giovedì 1 settembre 2022

Memoria ( Apichatpong Weerasethakul , 2021 )

 




Memoria (2021) on IMDb
Giudizio 8/10


Come tutti i figliocci di Cannes che si rispettino, anche Apichatpong Weerasethakul, ogni anno che si presenta sulla Croisette si porta a casa un premio prestigioso: dopo la Palma d’Oro per Zio Boonmee nel 2010 , nel 2021 bissa il Premio della Giuria già conseguito nel 2004 con Tropical Malady, grazie a Memoria, nuova elegantissima e per molti versi arcana meditazione sull’interconnessione che regola i rapporti del mondo.

L’ultima opera del regista thailandese, di certo uno tra i più enigmatici e per tale motivo più interessanti autori indipendenti contemporanei, si caratterizza anche per esser la prima diretta dal regista al di fuori del suo paese natale, interpretata in inglese e spagnolo ed ambientata in Colombia: tutto ciò però sorprende meno rispetto a tanti autori asiatici che sempre più di frequente negli ultimi anni hanno intrapreso il confronto con cinematografie di altri paesi, sostanzialmente perché Weerasethakul fa della sperimentazione del linguaggio uno dei cardini della sua arte cinematografica ed il porsi di fronte a lingue straniere oltre che a culture differenti sicuramente è stato uno stimolo nel proseguire la sua poetica della sperimentazione intrapresa sin dall’inizio della sua carriera.




La trama di Memoria è esilissima, come sempre nei film del regista thailandese: un donna scozzese trapiantata in Colombia durante un viaggio in visita alla sorella affetta da una strana malattia letargica ( il rimando ai militari di Cemetery of Splendour è fin troppo ovvio) inizia ad essere perseguitata da uno strano rumore simile ad un boato che si presenta in maniera ricorrente; convinta che quel suono nasconda qualcosa, cerca con l’aiuto di un musicista tecnico del suono di riprodurlo sperando di comprenderne l’origine.

Accompagnata da questo suono la donna inizia un onirico viaggio che somiglia sempre più ad una meditazione sulla vita, sulle sue origini, sulle interconnessioni che regolano la vita nel mondo e che la porta ad esperienze sensoriali che solo nel finale , un po’ a sorpresa, e non sappiamo bene quanto “veritiero”, sembrano trovare una parziale giustificazione.

Per chi conosce la cinematografia del regista non avrà problemi a carpire le giuste informazioni seppure in una sinossi così stringata, perché il cinema di Apichatpong Weerasethakul, tutto è tranne che un cinema di “storie” o di “racconti”; la narrazione per il regista è puro orpello, sostituita invece dalla percezione , dalla forma , dall’astrattismo dell’arte, dalla spiritualità che si muove tra il buddhismo e lo sciamanesimo, da un afflato che avvolge lo spettatore e lo trascina in una esperienza come fosse un sogno.

Il sogno è infatti uno dei momenti fondamentali dell’arte cinematografica del regista, il sogno che diventa sonno e viceversa, ed entrambi aprono  la mente e i sensi verso il concetto di armonia universale  nella quale i nostri ricordi riescono a raggiungere l’origine ancestrale di noi stessi come piccole particelle che vivono nell’armonia del mondo.

Nel corso del film , attraverso la figura della protagonista , assistiamo ad una progressiva dissociazione spazio-temporale che si fortifica nella dicotomia tra realtà e immaginazione in costante fluire di una nell’altra.

lunedì 1 agosto 2022

Broker ( Koreeda Hirokazu , 2022 )

 




Broker (2022) on IMDb
Giudizio: 8/10

Il 2018 segna l’anno di svolta nel percorso cinematografico di Koreeda Hirokazu , regista che fino a quella data si era dimostrato come il cineasta che maggiormente richiamava alla mente i grandi autori del cinema classico nipponico; in quell’anno Cannes lo incorona con la Palma d’Oro per Un affare di famigli (Shoplifters) , sdoganandolo da quel ruolo di regista di nicchia molto connotato col suo paese d’origine ma inevitabilmente tagliato fuori dal percorso cinematografico occidentale al di fuori dei festival.

