mercoledì 30 settembre 2009

The President's last bang ( Im Sang-soo , 2005 )


Giudizio: 7.5/10
Politica e commedia

Il film narra gli eventi avvenuti nella notte del 26 ottobre del 1979 che portarono all'omicidio del Presidente coreano Park Chung-hee e delle sue guardie del corpo per mano del Capo dei servizi segreti Kim.
Va detto subito che il regista si è ben guaradto dal dare un taglio da cronaca storica alla pellicola, il che creerà qualche imbarazzo per chi non conosce la storia coreana; anzi per molti aspetti siamo di fronte ad una commedia noir , seppur violenta in alcuni passaggi. Non sono i fatti e le conseguenze che portarono ad interessare Im , bensì la descrizione lucida, austera e a tratti sarcastica che tratteggia dell'ambiente legato alle alte sfere politico militari, fatto di corruzione, festini piccanti e mancanza totale di etica.
In tutto il film si respira aria di squallore, perfino nelle gesta dei pochi congiurati, alcuni dei quali totalmente ignari di quello che stava accadendo gettati in una impresa chiaramente approssimativa e priva di qualsiasi disegno.
La stessa figura del Presidente Park ne esce quasi ridicolizzata, così filo-giapponese e così gretto, dedito alla compagnia prezzolata di giovani fanciulle , deriso sottilmente dai suoi stessi collaboratori e pianto con atteggiamenti quasi isterici all'obitorio con un capello da militare pudicamente posato sui genitali a coprirne le nudità.
Nel finale sapremo il destino toccato in sorte ai congiurati il che è ben lungi dal conoscere la verità "vera", ma non era certo questo lo scopo del film.
Park fu amato e odiato in patria, visto che sotto la sua presidenza-dittatura la Corea prese il volo come potenza industriale e uscì da una povertà spaventosa a scapito però delle più ovvie regole democratiche, ma qui lo vediamo nella sua solitudine forte solo del suo potere che gli consente tutto, anzi viene quasi il dubbio che il regista, per convinzione o per opportunismo, abbia un atteggiamento abbastanza indulgente verso di lui.
Il film nel suo insieme regge bene, a momenti rifulge anche di luce purissima, soprattutto in alcune scene (il volo d'uccello sul luogo della strage, la corsa in auto in una Seoul dai viali sterminati e deserti) e la mano che disegna i protagonisti è ferma e decisa, grazie anche ad uno stile pulito ed essenziale.
Naturalmente il film in Italia non è mai uscito, privandoci ancora una volta della possibilità di approfondire la conoscenza di una filmografia coreana sempre più convincente.

Cashback ( Sean Ellis , 2006 )


Giudizio: 5/10
Niente miracolo

Operazione furbesca e quasi sempre deleteria: prendere un corto , pluripremiato e molto bello, allungarlo e dilatarlo fino alla ora e mazza canonica e farne un lungometraggio opera prima; questo il progetto di Sean Ellis (o di chi per lui) ed il risultato non è completamente deludente solo perchè il regista indubbiamente ha talento ed è padrone della tecnica cinematografica.
Qualcuno ha gridato al miracolo, in maniera impropria probabilmente, perchè se è vero che le pene del giovane Ben sono ben scandagliate facendo un uso quasi smodato del racconto in soggettiva, la sceneggiatura spesso latita, il film arranca e si trascina fino ad un finale ovvio e quasi banale.
Indubbiamente il percorso che porta il protagonista alla ossessiva ricerca dell'attimo fuggente che impersonifica l'arte è ben fatto e la trovata di porlo al centro di un supermarket dove ha deciso di spendere le otto ore di sonno che gli mancano da quando è stato mollato dalla ragazza è geniale e divertente, ma poi la totale inespressività dell'attore unita ad un ritmo a volte saporifero fa scadere il tutto a livelli poco sostenibili.
La monotonia del tempo che scorre e l'insoddisfazione dell'artista alla perenne ricerca della perfezione stilistica sono ben rappresentati dai momenti in cui il protagonista si aggira tra i clienti del supermarket immobili come statue, messi in pausa dal suo potere di fermare il tempo, catturati sulla carta nelle forme nude che si fanno strada tra camicette abbassate e minigonne alzate; sono solo attimi che impreziscono il film che per il resto, soprattutto nela seconda parte, ha poco da dare.
La mano del regista, come detto, è sicuramente valida e di un certo spessore stilistico , alcune scene , come quella inizale, sono belle, ma ciò che manca è la continuità, risultando il film troppo parcellizzato.
Prendiamo quel po' di buono che c'è e confidiamo nel sicuro talento visivo di Ellis: magari il prossimo lavoro, possibilmente originale e non ricalcato e stiracchiato, metterà meglio in mostra le sue doti.


La ragazza del lago ( Andrea Molaioli , 2006 )


Giudizio: 7.5/10
Piccoli Chabrol crescono

Liberamente tratto da "Lo sguardo di uno sconosciuto" della norvegese Karin Fossum, l'opera prima di Molaioli trasporta i fatti dalla fredda e glaciale Norvegia ai freddi monti e laghi del Friuli, si avvale della immancabile superba presenza di Toni Servillo come protagonista, contornato da altri ottimi attori e mette in scena un dramma della provincia con fosche tinte noir a forte ispirazione chabroliana.
Anna, giovane e bella ragazza, viene trovata morta sulle sponde di un lago, del caso si occupa il commissario Sanzio, napoletano trapiantato al nord su cui pesa come un macigno la situazione di una moglie affetta da grave nauropatia degenerativa che vive in un ospedale e che progressivamente sta perdendo memoria e senno e di una figlia combattuta tra il conflitto col padre e la mancanza della figura materna.
Le indagini ci mostrano personaggi di vario spessore tutti in maniera diversa possibili e potenziali assassini della ragazza; alla fine la soluzione del delitto sarà al contempo il tassello che metterà ordine in una storia di provincia come tante, fatta di verità e menzogne, delitti e castigo, dolore e redenzione.
Avere nel cast un fuoriclasse come Servillo è già di per sè sicura premessa di buon risultato, ma va detto che il regista ci mette molto del suo, approntando una pellicola bella, ben costruita, con un fortissimo interesse psicologico per i protagonisti calati in una situazione che si presterebbe a morbosità varie e che invece vengono accuratamente e saggiamente evitate.
La descrizione delle dinamiche interpersonali tipiche della provincia, il descrivere i drammi interiori che segnano la vita in maniera indelebile, il riunire in un unico filone gli strazi interiori del commissario Servillo alla drammaticità degli eventi su cui indaga, fanno , come detto, di questa storia un quadro che miscela Chabrol e Simenon con discrezione ed efficacia.
Come opera prima non possiamo certo lamentarci, speriamo solo che registi che mostrano questo interessante spessore possano avere le possibilità di esprimersi sempre al massimo.

martedì 29 settembre 2009

Doppelganger ( Kiyoshi Kurosawa , 2003 )


Giudizio: 4.5/10
Brutto passo falso

Hayasaki (l'ormai attore feticcio Koji Yakusho) è una sorta di scienziato pazzo, misantropo e solitario che , in perenne contrapposizione con la azienda per cui lavora, sta tentando di costruire una sedia a rotelle meccanica intelligente, dotata di braccia e che risponde alla volontà di chi vi è seduto sopra. La comparsa di uno strano individuo, in tutto uguale a lui, lo porta a pensare di avere di fronte il suo spettro, appunto un doppelganger: le dicerie riferiscono che la vista del proprio alter ego è presagio di morte imminente.
Questo clone si sostituirà spesso al protagonista nel tentativo di risolvere, anche con le cattive maniere, i problemi che intralciano il lavoro di ricerca.
Chiaramente il tema è stuzzicante e originale, ma il film che ne viene fuori risulta a tratti noioso, spesso ovvio, in rari momenti irritante, e a poco serve la indubbia capacità del regista nel saper girare bene le scene;qui quello che manca è il motore trainante di una sceneggiatura, troppo carente e raffazzonata.
La necessità di accettare se stessi anche negli aspetti più nascosti ed oscuri va di pari passo con l'armonia del mondo esteriore ed è quello che Kurosawa tenta di mettere in scena, mescolando in maniera priva di ogni organicità ghost movie, commedia e noir al punto che in certi momenti si ha quasi l'impressione che la storia gli sfugga dalle mani.
Unico aspetto valido, come detto, la indubbia capacità tecnica del regista che fa amplissimo uso dello split screen per mostrarci gli incontri-scontri tra il protagonista e il suo spettro in un intersecarsi di inquadrature e di scene a più schermi.
Per il resto, e dispiace dirlo, siamo ben lontani dal Kurosawa che con grande efficacia ha saputo affermarsi come autore di culto. Merita una prova d'appello, fiduciosi che questo sia solo un brutto passo falso.

