure la parlata sicula toglie incisività.

mercoledì 11 novembre 2009

Crash - Contatto fisico ( Paul Haggis , 2004 )


Giudizio: 7/10
Los Angeles: babele di storie e sentimenti.

Frammenti di vita quotidiana che si incrociano e si sovrappongono, quasi fossero un esperimento di fusione in un pentolone magico; vite difficili fatte di isteria , misantropia, tensione razziale , incomunicabilità e meschinità.
E' così che Haggis, esordiente sul grande schermo come regista ma al contempo gran volpone della Tv , nonchè sceneggiatore stimato, ci racconta nell'arco di 36 ore le storie di una decina di personaggi immersi e sperduti nel grande brodo primordiale di Los Angeles: raramente abbiamo visto sul grande schermo la metropoli californiana così nitidamente viva, facendo eroicamente a meno di scritte hollywoodiane, di spiagge assolate e di biondone in bikini; la vediamo invece limpida nei piccoli segni: una stauetta di S.Cristoforo, un camioncino pieno di nuovi schiavi, un gabinetto tramutato in letto di sofferenza, un invisibile mantello che protegge dalle pallottole.
Questa Los Angeles pulsa di una cuore multiforme e multietnico , composta da tanti uomini e tante storie, molte al limite, altre tipicamente in linea col sogno americano della nuova frontiera californiana; nulla appare però scontato e i percorsi dei vari protagonisti sprizzano di una umanità e di una credibilità assolutamente priva di caricature e luoghi comuni.
Il coacervo di vite si dibatte , si contorce , esplode e torna a piegarsi su se stesso; la convivenza è difficile, quando non impossibile e la china porta rapidamente verso il baratro : meschinità ed ossessioni, corruzione e odio strisciante sotto la scorza ormai troppo fina, pronte a deflagrare.
Il film è ottimamente girato , i frammenti di vita son tenuti assieme da una porta che si apre , da un rumore in strada, da una macchina che passa, tutto armonicamente e con cura prestando una lucida attenzione a tutto ciò che può avere un senso nella vita dei protagonisti.
La convergenza finale ci porterà alla beffa suprema, i buoni che diventano cattivi e viceversa, e a chiudere il cerchio delle 36 ore con molto spirito americano e troppo ottimismo e buonismo: un film di lucido e reale pessimismo che negli ultimi 10 minuti si vota al conforto e alla lacrima. Peccato , anche se tutto ciò non toglie nulla al giudizio positivo sul film; purtroppo non sempre un abbraccio o un "ti amo" mormorato al telefono sono in grado di mettere riparo alle macerie.

martedì 10 novembre 2009

Thirst ( Park Chan-wook , 2009 )


Giudizio: 8/10
Amore e vampiri

Dopo la parentesi "leggera" di I'm a cyborg but that's ok , Park torna sui suoi passi e ci riconduce a tematiche più drammatiche e pregnanti: questo Thirst , attesissimo, è tutta farina del sacco del regista coreano, nelle tematiche e nell'impatto visivo.
Storia di vampiri che racchiude in sè molteplici facce, ci appare più come uno scandaglio che cerca, scova e porta alla luce drammi e conflitti, percuote la coscienza religiosa e soprattutto rappresenta l'amore, quello carnale, tragico, sofferto.
Il prete che con sommo spirito altruistico va in Africa come volontario per testare un vaccino contro una sconosciuta e terribile malattia e ne ritorna miracolato ma vampiro è il davide che combatte il fato-golia: con la fede cerca di contrastare la sua sete di sangue, non uccide , si abbevera alle flebo dei malati terminali, combatte la bestia che sente crescere dentro di sè; ma quando a ciò si aggiunge il richiamo della carne rappresentato dalla giovane moglie di un suo amico d'infanzia, la lotta è impari e non c'è fede che tenga e gli amplessi si susseguiranno perfino sui letti d'ospedale accanto ad un comatoso. La donna sarà il suo Caronte per l'inferno, si dichiara atea e quindi al di fuori dei problemi morali, e non contenta spingerà il prete-vampiro all'omicidio del marito e alla quasi morte della suocera, ridotta a vegetale.
La parabola quindi volge al termine: divenuto vampiro perchè voleva fare del bene , si ritrova, seppure macerato da colpe , ad essere amante diabolico e assassino, in balia della ragazza divenuta anch'essa vampira per sua colpa: colpa indotta dall'amore e dal desiderio di renderlo immortale.
Un finale di fortissimo impatto visivo darà un senso di compiuto: con un atto estremo, l'amore, dolorosissimo, trionferà anche agli inferi.
Park è bravissimo a girare un film difficilmente classificabile nell'ambito dei generi tradizionali : è senz'altro un grande film d'amore carnale e fisico in cui i due protagonisti mettono in gioco tutto ciò che hanno, condito da riflessioni sulla religione e sui rapporti umani, con una fortissima carica emotiva ed un impatto visivo potentissimo; ma soprattutto da ancora una volta dimostrazione di una grandezza stilistica con una regia formidabile, con ambienti ben studiati e con inquadrature splendide (la scena della madre che rivela come in realtà sia morto il figlio, gioco di sguardi e piccoli movimenti sui volti, è a dir poco spettacolare).
Menzione meritano i due protagonisti principali: Song Kang-ho nel ruolo del prete che va affermandosi sempre più come uno tra i più bravi ed eclettici attori coreani e Kim Ok-bin fantastica nel ruolo della ragazza , capace di dare vita ad una femme fatale che buca lo schermo.
Non siamo probabilmente ai livelli di Old Boy, ma la capacità di Park nel raccontare storie che colpiscono e affascinano è comunque sempre la stessa, per un altro capolavoro c'è tempo.