Con i lavori seguenti Koreeda perde progressivamente quella sua magnifica unicità, non perdendo comunque la capacità di costruire un Cinema di altissima qualità e di grande sensibilità, fino a intraprendere, come molti cineasti asiatici negli ultimi anni, la sua sfida con l’occidente e il suo sistema cinematografico: dapprima Le Verità, presentato sempre a Cannes e non poteva essere altrimenti considerato lo sforzo fatto dai transalpini per promuovere e produrre il film, e ora Broker (tralascerei per pudore l’incomprensibile titolo italiano…), girato in Corea del Sud, mostrano un regista che pur cercando di mantenersi fedele a se stesso, affronta la prova del confronto con altri mondi cinematografici, l’Europa da una parte, la Corea dall’altra, forse la cinematografia asiatica più sui generis riguardo al suo sistema generale.




La premessa appare indispensabile, perché costituisce un momento importante per la valutazione e il giudizio dell’ultima opera del regista giapponese, anche perché , tanto per rimanere fedele alle tematiche a lui più care, la storia si occupa di un problema sociale in evoluzione quale quello dell’abbandono dei neonati da parte delle madri.

La storia infatti inizia con l’immagine di una giovane che lascia sui gradini di una chiesa un infante, proprio di fronte ad una baby box, versione moderna della ruota degli esposti utilizzata nel passato per abbandonare i figli indesiderati; una mano più pietosa infilerà il neonato nella scatola  al caldo e con la musichetta di una ninna nanna e dall’altra parte due imbroglioni, uno dei quali vestito da prete, si appropriano del bambino: sono infatti due soci che si occupano del traffico di neonati cercando di piazzarli presso famiglie che non hanno figli.

Sin dall’inizio abbiamo davanti i protagonisti di questa storia: Soyoung è la giovane madre che ha deciso di liberarsi del figlio ma che vuole assicurarsi che gli venga trovata una buona sistemazione, Sanghyeon e Dongsoo sono i due compari, Soojin è la mano pietosa che infila il neonato nella box, una poliziotta che è sulle tracce dei trafficanti. 

La storia diventa ben presto una variante della caccia in stile guardie e ladri, road movie scalcagnato all’interno del quale si crea una famiglia surrogata e fittizia unita dal comune senso di sconfitta nella vita e carica di un passato duro che ogni tanto torna a galla: la madre snaturata, i due compari imbroglioni ma ricchi di una umanità quasi commovente, la poliziotta che poi tanto nemica e cattiva non è e il marmocchio aggregato di straforo alla comitiva, sembrano in certi momenti usciti fuori da una di quelle commedie all’italiana  in stile I soliti ignoti, il tutto perché Koreeda riesce in una impresa mirabolante a ben pensarci, e cioè mettere in piedi una storia su una tematica così dura e pregnante e svilupparla come una commedia agrodolce che spesso strappa un sorriso di compiacimento nel vedere una umanità e una compassione così debordante senza essere stucchevole.

Questa è indubbiamente una delle doti di Koreeda che maggiormente conosciamo: la sua prospettiva in cui al centro c’è sempre spazio per l’infanzia, per la famiglia (quella distrutta e quella fittizia), per i legami che si creano sull’affinità della propria condizione , per lo scollamento della società con la realtà famigliare e per la critica sociale (qui meno accentuata a dire il vero).

giovedì 28 luglio 2022

Suzhou River / 苏州河 - 4K Restored Version [aka La donna del fiume] ( Lou Ye / 娄烨 , 2000 )

 




Suzhou River (2000) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Considerato sin dal 2000, anno della sua presentazione in anteprima al Festival di Rotterdam ,come uno dei lavori più significativi ed emblematici  scaturiti  dal movimento della Sesta Generazione di cineasti cinesi, Suzhou River-La donna del fiume , possiede tutti i paradigmi del film di culto: opera terza dell’allora trentacinquenne Lou Ye che si impone da subito come uno dei più militanti registi del nuovo corso, censura cinese che si abbatte prepotentemente sul film ( verrà presentato sugli schermi cinesi solo  molti anni dopo) e sul regista ( non autorizzato per due anni a dirigere in patria) , accoglienze trionfali in tutti i festival in cui è stato presentato, fino a divenire appunto uno dei manifesti cinematografici della Sesta Generazione.