The Descent - Discesa nelle tenebre ( Neil Marshall , 2005 )


Giudizio: 8/10
Tenebrosa claustrofobia

Incredibile a dirsi, ma uno dei più belli film dell'orrore dell'ultimo decennio proviene dall'Inghilterra, grazie a Neil Marshall, regista indipendente, che sforna questa pellicola , autentica sorpresa che non deve mancare nelle videoteche dei culturi del genere.
Film tutto al femminile, narra la storia di un gruppo di amiche amanti dell'avvantura e degli sport estremi che decidono di passare un periodo di vacanza sui monti Appalachi con l'intenzione di dedicarsi alla speleologia.
In un drammatico e agghiacciante prologo assistiamo ad uno spaventoso incidente stradale in cui Sarah perde in un sol colpo marito e figlia, uscendone lei invece illesa.
Qualche tempo dopo la ritroviamo con alcune amiche pronta all'avventura nelle grotte sui monti Appalachi, la cui attesa serve per farci conoscere meglio le ragazze del gruppo.
Che le cose prenderanno una brutta piega lo si capisce da quando ben presto le amiche si renderanno conto di essersi calati in grotte che non solo quelle che avevano deciso di esplorare.
Da quel momento in poi sarà veramente una discesa nelle tenebre, non solo perchè non vedremo più luce, se non fugacemente nel finale del film, ma perchè tutto il resto del film sarà un attento e convulso scrutare le tenebre che abitano in ognuno di noi.
Si sa che le situazioni estreme portano al collasso dei rapporti personali e all'emergere del vero volto di ognuno ed è quello che succede alle ragazze intrappolate nelle grotte, alle prese con misteriosi e ripugnanti esseri famelici.
Il senso di profondissima claustrofobia che monta man mano che procede la storia è senz'altro un colpo da meastro del regista che non risparmia nulla, neppure a livello visivo con scene francamente splatter; i nodi vengono al pettine e i conti aperti si saldano senza alcuna esclusione di colpi o indulgenza.
Ma è la ferocia insita nelle protagoniste che emerge pian piano l'aspetto più emotivamente coinvolgente e quello che plasma il film, soprattutto nella figura di Sarah, che timida, pensiorosa e ancora ferita dagli eventi dell'anno prima, si trasforma di minuto in minuto in una sorta di animale selvatico ferito che lotta per la sopravvivenza.
Il finale serberà una sorpresa , amarissima, e un senso di incompiuto , aperto a molteplici interpretazioni.

mercoledì 23 settembre 2009

May 18 ( Kim Ji-hon , 2007 )


Giudizio: 7.5/10
Un dramma pesante come un macigno

La bandiera sale sul pennone del palazzio del municipio,parte l'inno nazionale, i soldati da una parte sull'attenti , i dimostranti dall'altra mano sul petto, bandiere al vento e voce violenta ad urlare le parole dell'inno; sembra la fine della tragedia, ma invece è solo l'inzio: i mitra dell'esercito iniziano a sputare pallottole ed il massacro sarà inevitabile.
E' la bellissima scena madre del film, quella che con grande forza descrive l'atrocità di quegli eventi e che fa precipitare i protagonisti in un abisso senza fondo.
La pellicola narra gli episodi svoltisi nell'arco di 10 giorni a Gwangiju dal 18 maggio del 1980, quando la dittatura militare coreana soffocò nel sangue le proteste degli studenti universitari cui ben presto si unirono i cittadini.
Il regista evita con cura il taglio cronachistico, pur premettendo all'inizio che di storia e personaggi veri si tratta, gli eventi sono invece visti dalla parte della gente comune, di coloro che pagarono un prezzo altissimo.
Ancora una volta i microcosmi personali diventano la chiave di lettura di eventi epocali, quale fu quello di Gwangiju, uno dei più terribili di tutta la storia della Corea.
Vediamo quindi come le vite fatte di gesti quotidiani, di problemi, di affetti, di rimpianti vengano frantumate nell'arco di pochi giorni da una furia cieca e fratricida; assistiamo al dilemma atroce ed inevitabile in contesti come questo tra il privilegiare gli interessi supremi di un popolo a quelli personali: il proprio mondo messo in gioco in nome di un valore supremo.
Sappiamo quanto sia ossessivo il senso dell'onore e di una morte giusta per la cultura orientale e questa storia certamente si presta bene alla sua esaltazione morale; Kim Ji-hon è bravo nel non cadere in una enfasi esagerata, anche se nel film abbondano scene di altissima drammaticità, a volte tirate forse un po' troppo per le lunghe, ma assistendo al film si viene colti senz'altro dalla commozione nel vedere come un evento simile sia ancora un macigno abnorme che pesa nella coscienza e nella storia del paese.

martedì 22 settembre 2009

Dopo il matrimonio ( Susanne Bier , 2006 )


Giudizio: 7.5/10
...e melodramma sia

Jacob vive in India, ha scelto di occuparsi di bambini abbandonati e lo fa tra milla difficoltà ma con grande slancio; quando arriva una proposta di un magnate danese che vuole investire in beneficenza è costretto a tornare in patria per cercare di convincerlo. Non sarà solo un viaggio di "affari" , troppe coincidenze sembrano indicare che ci sia un qualche disegno dietro, il suo sarà un ritorno alle origini , alla sua vita di venti anni prima, all'incontro con la donna che ha amato (ora moglie del magnate) e alla scoperta di una paternità sconosciuta (la figlia del magnate e della sua ex). Si troverà di fronte a scelte che interessano la sua scelta umanitaria e la sua sfera affettiva, rendendole dolorose e difficili.
Film di grande impatto emotivo in cui la Bier è bravissima a mantenere un equilibrio tale da evitare la caduta di stile nel polpettone fatto di lacrime e pianti. Sa leggere molto bene e con efficacia nei conflitti presenti e remoti che affliggono i protagonisti, li scruta fin quasi a perseguitarli con la telecamera a mano, mostra i loro equilibri instabili facili al crollo emotivo, penetra ossessivamente nei loro occhi, creando inquadrature suggestive cariche di espressività, ed infine mostra il lato artisticamente più vero del Dogma seppur con partecipazione e non con asettico distacco.
La sceneggiatura supporta prepotentemente il film ed il suo contorcersi su momenti di dolore, rabbia, tristezza, amore donandoci un finale consolante sì, ma con pudore e con il conflitto interiore tra chi deve scegliere tra gli affetti ritrovati e la sua filantropia.
Gli attori sono tutti all'altezza del film soprattutto il bravissimo Mads Mikkelsen (Jacob) e un superbo Rolf Lassgard nel ruolo di Jorgen , il magnate danese , vero perno di tutta la storia, grondante cinismo e opulenza ma nel profondo permeato di buonissimi sentimenti che si manifestano una volta svelato il suo vero progetto.
E' vero, si tratta di melodramma puro, ma narrato con classe e forza di penetrazione, in cui ogni gesto parla da solo e in cui la mano della regista è ben ferma sulle redini a tenere a bada la corsa. Il Dogma è ufficialmente morto, ma i risultati del suo grande potere artistico si vedono ancora a distanza di anni in coloro che si sono formati nell'ideale di un Cinema stilisticamente essenziale e formalmente libero da inutili orpelli.
A noi, in qualità di spettatori , non resta da fare altro che rimanere con gli occhi sullo schermo con il cuore in subbuglio e con le viscere che gridano dal profondo.

Custodes bestiae ( Lorenzo Bianchini, 2003 )


Giudizio: 8.5/10
Altro gioiello

Opera seconda del talentuoso Lorenzo Bianchini che già ci aveva colpito con Radice quadrata di Tre; anche stavolta film a budget inestistente, semiamatoriale,e anche stavolta film bello, horror degno di tal nome.
Il Professor Del Colle, studioso di storia dell'arte, entra in possesso di alcuni documenti che lo inducono ad iniziare una ricerca su degli eventi che risalgono fino al tempo dell'Inquisizione; misteriosamente scomparso lo studioso, un giornalista che ne seguiva il lavoro si mette sulle tracce della sua ricerca che lo condurranno alla scoperta di un affresco che contiene le indicazioni decisive alla soluzione del mistero che si avrà in un finale agghiacciante e amaro e che ruota intorno a strani riti che si svolgono in alcuni paesini del Friuli.
La forza di questo film , a differenza di Radice quadrata di Tre molto più istintivo, sta in una sceneggiatura ben costruita che semina indizi sottili e appena percettibili ma che risultano essere poi fondamentali nel costruire una tensione ben strutturata. Il regista impreziosisce il tutto con un uso della telecamera magistrale, con immagini scure e flebili, mancando totalmente gli effetti speciali (troppo costosi) e quel po' di splatter che in un horror ci sta sempre bene, riuscendo comunque a farci sobbalzare sulla sedia svariate volte e sempre con grande efficacia.
Chiari i rimandi ad un certo horror italico del tempo che fu (Dario Argento in primis) ed altrettanto chiaro il fulgido talento del regista nel saper costruire un film che entra senza sforzo alcuno nel solco tracciato da quei Maestri.
Attendiamo con ansia qualcuno che abbia il coraggio di mettere sul piatto della bilancia un budget degno di tal nome per permettere a registi come Bianchini di portare una ventata fresca in una cinematografia cronicamente asfittica.

Cabin Fever ( Eli Roth , 2002 )


Giudizio: 6.5/10
Piccola antologia dell'horror

Un gruppo di giovanotti decide di festeggiare la fine del liceo affittando un cottage nel mezzo di un bellissimo bosco immerso in una natura mozzafiato. La masnada è variegata: si va dal timido e gentile, al biondo piacione, dallo svalvolato alla teen ager già bella navigata. Che non sarà una vacanza normale lo si capisce subito quando un ragazzino mezzo catatonico, figlio di un negoziante della zona, trova un impulso vitale per mollare un morso ad uno dei ragazzi.
Nel bosco la pace dura poco: un tizio in preda ad una sorta di decomposizione si aggira nei paraggi, animali stranamente aggressivi, un altro personaggio (il regista stesso) se ne va in giro con un cane non proprio mansueto e un sacchetto bello gonfio di di marijuana. Insomma l'ambiente circostante promette di non far annoiare lo spettatore. Scopriremo che nel bosco è in corso una sorta di epidemia veicolata da un microrganismo sconosciuto che provoca terribili effetti sul corpo e che tutti sono a rischio contagio; la guerra che si scatenerà tra i giovani sarà inevitabile e porterà al dissolvimento del gruppo.
Tutto a dire il vero in questo film sembra già visto: una unica lunghissima citazione dei maestri del genere horror, di situazioni topiche, persino di personaggi; visto in questa ottica il film sembra quasi un documentario omaggio o una piccola antologia, pur possedendo sicuramente dei buoni momenti di tensione con robusto ricorso allo splatter.
Quello che valorizza il film è una sorta di spietata critica all'individualismo sfrenato che si riscontra sia tra i protagonisti nel mezzo dell'incubo che tra i personaggi di contorno ,il cui unico fine è il loro benessere e il loro orticello ben conservato, persino tra coloro che dovrebbero garantire il rispetto della legge.
Non mancano , come giusto che sia vista la premessa fatta, momenti di assurda ironia , alcuni forse anche non propriamente voluti. Nel complesso il film dice poco di nuovo, ma sicuramente ci mostra un regista cultore del genere che sa comunque costruire momenti validi, se a questo aggiungiamo che su di lui veglia il nume tutelare David Lynch , non fatichiamo a credere in un futuro radioso per Eli Roth.