lunedì 9 novembre 2009

Il nastro bianco ( Michael Haneke , 2009 )


Giudizio: 8.5/10
L' oscurantismo che genera violenza


Anni 1913-14, un piccolo paese rurale della Germania, la neve che lo ricopre per buona parte dell'anno, storie di uomini , donne e bambini votati al rigido luteranesimo, educazione e comportamenti votati al rigore più assoluto e gretto sotto la coperta della fede religiosa.
L'ordine regna sovrano fino a quando una serie di strani e tragici eventi sconvolgono la rigida organizzazione di casta del villaggio, episodi dietro ai quali si celano maldicenze, rancori, invidie e quanto di più turpe l'animo umano possa covare.
La guerra spazzerà via tutto ma il seme ormai è in grembo e darà i suoi efferati frutti poco dopo.
Palma d'oro a Cannes (meritata) , il film di Haneke è perfettamente in linea con l'ideologia del regista, basata sull'osservazione dei comportamenti estremi dell 'uomo che conducono al male; uno spettacoloso bianco e nero che rende la storia ancora più cupa ci presenta personaggi apparentemente normali, ma tragicamente al limite, privi di qualsiasi parvenza di umanità che non potranno che dare luogo alla tragedia, qui per Haneke addirittura collettiva, anche se esposta con una ambiguità che la fa troppo da padrona nel film, unico ma importante neo.
Il film sotto questo aspetto rimane apparentemente troppo superficiale, scava poco, si ammanta di una eccessiva equivocità , senza , sia chiaro, scalfire la validità e la durezza della pellicola.
Il forte richiamo all'importanza della (dis)educazione dei fanciulli , pronti ad assorbire tutto e a renderlo con gli interessi è sicuramente l'aspetto che ha fatto vedere in molti una sorta di genesi del nazismo, non tanto come ideologia, quanto come carico di barbarie represse. Certamente alcuni dei bravissimi fanciulli che recitano nel film hanno le facce giuste per poter esser credibili con la divisa e la svastica addosso, e in questo il film ha sicuramente una sua chiave di lettura tragicamente interessante.
Possiamo poi stupirci se quei nastri bianchi , punizione estrema e simulacri di protezione, possano diventare anni dopo croci uncinate o, peggio, simboli dell'infamia a forma di stella appesi sugli stracci indossati dagli ebrei?

domenica 8 novembre 2009

Milano calibro 9 ( Fernando Di Leo , 1972 )


 Giudizio: 8.5/10
Rivisitazioni cinematografiche / 5
Un noir che anticipa i tempi.


La modaiola tendenza volta al recupero di tutto ciò che appartenne agli anni 70 e 80 , oltre ad una serie di inenarrabili misfatti, ogni tanto conduce a risultati notevoli: è il caso dei film di Fernando Di Leo , ed in special modo questo Milano calibro 9, catalogato come B movie all'epoca ed invece giustamente considerato come film di culto ora, alla luce del percorso effettuato dal Cinema in questi ultimi 40 anni. A ciò aggiungiamo che tutto quello che tocca ReMida Tarantino diventa oro , figuriamoci quando dichiara in maniera aperta che questo è uno dei più bei noir mai fatti e lo omaggia addirittura ne Le Jene.
Milano si offre livida e plumbea alle gesta della malavita organizzata cui appartiene Ugo Piazza (un ottimo Moschin) , sospettato di avere tirato una bella fregatura al capobanda; intorno a quei 300.000 dollari spariti si scatena una guerra fatta di cazzotti, pallottole, tradimenti e carneficine, da cui il solo Piazza riesce alla fine ad uscirne vivo, fino al colpo di scena finale , estremo atto di tradimento.
L'aspetto più interessante del film sta nella descizione molto netta dei vari personaggi, ricchi di carognaggine (molta) e di un personalissimo senso dell'onestà , una descrizione essenziale , fatta di battute secche, talune in stile saloon; sullo sfondo la diatriba tra i due poliziotti che suona come denuncia verso un certo modo di intendere il potere di polizia, aspetto che in quegli anni iniziava ad essere dibattuto.
Tutta la storia ha un eccellente ritmo, scandito da dialoghi e atteggiamenti divenuti poi modelli negli action movie e nei thriller di mezzo mondo, avvolta da una alone cupo cui i personaggi contribuiscono notevolmente.
Oltre a Gastone Moschin , la schiera degli attori è convincente: un Mario Adorf violento e caricaturale, Philippe Leroy nel ruolo di un killer solitario dal forte senso dell'onore e una Barbara Bouchet bellissima nel ruolo della donna di Moschin nonchè sensualissima ballerina di night , omaggiata anche essa dal tarantiniano Robert Rodriguez in Planet Terror.