Tranne una apparizione in un piccolo festival di cinema asiatico romano nel 2001 , il film è rimasto inedito in Italia fino ad ora ma il notevole lavoro di restauro in 4K da parte della  Basis Berlin Postproduktion e l’opera meritoria della casa di distribuzione Wanted ha finalmente, dopo 22 anni , portato sugli schermi italiani questa opera fondamentale, presentata in anteprima all’ultima Berlinale.




Il lavoro di restauro rasenta la perfezione sia dal punto di vista puramente tecnico che da quello filologico grazie al tentativo, cui ha personalmente presenziato il regista, di mantenere il più possibile il timbro personale  sia relativamente all’immagine che al suono, non snaturando l’essenza di un’opera che originariamente era stata concepita su pellicola a 16 mm a grana grossa.

La storia si basa sul racconto di un fotografo che funge da narratore di cui non conosciamo nome né volto, l’unico segno di tangibilità che lo contraddistingue da una classica voce fuori campo sono le sue mani che ogni tanto balenano sullo schermo; un racconto che corre su due binari, da un lato è quello personale del fotografo-narratore che ci racconta la sua storia d’amore tra il tormentato e l’etereo con Meimei una ballerina di night che si esibisce con una vistosa parrucca bionda e un abito da sirena in una grande vasca; dall’altro quello in cui lo stesso fotografo ci racconta la storia di Mardar, corriere e piccolo delinquente al servizio di un boss , e Madoun figlia sedicenne del boss che viene affidata al ragazzo quando il boss stesso ha da fare con le sue amanti: tra i due nasce un legame sentimentale che si interrompe drammaticamente quando la ragazza capisce che Mardar si è prestato al suo rapimento a fine di estorsione; Madoun si getterà nel fiume Suzhou e non si troverà più. 

Mardar  finisce qualche anno in galera e quando esce la sua ossessione è quella di  ritrovare la ragazza amata , fino a che non incontra Meimei , uguale come una goccia d’acqua all’amata Madoun.

Quella che potrebbe apparire come una banale storia d’amore come tante, narrata su un doppio binario spazio-temporale è invece intimamente immersa in una atmosfera urbana dominata dalla presenza del fiume che scorre dentro Shanghai e che come un libro aperto infestato di sporcizia galleggiante racconta la storia di una città e della sua gente che barcolla sotto i colpi dei cambiamenti tumultuosi e a volte persino drammatici che hanno sconvolto il tessuto sociale della Cina metropolitana sul fine del secolo scorso e gli inizi del XXI; il breve prologo con cui conosciamo la voce narrante del fotografo (non a caso Lou sceglie questa professione per il narratore) è quasi un’ode al fiume Suzhou, a Shanghai e ai suoi abitanti che lungo le sponde del fiume vivono e sopravvivono, inseguendo addirittura leggende e miraggi di sirene.