lunedì 21 settembre 2009

Tokyo ! ( Michel Gondry , Leos Carax , Bong Joon-ho , 2008 )


Giudizio: 6.5/10
Tokyo e racconti

Attesissimo film evento a Cannes 2008, Tokyo ! racconta tre storie dirette (curiosamente) da registi non giapponesi che hanno come asse portante la capitale del Giappone.
Il primo di Michel Gondry (Interior design) racconta la storia di due giovani che giungono a Tokyo in cerca di fortuna: lui con uno spiccatissimo senso cinematografico della vita e aspirante regista, lei che ama l'arte ma di fatto non ha ambizioni (come le rimprovera il ragazzo); tra una scena madre lunga quanto un viale in cui avviene un concitato confronto tra i due e strane mutazioni genetiche si scivola nella fiaba surreale il cui senso è : giovani coppie siate equilibrate, accoppiatevi senza che uno sovrasti l'altro dal punto di vista intellettuale. Il finale darà un senso alla storia con la ragazza che finalmente si sentirà utile a qualcosa.
Il secondo episodio scritto da Leos Carax racconta la storia di un essere immondo che vive nelle fogne di Tokyo di cui nessuno sa nulla e che di tanto in tanto esce all'aperto per terrorizzare la popolazione; scopriremo che si autobattezza come signor Merde (da cui il titolo dell'episodio), assisteremo alla sua cattura dopo un massacro attuato con lancio di bombe a mano per la strada e al suo processo, dove verrà difeso da uno strano avvocato francese che conosce il suo strano idioma fatto di grugniti e tic. Iperbole estrema della misantropia come forma di vita, la storia risulta in alcuni momenti assolutamente incomprensibile, pur mantenendo un estremismo ideologico sorprendente.
Shaking Tokyo è il terzo episodio diretto da quel prodigioso regista che è Bong Joon-ho, senz'altro il più bello, ulteriore perla nella filmografia dell'autore coreano.
La storia, splendidamente girata, tratta il tema degli hikikomori, moderni anacoreti che scelgono una vita racchiusa in casa senza alcun contatto visivo con l'esterno; l'episodio ci racconta ,come fosse un diario, la vita di una di queste persone che vive nella sua maniacalità tra scatole di pizza (vuote) accatastate ordinatamente e stanze ripiene di libri che asserisce di aver letto tutti; non esiste la Tv nella vita di queste persone. Solo le immancabili e frequentissime scosse telluriche e l'improvviso amore per la ragazza che consegna le pizze porterà il protagonista ad uscire di casa dopo 11 anni, per accorgersi che la città tutta ormai è popolata di hikikomori. Soltanto l'amore e la paura del terremoto sembrano possedere la forza vitale per uscire dall'esilio interiore in cui ci si chiude. Episodio bellissimo, prova di grande regia, accurata e precisa e immagini che lasciano il segno.
Nel complesso film da vedere ma l'episodio di Bong si staglia nettamente sugli altri, valendo da solo la visione del film.

venerdì 18 settembre 2009

Radice quadrata di tre ( Lorenzo Bianchini , 2001 )


Giudizio: 8.5/10
Gioiello horror

Opera prima bellissima di Lorenzo Bianchini, produzione indipendente a bassissimo costo , quasi artigiana che dimostra come una passione sconfinata per il cinema possa portare a simili miracoli.
Il film è un horror-thriller vero, potente con il simpatico vezzo di essere recitato per buona parte in friulano.
Tre giovanotti di un liceo di Udine, molto poco studiosi e vicini anzi all'ennesima bocciatura, escogitano un piano per introdursi nella scuola nottetempo e sostituire i compiti in classe (ovviamente andati male) per cercare disperatamente di salvare l'anno. La scuola, con i suoi sotterranei, però, nasconde qualcosa di agghiacciante e tremendo e da tempo immemore (scopriremo più tardi). La loro bravata si trasforma in un incubo fatto di claustrofobici corridoi senza fine, luci fievolissime, tracce inquietanti e ben poco rassicuranti, sangue che gronda e porte che spariscono; si percepisce , con angoscia, il respiro di Satana e dei suoi adoratori ed il finale , dopo svariate corse e momenti di terrore puro, è oltre che raccapricciante anche molto amaro.
Il regista dimostra di conoscere bene questo genere di film: sa costruire una tensione continua, quasi opprimente a volte, utilizza la telecamera in modo molto efficace, crea la giusta suspance per i momenti topici; insomma sa come dar vita a un lavoro che sia godibile sotto tutti i punti di vista.
Anche i protagonisti, tutti esordienti, sono molto bravi e credibili in ruoli a perenne rischio di estrema caratterizzazione.
Credo sia giusto dare il risalto che merita a questo piccolo capolavoro che sa inchiodarti gli occhi allo schermo come pochi e che si presenta come un bagliore improvviso nel buio pesto di certa cinematografia nostrana.
Se ne consiglia inoltre la visione anche ai sedicenti maestri dell'horror: hai visto mai che rimangano abbagliati come S.Paolo sulla via di Damasco.

Tesis ( Alejandro Amenabar , 1996 )


Giudizio: 7/10
Video snuff e morbosità

Primo lungometraggio del talentuoso Alejandro Amenabar, insignito di una gran messe di premi e riconoscimenti e giunto in Italia con (ovvio) colpevole ritardo, questo film possiede una forza profetica e divinatoria assolutamente sorprendente racchiusa in guscio da thriller che però alla fine dei conti risulta essere semplicemente una sovrastruttura rispetto alla lettura sociologica e al messaggio di dura denuncia contenuto.
Angela è una giovane laureanda in Scienze delle Comunicazioni a Madrid che prepara la tesi che ha come argomento la violenza nel mondo audiovisivo. Capiamo subito sin dalla prima scena che il suo non è solo un interesse didattico e scientifico, ma c'è qualcosa di morboso e intimo che la attrae alla morte.
La sua decisione di chiedere al professore relatore della tesi del materiale audiovisivo utile per la sua ricerca, da l'avvio ad una serie di eventi drammatici e oscuri che la portano a contatto con l'ambiente dei film "snuff" che inevitabilmente la coinvolgerà in maniera pesante. Nei sotterranei della videoteca universitaria vengono conservati dei filmati amatoriali violenti che porteranno Angela alla scoperta di verità tragiche.
Come thriller il film non è granchè, nonostante i furbi tentativi del regista di mischiare in continuazione le carte, ma , come abbiamo detto, questo è solo un guscio che contiene la vera essenza del messaggio del film: la morbosità dello spettatore assetato di immagini che siano il più reali e violente possibile e il dovere etico di chi manipoli i mezzi audiovisivi di dare al pubblico ciò che vuole; e siccome suona tanto di denuncia violenta di un certo modo di intendere la cronaca, la tv e il cinema di chiara derivazione americana , possiamo ben dire che dopo svariati anni dalla produzione di questo film, tutto è immancabilmente avvenuto. L'immagine ridotta a pasto crudo per lo spettatore che ormai vuole vedere sempre di più. Emblematica e bellissima in tal senso la scena finale all'interno dell'ospedale che fotografa come una istantanea il livello di morbosità amorale in cui è giunta la Tv-verità. Da questo punto di vista il film è semplicemente fantastico e azzeccato, se lo vogliamo vedere come un thriller nudo e crudo invece, al di là della eccellente mano, nel complesso non eccelle, troppo scontato e con una tensione troppo altalenante.
Ma per una volta , e a maggior ragione per un regista che darà grandissima prova di sè in seguito, preferiamo rivolgere lo sguardo all'aspetto sociale e mediatico della storia che rimane il vero motore trainante di questa pellicola.

PTU ( Johnnie To , 2003 )


Giudizio: 7.5/10
Tutto in una notte

Tutto in una notte, si potrebbe dire parafrasando Scorsese; tutta una notte per ritrovare una maledetta pistola persa dal sergente Lo (un prodigioso Lam Suet, finalmente protagonista ) dopo avere avuto un incontro scontro con gli scagnozzi di un boss malavitoso , iniziato in un ristorante ,con la solita memorabile scena marchiata dalle stigmate di Johnnie To assolutamente doc, e concluso in un vicolo, proprio mentre il boss nel ristorante veniva pugnalato mortalmente. Le disaventure di Lo si intersecano con le azioni di pattuglia della PTU (Police Tactical Unit), un gruppo di poliziotti adibiti al controllo notturno della città capitanati dal tenente Mike Ho (un convincentissimo Simon Yam) e con la non certo gradevole presenza di una sovrintendente di polizia in cerca di delinquenti cui dona volto ,ghigno ed una certa isteria una Ruby Wong che ben se la cava in mezzo a tanti uomini. Fa da sfondo alla storia, ma di fatto ne è protagonista come quasi sempre con To, una Hong Kong questa volta un po' diversa, buia, solo luci bluastre al neon e una certa dosa di degrado, ma non per questo meno bella e affascinante, splendido palcoscenico che si integra alla perfezione con i personaggi.
Tutti sono ingabbiati nel loro ruolo, qualcuno alla ricerca di una via di uscita da una condizione difficile; non manca , strisciante come al solito, il forte senso di lealtà e di onore che lega tra loro i poliziotti, il senso della vendetta che anima il boss colpito negli affetti personali con l'uccisione del figlio; le storie si intrecciano , si sfiorano, a volte cozzano l'une con l'altre , ma il regista trova sempre la via d'uscita, lineare e spettacolare in una scena finale che sembra un western in perfetto stile.
Insomma, anche stavolta Johnnie To va a bersaglio con una pellicola bella, affascinante che va ad aggiungersi alla serie di piccoli grandi gioielli; ormai To è una certezza e vedere un suo film è come andare al risorante preferito da cui si esce sempre soddisfatti.

lunedì 14 settembre 2009

Retribution ( Kiyoshi Kurosawa , 2006 )


Giudizio: 6.5/10
Noir o ghost story ?