sabato 7 novembre 2009

13 Tzameti ( Gela Babluani , 2005 )


Giudizio: 8/10
La deriva umana

Raggelante esordio di questo regista georgiano abbeveratosi alla fonte della Novelle Vague e del cinema indipendente francese: un film durissimo, pesante nelle sue tematiche , popolato da facce truci che sembrano uscite dalla Cayenna che ci racconta senza scrupoli la deriva morale e fisica dell'uomo.
Il giovane Sebastien, emigrato georgiano nella tranquilla provincia francese , paga a carissimo prezzo l'impudenza di essere entrato in possesso di una lettera che sembra l'inizio di una caccia al tesoro , ma che invece lo conduce dritto dritto in un mondo che non gli appartiene, nel quale vedrà cadere tutti i suoi principi in favore di una degradazione progressiva.
Partecipa, gioco estremo per ricconi annoiati e disturbati, ad una sorta di roulette cinese di gruppo, dietro alla quale scorrono soldi e si muove un mercato di uomini giunti al capolinea della dignità.
Veniamo bellamente ingannati dal bravo regista, non prevedendo quello che succederà nel procedere della storia: all'inizio sembra solo uno strano anche se morboso gioco di biglietti e di numeri, ma la villa nel bosco ci apre le porte dell'abiezione e non si esce più fuori.
Una umanità inguardabile, terribile, ridotta alla sopravvivenza solo grazie all'istinto naturale proprio dell'animale avvolge il giovane , che ormai è in ballo e non si può fermare. Il gioco è tutto in una pistola , una luce che si accende e il mucchio di cadaveri che aumenta.
Contribuisce al clima angosciante e claustrofobico un bianco e nero azzeccatissimo, una tensione disturbante e quasi insopportabile che cresce in maniera esponenziale e , soprattutto, una totale mancanza di luce in fondo al tunnel.
Il giovane crederà di averla sfangata, finchè un gesto d'umanità (forse l'unico dell'intero film) cambierà drasticamente tutto , lì su quel treno che corre lungo le pianure della campagna francese.

Love battlefield ( Soi Cheang , 2004 )


Giudizio: 7/10
Esperimento di fusione

Abbandona l'horror il regista di Hong Kong e presenta questo Love Battlefield (titolo intrigante) , interessante esperimento di fusione di due generi distanti, agli antipodi quasi : il melò e l'action movie.
All'inizio due giovani si incontrano in un quadretto idilliaco fatto di fiumi e prati, si innamorano, vivono assieme, litigano per il cibo che lui non sa cucinare , predilegendo i film porno, progettano un viaggio in Europa che salta sul più bello perchè la macchina carica di bagagli sparisce con conseguente lite furibonda nel garage e separazione tra i due. Quando lui trova casualmente la sua macchina poco dopo e pensa di mettere una pezza al pasticcio, ecco che con l'apertura del bagagliaio il film esplode e cambia registro, proiettandoci violentemente, a colpi di pistola nel più cupo degli action movie, in perfetto stile HKese.
Per il giovanotto e la fidanzata che si metterà sulle sue tracce sarà l'inizo di una avventura tragica, dovendosi confrontare con banditi feroci e implacabili , anche quando hanno il volto di Qin Hailu glaciale moglie del capo banda.
La resa dei conti, violenta, avverrà per alcune sacche di sangue da trasfondere, mettendo il sugello ad un film che gronda sangue ovunque.
La contrapposizione tra una coppia normale, come tante, forse ovvia e i criminali fa da linea guida al film. Non è solo fenomenologico il contrasto: c'è da una parte una etica, anche professionale, essendo il protagonista infermiere, dall'altra personaggi privi di qualsiasi morale, tanto diversi dai gangster di Johnnie To , votati all'onore e al rispetto; uno scontro che vedrà perdenti tutti, anche i buoni che alla fine tanto buoni non sono più. Il campo di battaglia con i due giovanotti da una parte e il capobanda e la moglie gravida dall'altra da un senso al titolo del film: l'amore normale da una parte, quello estremo votato alla morte dall'altra.
L'epilogo, un po' forzato, cerca di riportare sul dramma sentimentale la storia, ma , rimane probabilmente l'unica cosa stonata del film che ormai ha già detto tutto quello che c'era da dire.
Bravissimi gli attori-banditi, tutti con facce credibili e perfettamente in sintonia con i ruoli, un po' meno penetranti i due protagonisti , Eason Chan e Niki Chow, anche se l'avvenenza di quest'ultima se non altro riempe lo schermo maggiormente.
L'esperimento di Soi Cheang può dirsi quindi riuscito bene, anche grazie alla sua bravura di regista, efficace nel cambio repentino di ritmo iniziale , nella costruzione di alcune scene energiche (vedi quella sulla sopraelevata che si conclude in una nuovola di polvere bianca) e molto attento nel presentarci una Hong Kong variegata e sempre affascinante.