Le storie delle due coppie, distinte , ma poi di fatto convergenti ed intersecantesi sono invece la fotografia di una situazione sociale e personale che è abituale nei film dei registi della generazione di Lou Ye: solitudine, affanni amorosi che intossicano una vita difficile in cui tutto sembra sfuggire di mano, piccola delinquenza che sopravvive di loschi traffici, i dubbi e le paure per un futuro cui neppure il sentimento riesce a regalare un raggio di luce e di speranza; come tanti personaggi di quel cinema splendido che è stato quello degli anni della trasformazione della Cina da grande gigante silente e arretrato a potenza economica dove comunismo e capitalismo vanno a braccetto seppur tra mille contraddizioni, i protagonisti di Suzhou River-La donna del fiume, sono gli eroi silenziosi, la gente comune che sbanda sotto i colpi dei cambiamenti e le cadute delle certezze, che si aggrappa all’amore per trovare una sicurezza difficile da raggiungere.

giovedì 7 luglio 2022

The Calming / 平静 ( Song Fang / 宋方 , 2020 )


 



The Calming (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10 

Sin dalla sua prima al Festival di Berlino del 2020, dove riscosse non solo un riconoscimento ma anche una notevole quantità di giudizi positivi, The Calming della regista cinese Song Fang alla sua opera seconda dopo l’esordio di otto anni prima, ha confermato quanto di buono aveva già mostrato la regista nell’opera precedente; chiaramente influenzata dal cinema di Hou Hsiao Hsien di cui fu attrice in Flight of Red Balloon , l’opera di Song è di quelle che poco trasmettono con le parole  e tanto con le immagini o persino con frammenti di queste.

La trama è talmente esile da potersi considerare quasi superflua: basti sapere che al centro del racconto c’è una giovane regista reduce da una traumatica separazione con il partner che nell’arco di un anno affronta una sorta di viaggio di meditazione e di introspezione che diventa una immersione in immagini, ricordi, sensazioni, silenzi e sguardi.




La nostra protagonista vaga in Giappone dove incontra un amico cui confessa la separazione col fidanzato fino ad immergersi solitaria nel magnifico paesaggio innevato di Niigata, solcando le distese di un bianco accecante sull’immancabile treno; sempre in Giappone incontra Watanabe Makiko attrice nota soprattutto per essere una delle fedelissime d Sono Sion, poi si sposta a Pechino nella sua nuova casa con lo sguardo sulla città moderna, quindi la vediamo recarsi dagli anziani genitori con il padre malato in una casa che ha una bellissima veduta su un bosco , quindi passiamo ad Hong Kong dove la regista sta presentando il suo ultimo lavoro , un documentario a forte impronta naturalistica, ricco di suoni e di immagini di foreste e boschi e dove attraverso un dialogo con uno spettatore che si chiede se un’opera simile non sia più adatta ad una esposizione d’arte che ad un cinema , Song Feng ci immerge in una riflessione sull’arte e sul cinema, sempre ad Hong Kong incontra vecchi amici che hanno messo su famiglia e vivono in una casa che si affaccia sulla baia e sui monti che stanno alle spalle di Hong Kong ed infine il ritorno dai genitori con i ricordi di come lei fosse attratta sin da bambina dal bosco e dai suoi richiami notturni.

Come si vede il peregrinare della protagonista , una bravissima Qi Xi, da viaggio per dimenticare una delusione e una separazione diventa ben presto una ricerca di qualcosa più profonda, l’essenza dell’universo che ci circonda, la forza dello sguardo che sa carpire ogni piccolo frammento di realtà che ci passa davanti; la protagonista fa ciò con apparente indolenza, con lo sguardo spesso quasi vuoto, ma nel suo sguardo c’è invece , sempre , la luce dell’interesse e dell’emozione che una immagine reale può suscitare.

La regista si muove sempre in spazi che hanno una vista su qualcos’altro: enormi finestre e balconi che si affacciano spesso su una natura lussureggiante, finestrini del treno dai quali scruta il candore delle distese innevate del Giappone, il finestrino del taxi che mostra il volto di Kowloon; tutto quello che è mondo al di fuori di lei viene esplorato in silenzio , e noi con lei, per cogliere ogni attimo di vitalità del mondo reale che ci circonda e nel quale, anche se non sembra all’apparenza , la protagonista si immerge alla ricerca di qualcosa che sani il suo malessere e la sua tristezza, che però appare in maniera netta solo durante l’esecuzione dell’Alexander Balus di Handel in cui vediamo il suo volto rigarsi di lacrime, non a caso in un passo dell’ oratorio in cui  è cantata una separazione drammatica.