Kiyoshi Kurosawa ci ha abituato da tempo ormai a pellicole spesso belle , sempre originali e mai scontate, motivo per cui il mezzo passo falso fatto con Retribution lascia molto amaro in bocca. Senz'altro il filo conduttore del film è interessante e potrebbe portare , tra le sapienti mani del regista, a risultati eccellenti, ma purtroppo l'operazione non riesce e il risultato è un film abbastanza discontinuo, privo di organicità , soprattutto per l'aver voluto intersecare due generi (noir e ghost story) che poco collimano tra loro.
L'inizio è in perfetto stile noir-poliziesco con tanto di poliziotto trasandato nell'immancabile impermeabile alla tenente Colombo e scena del crimine ricca di nastri gialli e poliziotti all'opera: il detective Yoshioka si trova infatti ad indagare su alcuni crimini in cui il comune denominatore è l'affogamento della vittima nell'acqua marina. Ma quando lo stesso detective inizia ad essere perseguitato da una inquietante donna vestita di rosso , la cui prima apparizione tende il filo della tensione ad ottimi livelli e che si presenta quasi sempre preceduta da una scossa sismica e da un urlo lancinante ,la storia vira verso il più classico dei film di fantasmi. Questa presenza sarà per il nostro eroe persecuzione prima e catarsi poi, grazie ad un processo che porterà alla luce i ricordi prima , i sensi di colpa e il rimorso che albergano nascosti in lui dopo.
Tutto ciò in mano ad un pezzo da novanta come Kurosawa avrebbe potuto essere foriero di momenti di altissima cinematografia, il regista però indugia troppo tra le due anime del film, l'originalità dell'idea si perde in una strutture debole,a volte addirittura noiosa e a poco serve, sul giudizio finale, la magistrale regia, le belle riprese esterne in una Tokyo livida, piovosa e squallida quanto basta e gli interni in cui la luce è ben dosata.
Il messaggio morale del film è chiaro: i fantasmi sono le nostre paure e le aree buie della nostra anima che ogni tanto affiorano , ci spaventano e ci lanciano in faccia come fango quello che non vorremmo mai sentire o vedere.

sabato 12 settembre 2009

C'era una volta in Inghilterra ( Shane Meadows , 2002 )


Giudizio: 6/10
Le Midlands come l'Ok Corral ?

Senti le musiche e pensi di veder spuntare all'orizzonte Clint a cavallo e col sigaro all'angolo della bocca; invece ,ahimè, fra le colline delle Midlands inglesi spunta solo una Ford truccata di quelle cui manca solo il coprivolante a tinte leopardate.
I duelli stile western sono qui citati nei momenti di contrapposizione dei due gringos di Nottingham , la terra che fu di Robin Hood.
Con questa sovrastruttura idealmente quasi geniale, Meadows ci propina però un film che non lascia il segno, soprattutto per una parte finale che scivola pericolosamente verso la commedia romantica scalcinata. Nel resto del film sono ben tratteggiati i personaggi e il loro ambiente sociale mixando bene commedia , a tratti graffiante, ed ironia , sono descritti con qualche accenno alla denuncia sociale qui tipici ambienti un po' abbrutiti e grigi della provincia inglese fatta di bingo e bevute in pub squallidi, è ben strutturato il ritorno in città di Jimmy , sfaccendato malvivente da quattro soldi, deciso a riprendersi moglie e figlia dodicenne ora felicemente (si fa per dire) conviventi con un altro uomo; ma il resto del film manca di una identità narrativa oscillando troppo tra dramma e commedia, ironia e grottesco.
Nel complesso un film che passa tutto sommato in maniera anonima, in cui il giovane Meadows fa un passo indietro rispetto al promettente esordio; attendiamolo alla prossima prova, merita senz'altro un minimo di credito.

Chaos ( Hideo Nakata , 1999 )


Giudizio: 7.5/10
Omaggio al noir

Sorprendentissimo lavoro di Hideo Nakata: il regista , universalmente riconosciuto come il padre dell'horror giapponese raffinato grazie ai due Ringu , autentici pietre miliari del genere, tira fuori dal cilindro questo film noir che ha tutte le stigmate del "classico", permeato in ogni suo fotogramma dallo spirito di Marlowe, di Chabrol, di Simenon e compagnia occidentale. Il regista mostra di conoscere molto bene questo genere al punto di far nascere il dubbio se il suo altro non sia che uno sconfinato omaggio ai Maestri del giallo.
C'è tutto quello che un noir classico impone: il tipico triangolo lui, lei e l'altra con l'immancabile fesso di supporto, suo malgrado, il morto che non ti aspetti, l'ambientazione molto sfumata, gli esterni come fugaci momenti, il richiamo agli ambienti europei (il ristorante , il caffè), la giusta costante tensione.
L'ottima mano del regista porta un tocco di vera originalità soprattutto nella struttura narrativa con flash back introdotti in punta di piedi che si scoprono tali solo quando le cose iniziano a tornare al loro posto; una circolarità narrativa che impegna lo spettatore a non distrarsi neppure un attimo e che sembra ripetersi all'infinito. Tutto quello che in un preciso momento appare chiaro, si disgrega con lo scorrere del piano narrativo precedente, lasciando tutto intimamente legato ma non totalmente connesso. I conti torneranno alla fine, svelando il grande inganno, e al povero spettatore non resterà altro che chiedersi il significato ultimo di un finale che appare l'unico momento del film in cui l'animo nipponico del regista sembra affiorare.

venerdì 11 settembre 2009

Hollywood Hong Kong ( Fruit Chan , 2001 )


Giudizio: 7.5/10
Storie di baraccopoli

Il villaggio Tai Hom , ultimo avamposto di baraccopoli in via di demolizione, giace ai piedi di Hollywood Plaza, gigantesco condominio di (pseudo) lusso composto da grattacieli altissimi, come tanti altri nella Hong Kong moderna. In questa sorta di girone dantesco vive una famiglia tutta al maschile, un padre e due figli, la cui obesità dirompente riempe lo schermo in continuazione; allevano e uccidono maiali che poi vendono, una volta arrostiti, nella bottega al centro dei vicoli della bidonville che brulica di una umanità molto ai limiti (papponi, prostitute, strani medici con idee balsane); l'irrompere di una prostituta giovanissima che ammalia i suoi clienti, li soddisfa e poi li fa ricattare dai suoi amici gangster con la scusa (falsa) di essere minorenne, porta una sorta di aria nuova nella bidonville, visto che nella rete cadranno anche altri personaggi; unico con cui la ragazza trova un rapporto sincero, rivendicando con ciò la sua voglia di essere ancora adolescente col mito dell'America Hollywoodiana, è il figlio minore della famigliola.
L'immagine delle case di lamiera e dei vicoli laidi che compongono la baraccopoli è senza dubbio uno dei punti di forza di questo film: case fatiscenti , dove però non manca internet, animali a spasso per i vicoli, quel brulicare tipico dei quartieri popolari; il quadro che ne risulta è molto caratteristico , ben descritto e ben dimensionato ai personaggi cui non fa certo difetto un certo candore e una certa ingenuità, in palese contrasto con il degrado che domina su tutto l'ambiente sotto la inquietante e stridente mole del caseggiato di lusso in cima alla collina.
Gli strani traffici e le azioni grottesche che si svolgono intorno alla famiglia di obesi , regala momenti di cinema molto valido, intriso di carnalità debordante (nel cibo, nei corpi umani, nel sesso) con uno sguardo tra l'ironico e il fiabesco.
Fruit Chan confeziona insomma un film valido, a tratti bello, in cui rimesta commedia, ironia, flash di noir, perfino tenerezza, un ultimo sguardo su una Hong Kong che non esiste più.


giovedì 10 settembre 2009

L'uomo senza sonno ( Brad Anderson , 2004 )


Giudizio: 7.5/10
I demoni della psiche

Il film che non ti aspetti: a partire dalla sua genesi, con un regista giovane ed emergente che lascia la natia America per venire a girare un film tutto spagnolo, fin nel midollo, al punto che quella che sembra una squallida città degli States, altro non è che (udite, udite) la bellissima Barcellona e proseguendo per il fortissimo impatto visivo che ha, giusta rappresentazione dei tormenti del protagonista, per finire nella sorprendente e superba prova di Christian Bale versione pelle e ossa.
Trevor è un operaio che oltre ad avere un lavoro alienante, non riesce a dormire da un anno e che lentamente ma inesorabilmente sta scivolando in un vortice di malessere fisico e mentale fatto di paranoie e ossessioni deliranti. La sua faccia e il suo corpo ossuto e spigoloso cercano di mettere insieme i pezzi di quello che a prima vista appare a tutti, noi compresi , un classico complotto in stile hitchcockiano. Ci riuscirà , alla fine, ma sarà tutt'altro che un complotto e, quel che è peggio, sarà ben lungi dall'essere in chiave positiva, anche se, finalmente, foriero di un sonno (forse) ristoratore.
Il film non è un thriller inteso in senso stretto , nè tanto meno una storia popolata di presenze sovrannaturali, ma sicuramente crea una costante ,sottile e insinuante tensione , un senso di ossessiva claustrofobia e un angosciante attesa per qualcosa che, per un attimo almeno, rallenti il degrado psichico del protagonista.
Tra un libro di Dostoevskij posato su tavolino, scene a forte impronta onirica lynchiana , colori attenuati fin quasi al bianco e nero ed un ritmo che di incalzante non ha nulla, assistiamo impotenti al doloroso cammino della psiche distrutta del povero ossuto, reo del peccato originale di aver voluto rimuovere un senso di colpa nascondendolo nei meandri della sua anima.
Se è vero che il sonno della ragione produce mostri, questo bel film di Anderson dimostra anche che risvegliare i demoni che albergano nella psiche può essere letale.

mercoledì 9 settembre 2009

Soffio ( Kim Ki-Duk , 2007 )