Zodiac ( David Fincher , 2007 )


Giudizio: 6.5/10
Zodiac, caso irrisolto

L'irrisolto caso di Zodiac , serial killer che terrorizzò la baia di S.Francisco tra la fine degli anni 60 e la metà dei 70, viene portato sullo schermo da David Fincher, regista cui Se7en e Panic Room hanno donato molto credito.
Con una struttura che molto si attiene ai fatti di cronaca da una parte e che strizza l'occhio al thriller dall'altra ci viene raccontato come l'ineffabile killer si sia preso gioco della polizia e della stampa grazie ai suoi giochini enigmistici che accompagnavano o annunciavano un delitto.
Come thriller è abbastanza atipico oltre che originale, mancando momenti di tensione vera e si sviluppa prevalentemente seguendo le mosse di tre personaggi che maggiormente si presero a cuore il caso, lasciando la figura dell'assassino in secondo piano, senza descrizione, nè profilo criminale.
L'accanimento e la prevalente delusione che accompagna il vignettista del S.Francisco Chronicles attratto nel caso dal giornalista dello stesso giornale e il detective della polizia sono l'asse portante della storia, coinvolti a tal punto da vedere le loro vite private sconvolte, tra piste da seguire, informatori più o meno attendibili, telefonate misteriose per un arco di tempo che avrebbe stremato chiunque.
Un senso di disillusione si impadronisce del film man mano che si va avanti con la conseguente frustrazione che si prova ad inseguire, quasi toccare la preda e poi vedersela sfuggire.
Al di là della durata inutilmente abnorme il film rimane sempre con un profilo basso, nonostante la regia sia curata, perchè rimane troppo legato alla storia e perchè scava poco nei personaggi principali lasciandoli un po' troppo distanti. Sicuramente ha il pregio di essere un giallo originale, senza pozze di sangue e senza atti esecrabili, ma forse un tentativo di coinvolgimento maggiore da parte del pubblico mediante la creazione del feeling coi protagonisti sarebbe stato auspicabile.

Sopyonje ( Im Kwon-taek , 1993 )