venerdì 1 luglio 2022

Are You Lonesome Tonight ? / 热带往事 ( Wen Shipei / 温仕培 , 2021 )

 




Are You Lonesome Tonight? (2021) on IMDb
Giudizio: 8/10

Promettentissima opera prima del giovane regista cinese Wen Shipei,  proiettata sia sui prestigiosi schermi del Festival di Cannes che su quelli di Toronto, Are You Lonesome Tonight ? (sì, proprio quella cantata e resa da famosa da Elvis Presley, per la quale rimane però arduo trovare un collegamento con la storia nonostante la sentiamo cantata svariate volte se si esclude forse il mood del racconto che ben si sposa con le parole del testo) è pellicola che vive molto sulle suggestioni delle atmosfere ben create a strutturate dal regista che sembra avere dei chiari riferimenti nel cinema di autori cui evidentemente si è più o meno volontariamente ispirato.
Tipico neo-noir cinese, il film racconta di un giovane, Xueming ,che uccide, investendolo, un uomo per poi , preso dalla paura gettarne il corpo in un fiume e fuggire; la scena dell'investimento verrà riproposta svariate volte quasi un loop nartrativo che ha però la funzione di farci capire sin da subito che qualcosa non è andato precisamente nel modo cui abbiamo assistito.



Quando poi Xueming dapprima casualmente incontra la moglie del defunto e poi intenzionalmente , mosso da un rimorso ingombrante che si presenta con numerosi volti, quasi come uno stalker, cerca di insinuarsi nella sua vita, come a voler trovare il modo di chiedere un perdono che possa almeno in parte redimerlo, scopriamo dalla signora Liang che il marito è stato dichiarato morto per numerosi colpi di arma da fuoco che chiaramente non è stato Xueming ad infliggere all'uomo.
Per tale motivo da un lato il ragazzo è sempre più mosso dal rimorso che lo porta a rivedere, addirittura a volte con connotati onirici, la scena di quella notte in cui investì l'uomo e dall'altra a cercare di capire come le cose siano effettivamente andate.
Senza spingerci nei territori che sanno di spoiler possiamo dire  che l'uomo ucciso frequentava qualche giro non proprio limpido e sembra indissolubilmente legato ad una borsa piena di soldi.
Ambientato in una Guanzhou umida, sporca , derelitta, dove tutto trasuda qualcosa, dove la pioggia non porta via lo sporco bensì lo nutre, l'opera prima di Wen possiede uno stile molto personale, fatto di atmosfere cupe dove predominano i colori virati al rosso grazie ad una fotografia che tende ad accentuare i contrasti soprattutto notturni, alcuni momenti richiamano in maniera limpida il cinema di Diao Yinan per talune tematiche e per l'atmosfera tetra intrisa di pessimismo, ma anche quello Bi Gan, con il suo sguardo che sconfina nel sogno e per certi versi, il ritmo dell'incedere del racconto ad esempio, quello di Wong Karwai.

giovedì 30 giugno 2022

The Novelist's Film ( Hong Sangsoo , 2022 )

 