Giudizio: 5.5/10
Algidi sentimenti

La giovane donna vive nel suo grigiore fatto di tradimenti subiti, di panni da stirare e di quotidianità scialba; lui è carcerato per avere ucciso moglie e figlia e vive nel silenzio e tra le morbose attenzioni di un suo compagno di cella, tra un tentativo di suicidio e l'altro; lei sente la notizia in Tv dell'ennesimo tentativo di suicidio di lui e decide di incontrarlo.
Due mondi che si incontrano nell'angusta stanza del parlatoio, sotto l'occhio del secondino e della tv a circuito chiuso.
Gli incontri si susseguono dapprima fatti solo di sguardi, foto, canzoncine e poster che rivestono la stanza simulando lo scorrere delle stagioni; ma poi si passa ai baci soffiati, agli abbracci , alle lacrime e ,infine, all'avvilupparsi dei corpi, sapientemente interrotto dalla sirena di fine visita.
Poi qualcosa cambia: lui lì nella cella al buio, lei con marito (pentito) e figlioletta nel candore del prato innevato.
E' passato un anno dal non indimenticabile Time e Kim prosegue sulla falsariga iniziata dallo stupendo Ferro 3, ideando questa pellicola che conferma la sua ridottà carnalità filmica in ragione di una quasi ascetica visione dei sentimenti. Il film manca di qualcosa , indubbiamente: difetta di poca incisività di scarso coinvolgimento morale e corporeo da parte di chi guarda, non ha la prorompente forza penetrativa che ha reso la visione di talune sue opere autentiche esperienze sensoriali; le parole che mancano , come sempre, non sono urlate dagli occhi e dagli sguardi con la stessa potenza che abbiamo imparato a conoscere.
Kim scandaglia i sentimenti , li mette in mostra, ma con troppa pudicizia, forse, con meno fragore, sicuramente, e questo rende ragione di un film grandissimo nella sua perfezione stilistica, con un senso estetico da vero artista quale lui è , con dei momenti che sembrerebbero raggiungere per un attimo le vette più alte della sua poetica. Nel complesso però quello che pervade il film e che raggiunge chi osserva è un algore e una asetticità raffinata sì, ma che non riempie il cuore fino a farlo esplodere come accaduto con tante sue altre opere.

Non pensarci ( Gianni Zanasi , 2007 )


Giudizio: 7/10
La nuova commedia italiana in agrodolce

Commedia agrodolce con un pizzico di giovanilismo, una bella dose di problemi famigliari, un dipinto non proprio limpido di una provincia che rimanda con la memoria alla felliniana Rimini de I Vitelloni e , dulcis in fundo, un cast di attori bravissimi : ecco finalmente un film italiano, che pur non toccando vette eccelse, da un po' di ossigeno e di ottimismo alla nostra cinematografia.
Mastandrea, rocker intimista e un po' sfigato (la ragazza lo molla per un rocker di un'altra band), torna alla terra natia, fuggendo da Roma ove si era trasferito in cerca di gloria musicale.
Tornato a casa, spera di trovare un po' di confortante tranquillità che lo allontani dalle ambascie artistiche ed esistenziali; ovviamente non sarà così : il padre, reduce da un infarto, passa il tempo giocando a golf, la madre si affida alle cure di una specie di guru col tamburo, il fratello dirige con esiti pessimi l'azienda di famiglia prossima al tracollo e la sorella , ad un passo dalla laurea , pensa solo ai delfini dell'acquario.
Ma il peggio deve ancora arrivare, visto che il ritorno di Mastandrea avrà l'effetto di una deflagrazione violenta portando alla luce menzogne e verità nascoste sparate a raffica e celate fino a quel momento da una falsa tranquillità e quieto vivere.
Pur in questo caos famigliare e affettivo, molte cose troveranno la giusta collocazione, perchè comunque la forza riparatrice della famiglia , nella sua accezione latina, può compiere il miracolo (ma sarà vero?).
Pur avendo il taglio classico della commedia, la storia si tinge spesso di colori cupi e melanconici e accanto a momenti che strappano sorrisi (alcune battute o soliloqui di Battiston ad esempio) ve ne sono altri in cui la faccia da cane bastonato di Mastandrea ed il suo ermetismo parlano molto amaro.
Indubbiamente siamo nel filone della commedia all'italiana rivisitata e corretta che tanto potrebbe donare al nostro cinema, a dimostrare che basta raccontare le storie (italiane) bene, con garbo ed intelligenza per creare una pellicola che soddisfi chi non vuole arrendersi ai vacanzieri , ai muccinari e alla stoltezza.

Pranzo di Ferragosto ( Gianni Di Gregorio , 2008 )


Giudizio: 7/10
Vecchiette arzille

Come tenere a bada senza fare danni 4 arzille vecchiette radunate per Ferragosto in un appartamento , dove vive con la anziana madre, trasformato per la bisogna in una sorta di ospizio ? E' questo il problema che si pone Gianni (il regista stesso, anche interprete) allorquando mercanteggiando debiti pregressi con l'amministratore del condominio in cui vive, è costretto a fare da badante alla madre di lui e alla zia, cui si aggiunge, cilegina sulla torta, la madre del suo amico medico, impegnato nel turno di notte in ospedale e quindi impossibilitato ad accudirla , cui il protagonista non può rifiutare il favore.
In una Roma assolata e deserta , secondo la più classica delle iconografie del cinema italiano, il malcapitato dovrà barcamenarsi non poco per gestire al meglio la situazione, ivi compresa una surreale passeggiata sugli argini del biondo Tevere alla ricerca di pesce da preparare per pranzo.
Il confronto tra le quattro arzille vegliarde (tutte attrici non professioniste) è sorprendentemente bello, vivace , divertente e melanconico, ognuna con le sue fisime e i sui capricci, tanto da trasformare gran parte del film in una sorta di piece teatrale, relegata tra le quattro mura domestiche e condita da dialoghi mai scontati.
Dal film emerge un omaggio neppure celato alla terza età e alle sorprese che possono scaturirne quando la si guarda un po' più da vicino e non frettolosamente; in definitiva basta molto poco per far sì che anche delle anziane signore possano non essere un problema o un peso, persino nel giorno di Ferragosto.

martedì 8 settembre 2009

Un bacio romantico ( Wong Kar-Wai , 2007 )


Giudizio: 7.5/10
Wong on the road

Lo abbiamo atteso tre anni il nuovo lavoro di Wong e le attese non sono andate deluse; il grande Maestro trasvola l'Oceano, esce dalla sua splendida Hong Kong e si cimenta in una opera che più yankee non poteva essere. Si affida al volto della bravissima debuttante Norah Jones (Elizabeth) nonchè all'ex ragazzaccio Jude Law (Jeremy), entrambi più che ispirati ed assi portanti della storia.
Elizabeth è una ragazza che vive a New York , irrimediabilmente abbandonata dall'amore e che trova in Jeremy , proprietario di quei tipici bar della Grande Mela, un po' ritrovi e un po' circoli, un inatteso complice della sua tristezza; passa in quel bar le sue serate parlando , ricordando e mangiando ciò che alla chiusura rimane non consumato, tra cui una bellissima torta ai mirtilli che, stranamente, nessuno mangia e che Jeremy invece si ostina a preparare ogni sera. Tra i due c'è feeling profondo, c'è comunanza di esperienze ed il giorno prima della partenza della ragazza, c'è anche un bacio, forse carpito da jeremy a lei che sonnecchia, faccia sul tavolino del bar e labbra ancora increspate da un sottile strato di panna.
Elizabeth parte, eroina on the road tipicamente yankee, per un viaggio che deve essere catarsi e rinascita, tenendosi però sempre in contatto con l'amico mediante lettere.
Nel suo peregrinare fino alla desertica e squallida Las Vegas svolgerà diversi lavori, incontrerà svariati personaggi, tutti lacerati da storie difficili, tutti irrimediabilmente soli e in balia della vita , tutti disperati, probabilmente ben più di lei.
Tornerà Elizabeth, in quel bar dove Jeremy ha continuato a preparare la torta al mirtillo e stavolta il bacio chiuderà in maniera ermetica il cerchio.
La poetica di Wong c'è tutta, pari pari come in In The mood for love ; d'altronde cambiare faccia a Maggie Cheung o a Tony Leung non è sufficente a fargli cambiare pagina, semmai dimostra ancora una volta l'universalità della sua arte poetica e del suo lirismo, senza mai, in nessun istante cadere nel melenso e nel romanticismo più dozzinale.
L'on the road esalta la forza dei sentimenti che Wong getta sullo schermo, avvalendosi sempre di uun cromatismo e di una potenza visiva che non riescono mai a stancare, coadiuvato in questo caso dalla fotografia di Darius Kondji in luogo del fedelissimo Chris Doyle.
La grandissima forza dei sentimenti, motore primigenio dell'arte di Wong, rende questo film bellissimo, ennesimo capitolo di una opera lirica che non ci stancheremo mai di seguire , certi che il Grande Maestro saprà donarci ancora momenti di Cinema da vivere con emozione e , perchè no, con gli occhi umidi e una torta ai mirtilli davanti.


lunedì 7 settembre 2009

Vital ( Shinya Tsukamoto , 2004 )


Giudizio: 8.5/10
Il corpo che porta la vita

La vita affiora dal corpo sezionato, esplorato, violato fin nella sua più profonda intimità ed è una vita che si svolge in un altro luogo, all'aperto , in riva al mare ,fatta di danze dolorose e di tenerezza; è una vita che conduce all'essenza dell'amore quella che si impossessa di Hiroshi, studente di medicina e miracolosamente sopravvissuto ad un incidente stradale che gli ha tolto la fidanzata. E con la vita che sgorga torna anche la memoria persa , i ricordi e l'immagine di quel volto ora celato da un telo bianco mentre il corpo viene studiato e usato per la scienza. Toglierà quel velo Hiroshi avendo conferma di ciò che sospetta: quel corpo ormai delicatamente e rispettosamente usato è quello di Ryoko, la sua amata , che prima di morire , come estremo atto di altruismo, ha deciso di donare alla scienza.
E allora quel calarsi nel corpo in sala settoria porta Hiroshi a conoscere nel profondo la ragazza, a disegnarne un ritratto ideale, ad accettare la sua scomparsa; parallelamente vive con lei in uno spazio sovrannaturale che si arrichisce man mano che i ricordi tornano a galla; nulla lo allontana da ciò , neppure le morbose attenzioni di una collega di corso amante del sesso estremo.
La grandezza di Tsukamoto sta proprio in questo idealizzare ed esaltare il contatto fisico , come fine per trovare in chissà quale recesso l'animo della persona amata ; non c'è nulla di scientificamente morboso in quel sezionare muscoli, nervi e organi, il tutto ci appare come un momento di altissima poesia.
Il regista sembra aver abbandonato il cyberpunk grandioso dei suoi film precedenti, ma è ben lungi dal fare sconti: questo film è fatto di altissima poesia, ma anche di una durezza e di una incisività pari agli altri; qui dominano i colori che , come per il bianco e nero, vengono usati in modo mirabile: la vita immaginata ha i colori reali, molto caldi, tenui, la vita reale sembra filtrata con sfumature ora rosse , ora verdi, dando un senso di onirico; le parole servono a poco, parlano, quasi urlano le immagini, gli sguardi, i corpi.
Non credano i fautori del cinema "facile" di avere portato sulla loro sponda Tsukamoto, e non temano i suoi cultori di aver perso il loro paladino: questo è cinema di altissima qualità, non facile, senz'altro meno forsennato, ma che va dritto al bersaglio, creando vigorosi turbini di emozioni.