Giudizio : 10/10
Il canto dei sentimenti

E' un epopea dei sentimenti , drammatica e purissima, quella che canta il grande Im attraverso il pansori: è il dolore della separazione, il pianto dell'anima ferita e lacerata, l'urlo disperato che proviene dal profondo di chi ha vissuto una vita alla ricerca della congiunzione del suo animo con il mondo esterno.
La storia di Songwha e del fratellastro Dongho , cresciuti dal padre nel rigore e nello spirito profondo che emana il canto popolare coreano intriso di eroismo e melanconia, diviene,attraverso la magnifica regia di Im, un grande racconto metaforico che va oltre gli spazi individuali, per elevarsi a emblema delle tradizioni e della storia di tutta una nazione.
La separazione tra i due giovani e la cecità della ragazza provocata dal padre con misture di erbe, al fine di renderla drammaticamente disperata, diviene il topos del film che è perennamente percorso dai versi del pansori, profondamente morali e intimamente legati alla melanconica vicenda.
Definire il film una storia sul pansori è assolutamente riduttivo, troppo più grande ed elevato è lo spirito che emana la pellicola; il canto diventa l'elemento portante in cui tutto confluisce e da cui tutto nasce, si ammanta di un potere quasi sovrannaturale, permea profondamente la vita della ragazza e del padre, pesa come un macigno sulle spalle al punto che il giovanoe Dongho abbandonerà la famiglia , non vedendo alcuna finalità materiale nel girovagare tra case e paesi cantando.
Sarà ancora lui, ormai adulto, a ritornare alla ricerca della sorella: e da qui parte il film, una affanosa e dolorosa ricerca a ritroso del tempo e degli affetti perduti.
Quando dopo tanto girare Dongho ritroverà la sorella, il film diviene poesia pura, una scena tra le più belle che il Cinema abbia mai mostrato: i due seduti uno davanti all'altro che si riconoscono vicendevolmente senza dire nulla affidando al tamburo lui e alla voce lei l'esplosione del sentimento per la ricongiunzione; non una parola, solo un canto mai così perfetto e il volto rigato dalle lacrime.
Indubbiamente Im Kwon-taek firma uno dei momenti più straordinari del cinema coreano, dirigendo un film bellissimo, struggente, ricchissimo di forza emotiva propulsiva, coloratissima metafora del suo paese oscillante tra tradizione e modernità importata, divisioni e dolori.
La regia, e non poteva essere diversamente, è magnifica: essenziale, senza ridondanze, proprio per dare modo ai sentimenti di squarciare lo schermo, con una straordinaria maestria nel muovere la macchina da presa da un volto ad un altro durante il canto, quasi a materializzare il tumulto dell'animo; anche i paesaggi esterni sembrano partecipare rimandando il canto con una eco stupita, donando al film un senso di armonia e di perfezione stilistica incantevole.

giovedì 5 novembre 2009

Suzhou River ( Lou Ye , 2000 )


Giudizio: 8.5/10
Le storie del fiume

E' un film bello , emozionante e coinvolgente questo di Lou Ye, che racconta l'amore e i suoi drammi con grande poesia, avvalendosi di una struttura non lineare ma molto limpida.
Sulle rive del fiume che da nome alla pellicola vive la Shangai più vera, quella della sporcizia e della solitudine, quella dei ponti che si lanciano da una riva all'altra, vive una umanità ai margini della modernità che avanza e che si staglia in lontananza, vive un mondo che si rispecchia nelle acque torbide capace però di grandissimi slanci emotivi.
E' sul fiume che vive il narratore , di cui avremo la fortuna di vedere solo le mani e di cui ignoriamo il nome, qui nascerà la sua storia d'amore con Meimei ballerina acquatica in un bar ed è qui che che ha l'epilogo la storia di Mardar e Moudan che sfiora , incrocia pericolosamente, si sovrappone a quella del nostro narratore che ne assurge a cantore; ha le stigmate della storia fantastica , quasi una favola metropolitana che però è maledettamente e romanticamente vera. Non siamo di fronte a un melò sdolcinato e ammiccante però , piuttosto sentiamo vibrare forte le corde che tanto piacciono a Wong Kar-wai con quell'incalzare i protagonisti da vicino con la macchina da presa e quel dipingere a tratti leggeri e non invadenti i sentimenti. C'è un alone di pacata mestizia nel racconto del nostro narratore-protagonista: la sua storia d'amore che finirà in modo diverso da quella di Mardar e Moudan è lo spunto per per affermare che tutto può cambiare e che cercare di mettere argini agli eventi della vita può risultare doloroso e dannoso.
Il regista è bravo nel manipolare le due storie e nel descrivere il sentimento che sprizza da ogni immagine; non cade nell'ovvio e mette in piedi una regia attenta che da un senso di armonia al film mostrandoci inoltre una Shangai lontana anni luce dai clichè con cui siamo abituati a conoscerla. Ma soprattutto riesce a dare vita ad un fiume, cogliendone vitalità, colori , morte come pochissime volte si è visto nel cinema.
Giustamente Lou Ye si pone tra i più interessanti cineasti del nuovo corso del cinema cinese, inevitabilmente alle prese con censure da parte del regime di Pechino.

mercoledì 4 novembre 2009

Little Odessa ( James Gray , 1994 )