The Novelist's Film (2022) on IMDb
Giudizio: 8/10

In un mondo globalizzato in cui le certezze sono sempre di meno e l'estemporaneità regna sovrana, l'annuale film  ( a volte anche più di uno) ,con annesso immancabile premio festivaliero , del regista coreano Hong Sangsoo si erge a baluardo di una delle pochissime certezze granitiche; da 26 anni Hong continua a sfornare lavori che sembrano ( ma non lo sono) sempre più tutti uguali a se stessi, mostrando una prolificità non comune che ne ha fatto uno dei beniamini  dei festival maggiori oltre che apprezzatissimo autore di quella frangia oltranzista di critici e spettatori che guardano al cinema d'autore come all'unico che rimane degno di rappresentare la Settima arte ai livelli più elevati.
La regolarità con cui Hong presenta i suoi lavori, al di là di ogni discorso fideistico, ha fatto delle sue opere una sorta di appuntamento, quasi una reunion ,di amanti dei suoi racconti quasi sempre dal forte impatto autobiografico, una sorta di finestra su stesso del regista.
Naturalmente the Novelist's Film non sfugge alle regole: Orso d'Argento Gran Premio della Giuria a Berlino e giudizi entusiastici da parte di coloro che son pronti a scommettere ad ogni nuovo lavoro sul capolavoro assoluto.
Molto più modestamente per molti di noi amanti del cinema , asiatico in particolare (sebbene Hong deve essere considerato a tutti gli effetti il meno asiatico tra i registi del lontano oriente), ogni nuova opera è vissuta come un rito annuale da consumare collettivamente: i lavori di Hong insomma ormai scandiscono le nostre vite come e meglio di tanti altri eventi più o meno globali.



The Novelist's Film si immette perfettamente nella scia delle ultime opere del regista coreano, precisamente da quando il suo sguardo si è spostato soprattutto sull'universo femminile, mantenendosi però fedele all'ambiente e alle tematiche che costituiscono lo scheletro indissolubile dei suoi film.
In quest'opera, di fatto un compendio e una riflessione su alcuni aspetti dell'arte in pochi quadri statici che trovano vitalità solo nelle zoommate e in piccoli spostamenti di macchina da presa, seguiamo una nota scrittrice, in evidente crisi di ispirazione che in una giornata trascorsa fuori Seoul va a fare visita ad una sua ex collega scrittrice anche lei che  sembra però aver mollato tutto e gestisce una libreria, poi incontra per caso un regista famoso, e sua moglie, col quale ha ancora qualche lontano conto in sospeso per non avere voluto rappresentare su pellicola un suo testo letterario; poco dopo passeggiando nel parco si imbatte in una attrice famosa, anche lei in un momento  prolungato di pausa del lavoro, e suo nipote studente di cinema; infine , seguendo un percorso circolare che nei film di Hong è sempre quanto meno accennato, ritorna insieme all'attrice  nella libreria dell'amica dove incontra un vecchio amico poeta e dove si consuma l'immancabile rito della bevuta purificatrice e inibitoria.
La protagonista è una donna che sembra essere avviata sul viale del tramonto, a suo dire si sente una scrittrice che enfatizza troppo la realtà ingrandendola e che per tale motivo vorrebbe dirigere un film, facendosi aiutare dal giovane studente e con interprete l'attrice e suo marito, perchè il film deve cogliere l'essenza della realtà che deve scaturire spontaneamente.

martedì 28 giugno 2022

Last of the Wolves ( Shiraishi Kazuya , 2021 )

 




The Blood of Wolves II (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10


Tre anni dopo The Blood of Wolves, Shiraishi Kazuya, uno dei registi più interessanti degli ultimi anni proveniente dal Giappone, dirige il sequel, attesissimo anche in Italia e presentato al FEFF del 2021; le entusiastiche reazioni che avevano accompagnato  The Blood of Wolves hanno creato un clima d’attesa quasi spasmodico intorno a Last of the Wolves, anche perché il regista non è venuto meno alla formula narrativa che tanto successo aveva portato al lavoro precedente.

Last of the Wolves, come il primo episodio del dittico, infatti si sviluppa su canoni da yakuza movie ultraclassico, nel quale abbondano le efferatezze, e che ricrea il clima dei tardi anni 80-primi anni 90 in cui è ambientato , poco prima della promulgazione della legge contro il crimine organizzato  che nel 1992 segnò una svolta nel paese e nella storia delle organizzazioni criminali.