Bullet Ballet ( Shinya Tsukamoto , 1998 )


Giudizio: 8/10
Bianco e nero che abbaglia

Goda torna a casa e scopre che la sua ragazza si è suicidata sparandosi. Un fulmine a ciel sereno, che lungi dal fare luce, getta il resto del film nel più profondo livore. L'ossessione di avere un'arma uguale a quella con cui si è sparata la ragazza, lo porta ad immergersi in una palude sotterranea fatta di turpitudine morale , in un abisso senza fondo dal quale, si capisce subito, non uscirà più.
Film underground in tutti i sensi, vediamo il protagonista alle prese con una banda di teppisti punk cui appartiene una ragazza verso la quale Goda sente una particolare attrazione: ma attenzione, non di attrazione sessuale nè tanto meno romantica si tratta, è invece quell'attrarsi tra persone degradate nel profondo dello spirito, non c'è spazio per altro che non siano i frutti delle bassezze e dell'abbandono di ogni valore.
Ancora una volta Tsukamoto crea dal nulla, da buon artigiano del cinema, un film di grandissimo impatto, senz'altro più lineare e meno visivamente tormentato rispetto ad altri curando regia sceneggiatura, fotografia ed interpretandolo anche; anche questo è nel solito bianco e nero lancinante che nella sua cupezza abbaglia però come mille colori, meno sincopato e frenetico ma con una carica di visionarità che pochi riescono a rendere in maniera così poderosa. La sua cupezza altro non è che lo specchio delle estreme conseguenze della degradazione: tutto in questo film è perfettamente coerente con questo assioma; Goda ormai prigioniero della sua patologica ossessione per la pistola, il tentativo folle di cercare di capire il perchè della morte della fidanzata, i giovinastri punk persi nel marasma fatto di violenza senza finalità alcuna, ogni cosa è descritta con la forza dell'immagine e dei colori che mancano ed il risultato è di quelli eccellenti. Un film insomma che continua ad accrescere la meritatissima fama di questo self made cineasta sempre più bravo e sorprendente.

domenica 6 settembre 2009

Sparrow ( Johnnie To , 2008 )


Giudizio: 8.5/10
Grande Regista , grande commedia


La storia, come quasi sempre ,si svolge in una Hong Kong che non ci stancheremo mai di ammirare quando è Johnnie To a dipingercela: quattro amici borseggiatori se la passano bene, svolgono il loro lavoro con arte, guadagnano bene, si divertono, si muovono con allegria nella metropoli, fino a quando nelle loro vite si intromette una misteriosa quanto bella donna, che inseguendo un disegno ben congegniato riesce a coinvolgerli tutti. Lei altro non è che la donna di un potente quanto anzianotto ormai personaggio cui è legata da uno strano rapporto di amore-sottomissione. Il suo scopo è appropriarsi di una chiave che l'uomo tiene sempre con sè che potrebbe fare la sua fortuna rendendola libera per sempre.
Spinti da una sorta di furore benefico i quattro accettano.
Considerato a torto da qualcuno un film minore di To, questa pellicola risulta invece assai piacevole, senz'altro atipica ma assolutamente coerente con la linea ideologica del regista; cambia soltanto lo sfondo, cambia il contesto, sicuramente più leggero e meno intriso di pistole e pallottole, ma vi troviamo , precisi, ben disegnati , comunque tutti gli assi portanti del linguaggio filmico consueto a To.
L'amicizia virile (derivazione quasi naturale di certi western) , il senso di lealtà, la solitudine dei personaggi sono anche qui presenti e ben delineati, mostrandoci in maniera inconfutabile come To sia regista coerente sì , ma molto versatile al punto di permettersi, lui Maestro del noir di Hong Kong, una commedia, un po' amara forse, ma molto ben fatta, sfoggiando la sua memorabile tecnica cinematografica fatta di ampie inquadrature, di colori sempre ben definiti, di scene che riescono sempre ad essere splendide e di grande impatto ( valga su tutte la scena finale sotto la pioggia ad ombrelli aperti, autentica danza). Vero, mancano le sue leggendarie sparatorie che tanto deliziano per la loro plasticità e musicalità, ma il senso del movimento e della leggiadria si insinua comunque in molti momenti del film.
In definitiva un Johnnie To sorprendente, ottimamente coadiuvato dal solito cast di attori-simobolo, una musica (Xavier Jamaux) molto bella e consona; un film, insomma, di quelli che ti lasciano felicemente inebetito dalla sorpresa.

Dark water ( Hideo Nakata , 2002 )


Giudizio: 8/10
Acqua sporca, grande film


La madre nell'ascensore stringe a sè la piccola , zuppe di una acqua melmosa dalla quale la ha appena carpita salvandola; il suo sguardo si posa sul lungo corridoio , inquietante quanto quello di kubrickiana memoria, dalla porta semiaperta spunta dapprima una mano, poi un piede e poi....
Scena madre bellissima, risolutiva del film ,che ribalta tutte le dolorose certezze che il povero spettatore aveva fatto sue; è un inganno visivo di grandissima efficacia, cui seguono attimi di profondissima tristezza e di commozione.
Hideo Nakata mette a segno un nuovo colpo dopo la saga di Ringu, costruendo un film bellissimo, un horror piscologico fuso con una ghost story, molto ben costruito e coerente.
Una giovane madre separata dal marito va a vivere con la figlioletta di sei anni in uno squallido casermone di periferia, cercando di superare le difficoltà che la separazione e la ricerca di un nuovo lavoro comportano.
La casa dove abitano si mostra ben presto più inquietante di quanto possa sembrare l'aspetto del condominio intero; dal piano superiore provengono stranissime infiltrazioni d'acqua vero elemento pulsante di tutto il film, l'acqua dei rubinetti sembra tutt'altro che salubre, strani rumori giungono dal piano superiore, uno zainetto rosso spunta nei luoghi più strani come fosse animato.
La donna scoprirà , grazie ad un rapido flashback, che al piano superiore viveva anni prima una bambina misteriosamente scomparsa e mai più ritrovata e che ora la casa stessa vive in un totale abbandono.
Nakata è bravissimo nel fondere le storie della giovane donna e quelle della figlia con quelle della fanciulla scomparsa , in un processo di identificazione fatto di esperienze comuni. Il suo è un grido di dolore contro l'infanzia violata, privata delle sue certezze, e nel contempo, un atto di difesa di coloro che altro non sono che anelli deboli di una catena di errori oltre che vittime designate.
Il film è ricchissimo di simbolismi, tutti sfruttati per accrescere tensione e immedesimazione, ha un suo ritmo costantemente e inesorabilmente incalzante, non va mai sopra le righe in uno stile cui ormai il regista ci ha abituato sin dai tempi di Ringu; le immagini sembrano sempre filtrate da un flou che gli dona quella parvenza di sfocato e sfuggente; insomma Nakata si afferma in modo definitivo come uno dei maggiori talenti del cinema giapponese e non solo per essere stato colui che con Ringu ha aperto nuove strade (e tante imitazioni).
Il finale del film può apparire come un tentativo di riempire il fossato che è stato scavato , addirittura speri in un altro imbroglio visivo che rimetta le cose a posto, ma basta un attimo, un breve attimo che si materializza con una figura sfocata alle spalle, per capire che non sarà così.

Mulholland Drive ( David Lynch , 2001 )


Giudizio: 10/10
Il Maestro del Sogno

Parlare di questo film non è fare una recensione, bensì descrizione di un esperienza personale che può essere vissuta a vari livelli.
Non è un film da sabato pomeriggio in sala superaffolata, non è film la cui visione va condivisa con altri, è un film che spinge ad una restrospezione interiore di tale portata che non può che essere vissuto da soli, in perfetto isolamento spaziale.
Pure essendo un dichiarato ed integralista fan di Lynch e delle sue opere, non ho difficoltà alcuna a riconoscere a questa opera una grandiosità che alle altre manca.
E' una esperienza interiore, dicevo, un rendersi conto violento e senza scampo della molteplicità dei livelli della conoscenza e della vita.
Il sogno.....il dipanarsi della propria coscienza, lo strappare il velo che nasconde la vera essenza che è in noi: eterno leit motiv dell'opera di Lynch; il sogno come unico mezzo per capire la vera realtà seepolta in noi, per apprezzare e toccare con mano il nostro vero essere, entità che vive di emozioni , di pulsioni, di paure, il nostro vero essere animali emotivi , prima che pensanti.
Il film vive di quell'attimo , quasi impercettibile,magistralmente rappresentato dal regista, in cui la telecamera penetra nel cuscino come a dischiudere e svelare,anche con crudezza e violenza, quello che la testa e il corpo racchiudono e che solo nel sogno trova la libertà di esprimersi.
Siamo esseri che vivono con lo spirito, con l'emozione, con la tragicità dell'effimero, prima che con il cervello e che se non si appropriano di questa coscienza, resteranno per sempre entità incompiute.
Il film stravolge, commuove, turba profondamente l'animo, perchè è l'animo che si specchia in se stesso, acquisendo la caducità del suo essere.
Il film è una cascata inesorabile di emozioni, spesso incontrollabili, che ci pervadono e ci annichiliscono.
Mi rendo conto: è un'opera difficile, molto, ma se riusciamo ad aprire la nostra mente e a "sognare" ad occhi aperti, diventa un turbine di sensazioni.
Ha ragione chi scrisse (non ricordo dove) a proposito di questo film: "per Lynch il sogno ci salverà dalla catastrofe"; è vero, verissimo, maledettamente vero.
Una sola piccola nota: sicuramente la scena nel teatro è grandiosa, ma di una bellezza sublime, trovo sia anche il bacio lesbico tra le due protagoniste, una delle quali una poco nota, allora, e strepitosa Naomi Watts

sabato 5 settembre 2009

Ab-normal beauty ( Oxide Pang , 2004 )