Giudizio: 8/10
Rivisitazioni cinematografiche / 4
I russi, New York e la neve


Joshua ( un Tim Roth grandioso) è figlio di emigrati russi, fa il killer di professione, ha tagliato i ponti con tutta la famiglia , madre morente compresa. Il lavoro commissionatogli lo porta a Brighton Beach (New York), quartiere dove vive la sua famiglia e dove albergano le ceneri degli affetti rimasti: sarà l'occasione per tentare di riallacciare i rapporti , vedere una ultima volta la madre e rincontrare il suo vecchio amore.
Anche la famglia non porta serenità a Joshua, troppo dominata ancora da un padre despota , fallito e che non ne vuole sentire di rivedere il figlio; solo per il fratello più piccolo è una sorta di idolo maledetto da spiare anche quando esegue lavori sporchi con ferocia e freddezza.
Joshua catalizza su di sè guai e pericoli , al punto che la sfera "lavorativa" entrerà in pesante conflitto con quella della famiglia e degli affetti, con risultati drammatici.
L'esordio di questo regista appena 24enne indubbiamente promette benissimo (non totalmente confermatosi in seguito) al punto di risultare il migliore dei film girati finora; assembla un noir secco, diretto , senza fronzoli, con personaggi tagliati con l'accetta tanto sono netti; cala il tutto in una New York incredibilmente nevosa e piatta, va ad indagare senza pudore sulle dinamiche familiari senza nasconderci nulla, ci dona un affresco di un killer che non ha nulla di stereotipato e che vive di forza propria. La schiera di bravissimi attori (il citato Roth , Vanessa Redgrave, Maximilian Schell) completa l'opera , che rimane uno degli esempi più validi di neogangsterismo indotto dall'immigrazione.
Di grandissimo senso scenico e splendida la scena finale , tra pallottole , sangue e lenzuoli.

A bloody aria ( Won Shin-yeon , 2006 )


Giudizio: 7.5/10
Brutalità che annienta

Un professore di musica e la sua allieva in viaggio verso Seoul su una fiammante Mercedes, dopo aver sostenuto un provino, un poliziotto troppo zelante che vorrebbe subbissarli di multe, una scorciatoia per evitare ulteriori scocciature e l'approdo su un greto di un fiume, in campagna, tra i monti ,dove l'uomo tenterà di fare quello che si era capito sin dalla prima scena: mettere le mani addosso alla giovane ragazza; questa riuscirà a fuggire, ma irromperà sulla scena un manipolo di brutti, sporchi ,cattivi e malintenzionati abitanti della zona. Si capisce subito che tra gli strambi personaggi esistono delle oscure dinamiche interpersonali che poi nel prosieguo verranno svelate e che i due malcapitati si troveranno al centro di un agghiacciante fuoco di fila come vittime designate.
Pensare di trovarsi di fronte alla riedizione coreana di "Un tranquillo week end di paura" è tanto spontaneo quanto errato : qui c'entra poco lo scontro tra città e campagna ad impronta ambientalista, qui siamo di fronte ad una storia più dura e cattiva, nonostante gli incomprensibili tentativi di far passare il film come una commedia noir. Di commedia non c'è nulla, caso mai di dramma si tratta, condito da un disagio montante e crudo venato solo da piccoli attimi di umorismo (nero).
Col procedere della storia quella che sembra quasi follia allo stato brado inizia ad avere una ragione d'essere inquadrando sotto una luce diversa i personaggi: comunque ad emergere è brutalità e violenza estrema, covata con cattiveria e spirito di vendetta, una completa spersonalizzazione che porta a galla il marciume interiore; e di pari passo cresce il fastido e l'imbarazzo per i contorni che la storia assume.
Il regista in tal senso è bravissimo a celare le carte per buona parte del film , nonostante schiaffi , cazzotti e mazzate volino da subito ed è ancor più bravo a trasformare l'ameno greto del fiume in un tragico teatro nel quale si svolge la grandissima parte del film; lo fa avvalendosi di attori molto bravi e ben calati nelle parti e muovendo con efficacia la telecamera sulla scena dello spazio teatrale.
Molti sono stati i tentativi di accostare questo lavoro a film come Funny Games o , per altro verso, di vederci molto Park Chan-wook dentro: la realtà è che la storia gode di una sua originalità e rifulge di luce propria e comunque il solo porre simili paragoni è già di per sè riconoscimento importante per il regista.

martedì 3 novembre 2009

Cafe Lumiere ( Hou Hsiao-Hsien , 2004 )


Giudizio: 7.5/10
Omaggio a Ozu

Dichiarato omaggio a Ozu, come si legge nei titoli di testa, in occasione del centenario della sua nascita, questo lavoro giapponese del regista di Taiwan si presta a diverse interpretazioni e valutazioni.
Anzitutto va precisato che , nonostante l'omaggio sentito, l'operazione dal punto di vista stilistico riesce fino ad un certo punto: Hou non ha lo stesso genio del grande Maestro giapponese nel dare movimento ed armonia anche a ciò che di più inanimato esiste, motivo per cui il film, minimalista fino al midollo, soffre di una certa staticità che rasenta la prolissità.
E' vero, questo lavoro è una semplice telecamera sulla vita, quella di tutti i giorni, attraverso la storia di Yoko , giovane di ritorno da una esperienza lavorativa a Taiwan , in gravidanza e ben convinta a tenere il figlio nonostante sa che non sposerà mai il padre.
Il ritorno a casa, la madre cuoca, il padre che non parla mai, l'amico libraio che le interpreta i sogni, la curiosità per Jiang Wen-Ye , compositore taiwanese trapiantato in Giappone, la periferia di Tokyo, e treni in continuazione con l'amico libraio che per hobby registra tutti i loro rumori; tutto viene visto con attenzione, descritto , filtrato solo dalla telecamera.
Va riconosciuto al regista un gran rigore formale e una sensibilità fuori dalla norma, solo che, avendo anche lui talento da vendere, ha aggiunto troppo del suo a quello che doveva essere un omaggio a Ozu; Hou è uno di quei cineasti verso cui non esistono mezze misure: lo si ama o si smettono di vedere i suoi film dopo mezzora.

