martedì 6 aprile 2010

Che ora è laggiù ( Tsai Ming-liang , 2001 )

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Taiwan-Parigi : l'angoscia supera oceani e continenti

Tra Parigi e Taiwan si muovono le esistenze esplorate e filmate da Tsai: Shiang-chyi vaga nelle buie strade della capitale francese, siede nei bistrot, visita il cimitero, consuma le sue cene nella camera d'albergo, vomita copiosamente nella toilette sollecitata da cibi nuovi e troppi caffè; Hsiao-kang cambia l'ora a tutti gli orologi posizionando le lancette sul fuso orario di Parigi, continua a vendere gli orologi come ambulante, combatte con la madre ossessionata dalla morte del marito e in dolorosa attesa del suo ritorno come nuova entità, ciba l'enorme pesce dell'acquario con gli scarafaggi e urina nelle bottiglie e nelle buste pur di non recarsi al bagno. 
Esistenze alienate, giunte in contatto per pochi fugaci attimi, il tempo della compravendita di un orologio che abbia il doppio fuso orario, ma sufficienti a creare un legame invisibile che trasvola oceani e continenti. 
Ogni contatto è fugace , quasi casuale e sempre doloroso: lo è quello del ragazzo con la prostituta in macchina, lo è quello della ragazza a Parigi con la donna Hkese che nel momento in cui il contatto diventa fisico viene respinta ed è tragicamente mortificante quello della madre, al culmine della sua ossessione, che si masturba  al termine di una macabra messinscena davanti la foto del marito morto.
L'ideale ponte che unisce Parigi a Taiwan è solcato da disperazione, isolamento , esistenze strappate e mai ricucite per intero.

E poi , come sempre con Tsai, i volti che rimangono impressi sullo schermo per lunghissimi momenti, volti da cui fuoriescono lacrime e dolore, silenzi che feriscono e annientano, scene fisse da cui qualcuno o qualcosa entra ed esce, silenziosamente, lasciando solo una flebilissima traccia del passaggio.
Pur possedendo una leggerzza maggiore rispetto ad altri lavori del regista, Che ora è laggiù rimane un film di silenziose immagini, di attimi da carpire e metabolizzare, di dolori ed incomunicabilità primordiale, costruiti con grandissima forza in cui il regista fa ricorso alla sua immensa cultura cinefila, inserendo dapprima le immagini de I quattrocento colpi , film che Hsiao-kang guarda quasi ad esorcizzare Parigi e poi fa incontrare Shiang-chyi con Jean-Pierre Leaud, protagonista del film, in un cimitero parigino.
Il filo che lega le esistenze dei due giovani si rende quasi manifesto e concreto nel finale, in cui ,accanto a Shang-chyi dormiente nel parco, vediamo un uomo identico al padre  di Hsiao-kang raccogliere la valigia della ragazza dalla fontana dove era finita.
Il consueto gioco di luci e colori, buio e luce abbagliante dona al film una qualità visiva stupenda, in grado di riempire gli occhi e di concorrere alla creazione di un'opera bellissima, altro irrinunciabile caposaldo di un regista che non finisce mai di stupire per la sua grandezza poetica.

2 commenti:

  1. Questo è il film che mi è rimasto maggiormente impresso negli ultimi mesi.
    Penso e ripenso a quelle tre vite che scorrono parallele incrociandosi solo di rado e proseguendo poi isolate.
    Questo è il cinema di cui si sente la mancanza oggi, non è stordendo lo spettatore ma stimolandolo che si aumenta il coinvolgimento nell'esperienza cinematografica.
    Non trovi, missile?

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  2. Hai perfettamente ragione Martin,solo che quando poi senti commenti del tipo : " però è pesantissimo!!!" ti cascano le braccia; credo sia un problema di sensibilità e di capacità a compenetrarsi nelle tematiche e nelle situazioni apparentemente estreme che invece altro non sono che la fenomenologia di un disagio che è proprio di tutti noi. Tsai con la potenza dell'immagine crea una poetica sospesa che aspetta solo di essere metabolizzata.

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