Giudizio: 4/10
Guazzabuglio mortale


Questo film di Oxide Pang meriterebbe un lunghissimo sottotitolo per spiegare come, da un'idea bella e (potenzialmente) foriera di grandi riflessioni, si possa creare invece un film che, seppur girato con tecnica magistrale, risulta essere un guazzabuglio quasi irritante , privo di una sceneggiatura degna di tal nome.
Jiney è una giovane appassionata di arte che studia con profitto , dipinge e fotografa con innato talento e che nonostante ciò, si intuisce, non trova piena soddisfazione creativa nei suoi lavori. La molla scatta quando assistendo ad un incidente mortale si trova morbosamente attratta dal riprendere scene di morte, spinta a ciò da un traumatico evento occorsole in età infantile.
L'emergere di questo lato oscuro la porterà a cercare immagini di morte, siano esse suicidi o polli sgozzati, con comportamenti ossessivi fin sull'orlo della follia; solo la sua amica Jasmine, che prova verso di lei un amore neppure tanto celato, riesce a ricondurla alla ragione spingendola a rivedere il rapporto con la madre, colpevolmente troppo assente.
Tutto risolto? No, per nulla, perchè da non ci capisce bene dove spunta fuori un maniaco che inizia a inviarle video snuff in cui massacra giovani ragazze. Lo scontro finale sarà inevitabile e ovviamente truce.
Lungi dallo sfruttare l'idea iniziale che ne avrebbe permesso la realizzazione di un thriller psicologico bello e interessante, Pang chiude frettolosamente troppi momenti topici del film (la relazione lesbica, il trauma infantile, la figura della madre, l'istinto suicida) e costruisce un finale che oltre a non entrarci nulla, mostra scene di inaudita violenza assolutamente avulse dal contesto del resto del film.
Ed è un vero peccato, perchè il film è girato molto bene dal punto di vista tecnico, con un contorno musicale molto valido che ben si fonde alle scene, con un alternanza di colori cupi e sfocati e scene ben definite e lineari, con un ritmo che a volte è quello del video clip e altre quello del film minimalista e intimistico. Senz'altro la prima parte risulta essere la più valida con momenti anche molto belli, ma soffre però di una approssimazione veramente imperdonabile, una superficialità di lettura che mal si sposa al talento di Pang.
Alla fine sorge, come spesso avviene, la domanda cosmica metaforica: "Vale la pena comprare qualcosa solo perchè ha una bella confezione?"

venerdì 4 settembre 2009

Joint Security Area ( Park Chan-wook , 2000 )


Giudizio: 9/10
La sottile linea di confine


La Joint Security Area altro non è che il confine a livello del 38° parallelo che divide le due Coree, costantemente presidiato dalle forze armate dove la vita scorre col dito perennemente sul grilletto, dove i soldati si fronteggiano a pochi metri uno dall'altro e dove un misterioso fatto di sangue rischia di scatenare una guerra: un duplice omicidio si consuma negli alloggi dei soldati del nord esito, sembrerebbe, di una solitaria incursione di un sergente del sud. La faccenda viene gestita in maniera neutrale da un ufficiale svedese e da una soldatessa svizzera di origini coreane: la verità come sempre è un caleidoscopio di menzogne più o meno studiate che conduce alla convinzione che per mantenere la pace meglio non sapere la verità.
Park questa volta va a fondo pesantemente e con decisione su un tema difficile e doloroso, molto sentito da tutti i coreani,costruisce una storia di amplissimo respiro ma fatta , al contempo, di storie personali; tratteggia le ostilità politiche e sociali come momenti di grande dolore e di dissesto interiore, contrappone la ragione di stato al sentire comune dei coreani che non riescono a capire come un fratello che parli la stessa lingua, abbia le stesse usanze, viva nello stessa penisola, debba essere considerato come un acerrimo nemico da abbattere: tutto ciò crea sgomento, rancore profondo , ostilità repressa verso una situazione frustrante.
Il film ci presenta i soldati al confine come delle vittime della politica, ed in questo effettivamente c'è un accenno di facile demagogia che viene facilmente sotterrata dal grande senso intimistico che la storia assume in quasi tutta la sua durata. C'è un lacerante senso di umanità e di pietas nel raccontare l'amicizia che va oltre anche le più invalicabili frontiere, pur se rappresentate solo da una striscia di cemento; la Joint security area è una zona franca per i sentimenti, una zona che mette a nudo verità nascoste, un limite che sta solo sulla carta e non nelle persone che ci vivono.
Avvalendosi di un ottimo cast , di un budget notevole e delle sue enormi capacità figurative Park crea un film potente, bello, molto duro , capace di ferire in modo profondo, costruito su piani narrativi che si intersecano , si fondono e si disgiungono e arrichito da momenti di altissimo Cinema: su tutte la scena dei soldati che si sputano al confine a dimostrare la labilità e la fallibilità di quella linea.
Il finale sarà drammatico, pessimista e stupendo insieme, impregnato di un senso di morte come unica via di uscita, immortalato in una istantanea che racconta tutto, basta leggerlo negli occhi dei protagonisti.

Battle Royale II - Requiem ( Kinji Fukasaku , 2003 )


Giudizio: 4.5/10
Sequel furbesco


Sequel in perfetto stile, almeno formalmente, di Battle Royale , la storia riparte 3 anni dopo i fatti narrati: il marasma in cui è caduta la società sembra un baratro senza fine, flagellata da terroristi adolescenti asserragliati su una misteriosa isola , capitanati dal reduce della prima Battle Royale, che hanno deciso di dichiarare guerra al mondo adulto (pensa tu...).
Per sbaragliarli anche stavolta si ricorre alla feccia degli studenti che vengono inviati, armati di tutto punto, sull'isola, sotto l'attenta e sadica supervisione di un tentativo (patetico) di clone del Kitano del primo episodio; le regole son le solite: 72 ore , senza regole e col collare di esplosivo legato al collo.
Spettacolare sbarco sull'isola in perfetto stile sbarco in Normandia e poi il via ad una sorta di guerra a metà tra il videogioco e la parodia con ridicoli inserti di riflessioni socio-politiche enunciati dal capo dei rivoltosi, improbabile connubio tra un santone e un talebano.
Se è vero che il film mostra spunti tecnici e momenti che qualcosa di valido hanno, nel complesso segue la triste regole dei sequel: film insulso, molto poco ispirato, assenza totale di introspezione e di osservazione dell'animo dei protagonisti, con un finale degno quasi di una fiction di Mediaset.
Peccato, perchè il primo Battle Royale era indubbiamente un film più duro, coinvolgente, di denuncia e da lì si poteva ripartire; rimane invece il dubbio che questo sia solo un film brutto e inutile che usa furbescamente il precedente tanto per crearsi un pedigree che invece non gli appartiene.

Il vento che accarezza l'erba ( Ken Loach , 2006 )


Giudizio: 6.5/10
Guerre laceranti


Stavolta Loach abbandona (solo apparentemente) le tematiche sociali attuali per prendere di petto quello che è stato uno dei drammi più laceranti del XX secolo: la guerra civile anglo-irlandese degli anni 20 , che rimane, volenti o nolenti, uno dei macigni più grandi sulla coscienza degli inglesi.
Vero però anche che questa trasposizione temporale non fa perdere al regista il filo logico delle sue opere: la denuncia delle iniquità politche e sociali.
La storia si focalizza negli anni 20 , periodo in cui la guerra tra irlandesi e inglesi è al culmine prima di giungere ad una conclusione diplomatica che di fatto chiude una pagina, ma ne apre un'altra, ben più dolorosa: il conflitto che contrappone gli irlandesi favorevoli al trattato che lascia loro un minimo di autonomia e coloro che invece vogliono continuare a combattere per ottenere un completo e reale affrancamento dalla corona.
Vediamo quindi dapprima i giovani irlandesi combattere armi in mano contro il nemico, rifugiandosi in montagna , addestrandosi ed effettuando azioni di guerriglia clamorose, poi vediamo gli stessi contrapposti in schieramenti diversi , venendo meno anche ai legami di amicizia e di famiglia. Indubbiamente la seconda parte del film è quella più interessante e bella, proprio perchè le dinamiche politiche (e di potere) vanno a scalfire le certezze che anni di amicizia avevano cementato. In questa fase diventa una bella riflessione sul potere, sulla lotta politica, sulla devastazione morale che le guerre possono arrecare.
Il finale è indubbiamente tragico, fin troppo, e vuole proprio dimostrare l'assurdità delle contrapposizioni estreme seppur sostenute da grandi ideali.
Loach guarda sempre con molta attenzione il substrato sociale in cui si muovono i protagonisti, il suo cinema è sempre e comunque denuncia; qui forse lo è meno, evidentemente più interessato ai drammi privati.
Il film vale la visione, ma personalmente trovo più fresco, pungente e incisivo il Loach che descrive e denuncia le storture sociali contemporanee.

mercoledì 2 settembre 2009

The slit mouthed woman ( Koji Shiraishi , 2005 )