Crocevia della morte ( Joel Coen , 1990 )


Giudizio: 8.5/10
Rivisitazioni cinematografiche / 3
Hammett e i fratelli Coen


E' veramente un noir d'autore questo terzo film dei fratelli Coen (col solo Joel in veste di regista) che si ispira a Hammett trasportandone sullo schermo tutto il suo proverbiale cinismo.
Amicizia, carattere ed etica predica nell'incipit il boss mafioso napoletano Johnny , poco prima di dichiarare la sua personale guerra al suo compare irlandese Leo e la carrellata di personaggi che ci troviamo di fronte rifulge per l'assenza di tutte e tre quelle imprescindibili caratteristiche, compresi Tommy scagnozzo di Leo che per dare corpo al suo piano oscillerà pericolosamente tra i due e Bernie , ebreo che si atteggia a mezzo idiota ma che invece la sa lunga su come rendere le acque torbide. Non manca la femme fatale, donna di Leo, sorella di Bernie e amante di Tommy.
Con un plot così è facile immaginare quale potrà essere il risultato quando a manipolarlo sono le sapienti mani dei due fratelli: trionfo dell'ambiguità, della bastardaggine pura, della menzogna e del cinismo più nero. Nessuna ha amici, nessuno ha un etica e nessuno ha carattere visto che con la pistola in mano tutti son leoni,pronti però a trasformarsi in agnelli belanti o a riempire lo schermo di vomito quando la canna è rivolta verso di loro.
Il film brilla di una eleganza e di una cura preziosissima, con una regia che da i ritmi giusti e le inquadrature ad hoc, con sprazzi del solito umorismo nero (vedi la storia del parrucchino) e momenti di grandissimo Cinema.
Rivedere questo film dopo tanto tempo e dopo tanta strada percorsa dai Coen è avere una ulteriore conferma dello smisurato talento dei due che già avevano stupito col thriller d'esordio Blood Simple


lunedì 2 novembre 2009

Nobody knows ( Hirokazu Koreeda , 2004 )


Giudizio: 9/10
La violenza dell'abbandono

Inizia che sembra un gioco: l'arrivo chiusi nelle valigie ,una casa tutta per loro, le faccende domestiche, la spesa da fare, leggere e studiare da autodidatti , cucinare, l'attesa del ritorno della madre , troppo affaccendata per stare dietro ai propri figli, il vivere nascosti perchè tutti pensano che là dentro vivano solo la donna con un figlio.
Ma poi il gioco diventa dramma: la madre che non torna, si assenta per lunghi periodi, Akira, il più grande, che porta da bravo ometto tutto il peso sulle spalle con diligenza prima e con ribellione poi; l'abbandono si fa tangibile, mancano i soldi, luce, gas e acqua tagliati e loro quattro che da una parte sfidano il mondo uscendo allo scoperto e dall'altra vivono la dolorosa reclusione tra piantine coltivate e sporcizia.
Finirà male, molto male con un senso di impotenza che opprime .
E' un film triste, durissimo a tratti angosciante che fa contorcere lo stomaco, è un film sulla violenza subita dall'infanzia e dall'adolescenza, non quella dell'orco cattivo, ma quella dell'indifferenza e dell'abbandono, della vita strappata al suo normale decorso, nonostante i tentativi commoventi di dare un senso di gioco e di divertimento da parte dei giovani protagonisti cresciuti troppo in fretta.
Nonostante la sobria e lucida durezza, il film appare soave e leggero in alcuni momenti, facendo accendere la speranza che il baratro prima o poi abbia fine; le quasi due ore e mezza trascorrono veloci grazie al taglio superbamente neorealista e grazie ad una regia essenziale , non invadente che lascia parlare i fatti di tutti i giorni.
Koreeda dimostra una sensibilità straordinaria soprattutto nel dirigere e mettere a loro agio i quattro giovincelli di cui due ( Yuya Yagira, premiato a Cannes , che interpreta Akira e Ayu Kitaura che da il volto a Kyoko la femmina più grande) hanno poi brillantemente intrapreso la carriera cinematografica; ma soprattutto ci sbatte in faccia quello cui può condurre lo stracciare con violenza la vita di persone indifese e lo fa con garbo e poesia, donandoci alcune scene che feriscono, fanno male e commuovono.
Il primo pensiero alla fine del film : sarebbero piaciuti quei bambini a De Sica, ne avrebbe sicuramente fatto dei piccoli eroi in qualche suo film. E gli sarebbe piaciuto anche il film, sicuro.

