domenica 14 settembre 2025

El Jockey [aka Kill the Jockey] ( Luis Ortega , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

Luis Ortega costruisce con El jockey (Kill the Jockey come titolo internazionale), lavoro presentato a Venezia in Concorso dove ha ottenuto premi collaterali e da dove ha iniziato una lunga carrellata di partecipazioni a festivals, un neo–noir surreale che si diverte a sabotare qualunque cornice di genere: è insieme crime, farsa, melodramma amoroso e “sports movie” di riscatto, ma continuamente spostato su un piano onirico e burlesco. 
Non stupisce che la critica anglofona l’abbia descritto tanto come “surrealist neo-noir psychological drama” quanto come “wild and surreal crime comedy”: due definizioni solo in apparenza inconciliabili, perché il film vive esattamente nella frizione fra questi poli. 
Remo Manfredini è un fantino leggendario e autodistruttivo, grandi vittorie ma anche grandi cadute, praticamente in mano ad un boss malavitoso che manovra le scommesse delle corse dei cavalli e verso il quale ha un debito cospicuo; suo contraltare la  fidanzata, anch’essa fantina, in attesa di un suo figlio, che cerca di proteggerlo e di tirarlo fuori dai guai.  Un incidente (che costa la vita a un cavallo) e che impedisce a Sirena , il boss, di guadagnare un bel gruzzolo, lo scaglia fuori pista, ricoverato in apparenza senza possibilità di uscirne più in un ospedale. 
Ma poi qualcosa succede: Remo sembra riprendersi, si mette addosso quello che trova , anche abiti femminili e scompare dall’ospedale scivolando nella pancia notturna di Buenos Aires mentre Sirena,  e Abril, compagna e collega incinta, provano a ritrovarlo. 
Ortega usa questa premessa da thriller di caccia all’uomo per un viaggio picaresco a episodi, fatto di incontri, travestimenti e svolte che sembrano partorite dal sogno.
La struttura è ellittica e centrifuga, a tratti sembra di salire su una giostra da luna park: ogni segmento ribalta il precedente, imponendo allo spettatore una continua ri–negoziazione di senso; il “ritmo” non è quello della progressione sportiva (allenamento–caduta–rimonta), ma del vagabondaggio: Remo come un Arlecchino metropolitano attraversa micro-mondi (camera d’albergo, sale da ballo, retrovie del gioco clandestino) che si aprono e si richiudono come baracconi di un circo sgangherato, dando una impronta sempre più surreale al racconto.
Visivamente, Ortega predilige sbilanciamenti di tono: realistico sporco subito strappato da inserti assurdi, gag muta e faccia impassibile dello straordinario protagonista che – come è stato notato – ricorda la maschera del cinema slapstick (Buster Keaton come santo laico del film). È un pastiche consapevole: il noir viene alleggerito dal comico, il comico viene inquietato dal perturbante con lo sfondo di una Buenos Aires vintage che lascia fluire quel fatalismo e quelle atmosfere vissute che sono uno dei punti di forza cinematografici del cinema argentino.



Il cuore del film è l’idea che l’identità sia un abito di scena: la indossi, ti indossa, poi smette di starti bene. Remo si muove lungo un continuum di genere e ruolo, fino a spingersi in una metamorfosi che il film tratta con naturalezza e ironia: “Remo diventa Dolores” in uno dei passaggi più discussi, evitando di rubricare la trasformazione come “colpo di scena” e lavorandola invece come rivelazione di qualcosa che c’era già. È una scelta che scarta tanto il didascalismo sociologico quanto la pruriginosa “freakification”: la fluidità è messa in scena come linguaggio del desiderio (di sopravvivere, di amare, di cambiare pelle) più che come tesi.
Sul piano teorico, Ortega gioca con l’idea – dichiarata dal regista – che “nessuno sa chi è”, e che alcuni restano aggrappati al proprio personaggio. È un cinema che smonta la categoria del “vero io” e la sostituisce con il vero momento: ciò che sei, ora, in questo frame, in questo travestimento. La maschera diventa verità situata, non menzogna. 
Drammaturgicamente, tutto prende avvio da una morte (il cavallo abbattuto) e da un quasi-decesso (l’incidente di Remo); nel loro riflesso si organizza un rito di passaggio: Remo deve “morire e rinascere”, come gli rinfaccia Abril in una battuta-chiave, perché solo una morte simbolica permette di azzerare i ruoli che ti schiacciano e di riemergere come altro da sé. Ortega piega così la grammatica del “film sportivo di riscatto” in una Via Crucis laica, dove l’allenamento non è fisico ma metamorfico.
Remo è presentato come corpo iper-fisico e vulnerabile: cicatrici, astinenze, appetiti. Il film insiste su una animalità magnetica, spesso citata anche dai materiali promozionali, che sbriciola dualismi rigidi (maschile/femminile, umano/animale, padronanza/dipendenza). La corsa del cavallo diventa metafora del desiderio senza briglie: impetuoso, pericoloso, indomabile. 
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