Giudizio: 6/10
Leggende metropolitane


Le leggende metropolitane, si sa, sono ormai da almeno un decennio la fonte di ispirazione massima per i registi di horror in salsa giapponese, se non altro perchè conciliano una certa dose di orrorifictà ad un moralismo rigoroso.Questo film di Koji Shiraishi attinge a piene mani a questo pozzo di S. Patrizio , così come fece per "Noroi": la leggenda della donna dalla bocca sforbiciata pare abbia terrorizzato generazioni intere di ragazzini giapponesi negli anni 70 e il regista la usa come soggetto di questo suo horror.L'orribile donna, impermeabile lungo stile esibizionista e mascherina da sala operatoria a coprire un turpe taglio che le apre la bocca da un orecchio all'altro nonchè armata di un paio di forbicione, rapisce bambini per le strade minacciandoli con la sua arma. Si mette sulle sue tracce una insegnante alla cui classe apparteneva uno dei rapiti e un suo collega che sembra avere con la sforbiciata un qualche legame sovrannaturale.Tra picchi di tensione non eccelsi e momenti di stanca, tra inseguimenti e urla laceranti, tra scene ben costruite e mezzi colpi di scena , si giunge ad un finale che non rassicura per nulla, anzi spiazza notevolmente in perfetto stile Noroi.E' chiaro l'intento del regista di scandagliare i problematici rapporti tra madre e figli, con tanto di maltrattamenti e di ossessività ,e i sensi di colpa che sempre pullulano in queste leggende a maggior ragione se inquadriamo nel giusto modo il finale che non è solo una porta aperta sul sequel (che comunque fino ad ora non c'è stato).La bravura del regista si conferma, seppur senza toccare neppure lontanamente i vertici di "Noroi", ma il suo è uno stile bello, tagliente ed essenziale, senza fronzoli. Nel complesso il film si lascia vedere raggiungendo però solo poche volte vette di tensione da ricordare; se ne sconsiglia però la visione a mamme e figli in fase di conflitto iniziale di affermazione della personalità: non sia mai che qualcuno trovi in qualche angusto angolo della sua psiche un paio di forbiciacce.

Noriko's dinner table ( Sion Sono , 2006 )



Giudizio: 9/10
Filosofia applicata al Cinema


Prima di iniziare a parlare di questa pellicola occorre necessariamente sgombrare il campo in maniera netta: non è il sequel-prequel di "Suicide Circle" , come qualche campagna pubblicitaria furbesca vuol fare intendere; vero , le due storie si intersecano in un paio di occasioni (tra le quali la spettacolosa scena del suicidio di massa nella stazione), ma i due film vanno tenuti rigorosamente distinti, almeno sul piano narrativo, perchè sul piano filosofico-sociologico indubbiamente appartengono allo stesso filone intrapreso da Sion Sono nella descrizione della società nipponica.Vediamo Noriko, giovane ragazza della provincia annoiata e delusa dal piatto scorrere della sua esistenza, scappare alla volta di Tokyo per incontare la sua amica virtuale Ueno Station 54 , che in realtà si chiama Kumiko e che, nella vita reale, è molto più sveglia e intraprendente di Noriko: svolge come lavoro , infatti, quello di sostituire all'interno delle famiglie lacerate da separazioni, morti , scomparse, l'elemento venuto a mancare; inoltre è membro di spicco del Suicide Circle che già conosciamo bene, motivo per cui le due ragazze saranno testimoni del drammatico suicidio di massa della stazione di Shinjuku.Nel frattempo Yuka la sorella minore di Noriko fungge anch'essa di casa alla ricerca della sorella, seguita a sua volta dal padre , rimasto nel frattempo vedovo per il suicidio della moglie, intenzionato a rintarcciare le figlie e a scoprire cosa si cela dietro il Suicide Circle. Insomma inseguimento continuo a buon fine e apparentemente con lieto fine grazie anche a Kumiko che , come impone l'etica del suo lavoro, ricuce la famiglia. Ma la notte si sa porta consiglio e l'alba ci porterà una conclusione molto amara.Di fronte a questo canovaccio così apparentemente prolisso e confuso, non si può non provare un minimo di stordimento almeno, anche perchè Sono, da buon furbastro, si diverte a render le cose ancora più apparentemente ingarbugliate: interseca i piani narrativi, divide il film (lungo, ben oltre le 2 ore e mezza) in capitoli in cui ognuno dei protagonisti si fa voce narrativa fuori campo fino a portare ad una soggettivizzazione estrema, mostra eventi e verità come sempre di molteplice lettura.Ma è il suo scalpello a volte raffinato , a volte brutale, che scava nelle viscere del degrado della società nipponica quello che supporta il film in maniera fantastica: il suo sarcasmo nel descrivere la crisi della famiglia fino all'alienazione, la crisi di identità e l'insoddisfazione delle nuove generazioni, il sempiterno rapporto con la morte sono portati alla luce, liberati da ogni corteccia sovrastrutturale, descritti senza pietà fino al midollo, usando una tecnica di ripresa molto rigorosa, formalmente classicheggiante, pronta ad esprimere con grande forza i sentimenti che emergono.Per questo il film va considerato quasi più un trattato di filosofia applicata che un opera cinematografica, ed è per questo, inoltre, che risulta più potente e lacerante del pur bellissimo "Suicide Circle" che soffriva però del difetto di essere un'opera incompiuta: qui tutto è più limpido, chiaro , nonostante i giochini di Sion Sono che portano fuori strada, qui c'è una struttura narrativa lineare pur nella sua altissima complessità; non è in contrasto con la precedente opera, anzi, è semplicemente più vero, più totalizzante e di una bellezza inquietante.Ovviamente noi italici non abbiamo avuto, almeno per ora, il privilegio di poter vedere questo film , come tanti altri: meglio buttarsi sui vacanzieri, sugli italiani in gita e sui Muccini di turno.

martedì 1 settembre 2009

Noroi ( Koji Shiraishi , 2005 )


Giudizio: 8.5/10
Horror da antologia


Acclamatissimo in patria e autentico oggetto di culto tra gli amanti dell'horror (meglio se in salsa giapponese), di primo acchitto si è portati a considerarlo null'altro che la risposta orientale a "The Blair Witch Project", ed in un certo senso la cosa è vera: la struttura filmica, le atmosfere, gli espedienti tecnici e , perchè no, la suspance, richiamano molto il film evento americano. Pur partendo quindi da presupposti non originalissimi, Koji Shiraishi, dirige comunque un film bello, duro, in certi momenti indimenticabile che dovrebbe entrare di diritto in tutte le videoteche dei cinefili.
Tutto il film altro non è che un documentario prodotto da un giornalista studioso del paranormale che seguendo tracce a volte molto labilmente segnate si trova ad indagare su dei riti che vedono come protagonista Kagutaba , un inquietante spirito che alberga in un paesino alle pendici delle montagne. La pellicola ha quindi il taglio del documentario, a metà tra cronaca e leggenda, inframmezzato solo da spezzoni di programmi televisivi che hanno come tema il paranormale. Ebbene, ci si può chiedere, cosa c'è di tanto orrorifico? Domanda lecita, indubbiamente, almeno fino a che non si goda della visione del film: rimestio continuo nelle ataviche leggende che affollano gli incubi dei giapponesi ,concentrato di tensione crescente, suspance montante partendo da zero, momenti in cui si affondano le dita nella poltrona o nelle carni del malcapitato compagno di visione, costruito, il tutto, con un giusto mixing di telecamera a mano che insegue e di scene formalmente impeccabili e, si badi bene, senza neppure uno schizzo di sangue.
E' proprio il crescendo della tensione, molto cinicamente, lentissimo all'inizio, fino a sfociare in un finale che sembra più un incubo sovrannaturale, l'aspetto che più fa incollare gli occhi allo schermo , con la paura che prima o poi anche le nostre carni possano sussultare ed urlare in un processo di immedesimazione che si autoalimenta senza che sia possibile arrestarlo. Quando tutto sembra cupamente e angosciosamente finito ecco il colpo finale: 5 minuti , gli unici, che non fanno parte del documentario , ma che sono a loro volta documento finale, spiazzante, che portano all'epilogo amarissimo ed enigmatico insieme che ci trapana nella testa una serie di domande sui fatti che sembravano avere avuto già una risposta.
Un grande film insomma , non solo un horror notevole, anche grazie ad una regia che ha saputo rendere alla perfezione il senso di angoscia con uno stile formalmente quasi perfetto dal punto di vista visivo: la produzione di genere dell'estremo oriente si arrichisce insomma di una altra perla, alla faccia di chi , ancora oggi, osa relegare questi lavori nei recinti del "cinema minore".

The red shoes ( Kim Yong-gyun , 2005)


Giudizio: 6/10
La maledizione delle scarpe rosse (fucsia)


La bella Sun-jae , affetta da chiaro feticismo per le scarpe (le conserva come dei cimeli o dei Fabergè su piani di cristallo) , scopre che il marito la tradisce ( e occhio alle scarpe anche qui...): abbandona quindi la casa portandosi dietro la figlioletta; cosa pensate che farà quando qualche giorno dopo in una stazione della metro desolatamente vuota trova sulla banchina un paio di scarpe rosse (in realtà fucsia)? Si consola appropriandosene con cupidigia, dando il via ad una serie di eventi tremendi e sanguinosi nei queli le dannate scarpe hanno sempre un ruolo, fungendo inoltre da raccordo ideale con altri fatti esecrabili avvenuti diversi decenni prima.
Trasposizione in salsa horror coreana , molto libera a dire il vero, della favola di Andersen, il film di Kim Yong-gyun si presenta molto ben confezionato, con notevole stile visivo, ambienti rarefatti al limite dell'inverosimile (le stazioni della metro ad esempio), puntate splatterose e momenti di buona suspance in un contesto generale però che non convince completamente riguardo alla storia che appare un po' troppo trita e poco coinvolgente.
Tra chiarissimi accenni di feticismo (scarpe , piedi), momenti di fiacca che in un horror ci stanno come i cavoli a merenda, cantilene bambinesche abbastanza tediose , scatti violentissimi di possessività verso l'oggetto del desiderio rosso (fucsia), i nodi in qualche modo vengono al pettine e si giunge ad un finale che ad un certo punto appare fin troppo scontato: peccato.
Complessivamente il film si lascia vedere, pur rimanendo sempre il sottile retrogusto amaro che si prova quando apri una scatola confezionata stupendamente e che contiene invece solo un paio di scarpacce rosse (fucsia) anche un po' dozzinali.


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