lunedì 7 giugno 2010

Lettere da Iwo Jima ( Clint Eastwood , 2006 )

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La guerra vista con lo specchio

Con Lettere da Iwo Jima, uscito poco dopo Flags of our fathers e suo corrispondente speculare, Clint Eastwood compie un miracolo cinematografico tale da farlo assurgere in maniera definitiva nell'Olimpo del Cinema: raccontare lo stesso episodio bellico prima dalla parte dei vincitori, nonchè suoi connazionali, poi , come, specchiandosi nella tragedia, dalla parte dei vinti, i giapponesi.
Questa operazione, geniale già di per sè,merita ammirazione per il solo fatto di averla ideata, se poi il risultato sono due film bellissimi, questo lo è di più, allora la grandezza raggiunta dal vecchio Clint è quasi commovente, soprattutto perchè non di film di guerra in senso stretto si tratta, bensì di una storia a due facce di uomini in lotta per la sopravvivenza.
Il film è quasi maniacalmente il riflesso di Flags of our fathers, con la descrizione degli stessi piccoli episodi che fanno la storia delle battaglie visti dall'altra parte della trincea: le paure, i dolori, le promesse sono le stesse, e poco importa se la ritualità della guerra e il senso dell'onore sono vissuti in modo diverso; gli uomini rimangono minuscoli ingranaggi di una macchina infernale che non si arresta di fronte a nulla, quello che per quei soldati è l'essenza della vita, non trova spazio nella valutazione dei piani di battaglia.

Qui Eastwood si concentra molto meno sull'aspetto bellico, le battaglie sono appena accennate , se non per mostrarci il fatidico altro lato della medaglia; qui parlano le lettere che i soldati scrivono e ricevono e che nel prologo del film vediamo ritrovate in una grotta molti anni dopo, e ancora una volta il regista si ispira a documenti reali, le lettere del Generale Kuribayashi, personaggio reale e morto nella difesa dell'isola, che sono diventate un libro.
La figura del Generale si staglia in quanto a nobiltà d'animo su tutti: dopo avere studiato e vissuto in America , la guerra lo porta a combattere i suoi ex amici, sempre con dignità e con una venatura di dolore in più, essendo lui ammiratore degli Stati Uniti; alla fine risulta quasi un personaggio sacrificale, di quelli che più di ogni altro ha sofferto del baratro che si è aperto con la guerra tra il Giappone e l'America.
Eastwood si conferma narratore di una sensibilità e di un senso umanistico smisurato, schiva anche qui tutta la retorica bellica, a maggior ragione quella che riguarda i giapponesi, mostra l'altro lato della barricata come un mare magnum di dolore e di paura che si fonde , raddoppiandolo,  quello che giace dall'altra parte.
Un episodio bellico umanizzato fino all'estremo, libero da qualsiasi epicità : se Flags of our fathers era la vittoria e il trionfo dell'antieroismo, questo è il film sulla compassione umana; in entrambi i casi il regista  da sfoggio di  una bravura e di una profondità che lasciano stupiti e commossi

5 commenti:

  1. Raccontare la guerra dall'altra parte della barricata è veramente sinonimo di grandezza.
    Tecnicamente e come contenuto è il migliore dei due

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  2. immenso, il racconto della storia dalla parte dei vinti, un racconto generoso, apparentemente semplice, pieno di umanità e dignità.
    mi è venuto in mente quel passo di "Un anno sull'altopiano" (e "Uomini contro) nel quale quando si guarda negli occhi il nemico diventa impossibile ucciderlo.

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  3. E' soprattutto un racconto che abbatte le barriere: l'uomo da qualsiasi lato della barricata si trovi è solo e inerme, ricco solo del suo sentimento e della sua "forza umana".

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  4. Rispetto a Flags of our fathers è di tutt'altro spessore, quello è un buon film, questo è dirompente e geniale. Sta di fatto che l'operazione che ha riguardato questi due film poteva venire in mente solo ad un genio del cinema.

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  5. D'accordo baobab, pienamente: ho trovato l'operazione in se stessa assolutamente geniale.

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