giovedì 3 giugno 2010

Da quando Otar è partito ( Julie Bertuccelli , 2003 )

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Tre donne e pietose menzogne incrociate

Opera prima coi controfiocchi questa della regista francese Julie Bertuccelli, già aiuto regista di Kieslowski , Tavernier e Ioseliani ( e si vede) che dirige un film straordinario , ricco di poesia e scolpito con grande finezza.
Una donna che racconta di tre donne , legate  indissolubilmente tra di loro e ad una presenza maschile impalbabile e invisibile; storia ambientata nella Georgia di inizio millennio dove spinte nostalgiche e faticose modernizzazioni convivono.
Eka che si muove con le fattezza della matriarca, Marina la figlia vedova col marito morto in Afghanistan con l'armata rossa e Ada , la figlia di quest'ultima, vivono assieme nella vecchia casa di Tbilisi che trasuda di  nostalgia della Francia da ogni angolo; l'unico uomo della famiglia , Otar è emigrato a Parigi, e muore in seguito ad un incidente sul lavoro.
La vecchia mamma che attende con ansia ogni giorno notizie per lettera o per telefono del figlio, viene tenuta all'oscuro della tragedia dalle altre due donne, che con compassionevole pietas continuano a scrivere false lettere, consentendo alla anziana donna di nutrire ancora quella vitale nostalgia per il figlio che la anima.

Quando Eka, anziana sì, ma ancora bella volitiva e tosta, vende tutta la sua preziosa collezione di libri francesi d'epoca, che era sopravvissuta persino ai bolscevichi, per acquistare i biglietti che le porteranno a Parigi, Marina e Ada capiscono che ormai la menzogna non potrà durare a lungo; ma un finale tanto sorprendente quanto tenero rovescerà la menzogna e consentirà ad ognuno di vivere il suo dolore, senza rovesciarlo sulle altre.
Sin dall'ambientazione, inconfondibile e ben strutturata, ma assolutamente scevra di accenni sociologici e politici troppo invadenti, il film si svolge con soavità e con una certa dose di umorismo: le battute di Eka che rimpiange Stalin all'insegna del motto " si stava meglio quando si stava peggio", l'insofferenza di Marina per una burocrazia indolente (" da quando c'è l'indipendenza sono ancora più idioti") e per un paese che stenta a dare una dignitosa esistenza, il costante desiderio di Ada di volare ad una nuova vita, se da un lato fotografano benissimo il disagio di un paese ancora troppo in bilico, dall'altro sono presentate con tale garbo che non possono non fare sorridere.
Le relazioni che si creano all'interno della famiglia, entità che vorrebbe porsi come una sorta di ciambella di salvataggio, sono ben svolte, con tanto di nostalgia che pervade i nuclei disgregati dall'emigrazione, quella separazione che porta Otar, medico, a fare il muratore a Parigi, ma soprattutto, nonostante il tema foriero di aspetti tragici, la storia scorre senza appesantirsi di un eccessivo fardello emozionale, anzi l'incrocio finale di menzogne che porta al classico " io so che tu sai che io so" , oltre a risultare un elegante via d'uscita, lascia quasi il sorriso in bocca, nonostante un'altra separazione, che ha tutti i connotati della salvezza, si prospetta improvvisa.
A tutto merito della regista va ascritto un fluire assolutamente fluido del racconto, ben diretto e ben fotografato, con sottili venature neorealiste, soprattutto nel descrivere la citta di Tbilisi, in cui retaggi del passato convivono con le difficoltà del presente, in un trionfo di provincialismo comune a tante realtà createsi dalla frantumazione dell'URSS; ma è soprattutto  nella capacità di descrivere una storia ordinaria, ricca di sentimenti forti, che la Bertuccelli fa valere la sua sensibilità e le sue doti di narratrice.
Un film che ha tutti i crismi del gioiello, insomma, impreziosito da una grandiosa prova della ultraottantenne Esther Gorintin nel ruolo di Eka , personaggio di quelli che non si scordano facilmente.

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