venerdì 11 novembre 2011

China my sorrow ( Dai Sijie , 1989 )

Giudizio: 7.5/10
Un adolescente al campo di rieducazione

E' questo l'esordio cinematografico di Dai Sijie, divenuto qualche anno dopo maggiormente famoso per la sua attività di scrittore grazie al romanzo Balzac e la piccola sarta cinese di cui diresse personalmente in seguito la versione cinematografica.
Il regista, ormai cittadino francese da diverso tempo, è stato uno di quelli che subì le conseguenze della Rivoluzione Culturale, essenzialmente per la sua origine sociale media.
China my sorrow è un lavoro che risente della biografia del regista in quanto è ambientato proprio negli anni della Rivoluzione Culturale e racconta di un ragazzino quindicenne che paga a carissimo prezzo la sua smania di farsi  notare da una ragazzina diffondendo a gran volume una canzone considerata oscena dalle guardie rosse.

La punizione sarà il campo di rieducazione, un microcosmo particolare, incastonato tra le montagne in cui non ci sono le guardie rosse a vigilare e a vessare, in cui anche il capo' è un rieducato, in cui ogni giornata inizia con la posa in testa del cappello a punta su cui sono riportati i delitti commessi e con i canti dedicati a Mao come per richiedere una sua indulgenza.
La mancanza di controlli ferrei fa sembrare il campo più una comunità isolata dal mondo che un vero luogo di detenzione, dal quale sarebbe anche possibile fuggire e questo perchè il regista ha cuore di raccontarci non una epoca storica drammatica  e nè gli abusi che essa ha portato, bensì la storia di solitudine e di battesimo alla vita di un ragazzino adolescente.
La descrizione della comunità, fatta anche con tratti leggeri, presenta la carrellata di personaggi che si portano nel loro esilio solitario tutte le loro piccole e grandi esperienze di vita e che si trovano a confrontare il proprio mondo personale con quello degli altri, un mondo fatto di piccoli oggetti e di piccoli particolari. La presenza del ragazzino, insieme ad alcuni altri adolescenti, dona anche un tocco di vivacità e di innocenza, almeno fino all'epilogo in cui il processo di maturazione sembra giungere al termine portando con sè il dilemma della scelta.
Il lavoro di Dai Sijie sottolinea molto l'aspetto del rapporto uomo-natura e uomo-soprannaturale, immergendo la narrazione in un posto bellissimo dominato da un tempio maestoso che sembra indicare una via spirituale ai detenuti, ponendo come personaggio chiave la figura del monaco, anch'esso rieducando, che da vita forse al momento più bello e toccante del film, la scena delle ombre cinesi, allegoria anch'essa della realtà, così come altamente suggestivo, direi quasi commovente, è la scena della bara che viene trasportata in cima al monte con l'inseparabile cappello a punta del morto appeso ad essa.
Se un difetto il film possiede sta proprio in certa sua leggerezza, in una mancanza , a tratti, di pathos e di quella forza che vedremo poi esplodere in lavori seguenti dei registi della Sesta Generazione sulla Rivoluzione Culturale, quasi un processo di astrazione temporale della vicenda.
Nel complesso comunque il film è bello e va visto soprattutto nell'ottica di una storia di solitudine e di scoperta dei meccanismi che governano il mondo e l'individuo da parte di un adolescente

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