domenica 1 novembre 2009

The mission ( Johhnie To , 1999 )


Giudizio: 10/10
Action movie d'autore

Con questo ulteriore gioiello, si chiude idealmente la prima fase del percorso del grande regista HKese, prima di proiettarci verso la produzione di commedie e dei nuovi action movie che culmineranno in Exiled.
La traccia lasciata da A hero never dies viene fedelmente ripercorsa in questo lavoro dalla trama scarna , dal rigore essenziale e dal continuo oscillare tra noir e commedia.
I cinque personaggi chiamati a protezione del boss mafioso hanne le facce e le stigmate dei duri e spietati, provengono da esperienze malavitose diverse e si trovano , tutti insieme ,alla corte dello stesso padrone. La loro missione verrà svolta egregiamente, ma il prezzo da pagare in cambio delle buste gialle contenenti il denaro sarà la morte di uno dei cinque, giovane e ingenuo tombeur de femme. Il finale sarà da quasi da commedia degli equivoci, col sorriso sulle labbra di tutti, noi spettatori compresi.
Se A hero never dies è il trionfo dell'amicizia e della lealtà, questo è l'affermazione del legame umano di rispetto e di fratellanza che unisce i cinque, malavitosi sì ma con un briciolo di dignità da difendere ancora. Come detto il film oscilla tra action movie fitto di sparatorie nella notte di Hong Kong, sempre deserta, che assumono veramente una parvenza teatrale superba , così calate nelle vie e nei centri commerciali e commedia con momenti di leggerezza quasi bambinesca: è il solito modo di To di mostrarci che anche dei gangster hanno un'anima .
Fantastica la scena nel centro commerciale tra scale mobili, sicari vestiti da facchini e proiettili saettanti: assoluto paradigma di una staticità che rende questo action movie mirabile.
La notevole schiera di attori ( da Anthony Wong a Francis Ng , Simon Yam e Lam Suet) che diverranno quasi tutti i cardini dei successivi lavori di To, assicura un valore aggiuntivo, con le loro facce e i loro modi da cattivi ma leali.

Running wild ( Kim Sung-soo , 2006 )


Giudizio: 6.5/10
Corruzione e vendetta

Jang Do-young è un poliziotto che oscilla tra Tomas Milian "er monnezza" e l'ispettore Gallaghan , Oh Jin-woo è un procuratore ligio alle regole ma implacabile verso la malavita organizzata; quando le loro strade investigative si incrociano sarà scontro tra titani. La collaborazione dapprima forzata, quindi sempre più sulla stessa lunghezza d'onda, li porterà troppo vicino al fuoco che inevitabilmente li scotterà in maniera irreparabile.
Poliziesco-thriller d'azione all'inizio senza particolari sussulti, la storia scivola poi in un dramma su cui domina lo scontro tra le personalità, gli stili di vita e il personale concetto di giustizia dei due protagonisti; la forza trainante sta nel confronto tra il poliziotto mezzo sciroccato, afflitto dalla preoccupazione per la salute della madre e desideroso di almeno un giorno di felicità e l'uomo di legge , colletto bianco e cravatta, animato da grande zelo e votato al sacrificio della vita personale pur di sradicare l'erba cattiva. Indubbiamente i confronti dialettici tra i due sono tra i momenti più interessanti del film, soprattutto quando entrambi si rendono tristemente conto dell'impossibilità che la giustizia possa essere amministrata solo nelle aule dei tribunali.
La descrizione della corruzione e dei legami tra malavità e organi dello stato è spietata, venata di un certo fatalismo e rassegnazione.
Il finale drammatico e molto pessimista ci mostra il convergere delle strade dei due protagonisti: il poliziotto con l'ultima sigaretta insanguinata tra le labbra e il procuratore che salta la sottile linea che separa la giustizia dalla vendetta.
Se nella prima parte il film non soddisfa per nulla in quanto a ritmo , nella seconda il crescere del pathos fa da collante per la storia; nonostante ciò la regia non lascia il segno e il film vive in gran parte sulle spalle dei due attori: Kwon Sang-woo, bravo anche negli eccessi , nel ruolo del detective, Yoo Ji-tae convincente nelle vesti del procuratore, soprattutto nel contrapporre la sua distaccata glacialità all'irruenza dell'altro.
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