Il film di Shiraishi riparte da dove era finito il primo: dopo la morte del detective Ogami e il colpo decisivo inferto al capo della gang Jinsei-kai grazie al ruolo avuto dal poliziotto Hioka, erede dell’azione di controllo propugnata dal collega ucciso, per tre anni la guerra tra le varie organizzazioni con base ad Hiroshima e dintorni ha subito una lunga tregua, anche grazie ai metodi di Hioka che nell’ombra manovrava le varie bande per assicurare una pace e scongiurare guerre sanguinose.




Quando però viene rilasciato Uebayashi, delfino dichiarato del boss ucciso tre anni prima e ben deciso a prendere in mano le sorti dell’organizzazione dell’ex boss, la guerra torna ad  esplodere in maniera fragorosa, più truculenta e sanguinaria che mai e che vedrà inevitabilmente coinvolto anche Hioka, colpevole di essere stato colui che causò la morte del vecchio boss.

Il personaggio di Uebayashi è un po’ la miccia che accende il film con una deflagrazione inaudita: psicopatico , folle, ben deciso a rimanere fedele al codice della vecchia yakuza fatto di violenza sangue e mutilazioni varie, fiero avversario della nuova yakuza dai colletti bianchi da brooker e uomini di finanza: un personaggio al limite, talmente sopra le righe, e non solo per i raccapriccianti outfit che presenta, da apparire subito una emanazione di un fumetto, un po’ come certi eroi tarantiniani.

Naturalmente dietro a questa follia dilagante si nasconde un’infanzia mutilata, umiliata e offesa per uscire dalla quale il piccolo Uebayashi si rende protagonista del suo esordio efferato nel mondo della violenza colorato da infinite scie di sangue.

Un background psicologico che il regista tende ad accennare in svariati personaggi, quasi che l’aver subito soprusi e violenze possa essere l’anticamera obbligata dell’entrata nel mondo del crimine.

Il film mantiene sempre un ritmo sostenuto, non stancano le quasi due ore e venti minuti, si rivolge a stereotipi ben consolidati ma che non sanno mai di già visto, si affida a un paio di colpi di scena che servono a creare una prospettiva diversa alla storia; ma fondamentalmente  Last of the Wolves è un film che esplicita in tutta la sua potenza l’immagine di un mondo del crimine privo di ogni controllo che portò il governo nel 1992 ad introdurre una legge durissima per combattere le organizzazioni criminali che infestavano ormai persino le strade delle città giapponesi.

martedì 14 giugno 2022

America Latina ( Damiano D'Innocenzo , Fabio D'Innocenzo , 2021 )

 




America Latina (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Già nelle loro opere precedenti, La terra dell’abbastanza e Favolacce, i fratelli D’Innocenzo, gemelli romani  trentaquattrenni, avevano ampiamente dimostrato l’indubbio talento soprattutto visivo che si connota in uno stile personale spesso ai confini con la fiaba; l’ultimo lavoro , presentato in concorso a Venezia, conferma una volta in più quanto a fiumi, e spesso in maniera anche scriteriata, è stato scritto sul loro cinema: America Latina, che nel suo essere un "grande imbroglio" dal punto di vista narrativo più profondo si presenta già dal titolo fuorviante, è lavoro complesso, molto personale sia nella cifra stilistica sia nel suo nocciolo di scrittura, ci restituisce l’immagine di due cineasti che mettono la ricerca stilistica e le ambientazioni al vertice del loro percorso cinematografico.

America Latina è anche opera difficile da raccontare senza cadere in spoiler o in semplici interpretazioni fallaci, motivo per il quale sposerò la causa della sinossi minimalista, che se non altro  mette al riparo dall’anticipazione selvaggia per ogni valutazione o riflessione fatta in fase di commento.

Massimo è un affermato dentista, ha una bella famiglia di sole donne, una moglie e due figlie, una villa “bella” nel mezzo della campagna; una esistenza insomma di quelle invidiabili, da autentico professionista di successo, che si concede solo ogni tanto una bevuta con l’amico del cuore Simone, una innocente evasione tra amici di vecchia data.




Può bastare una lampadina che si fulmina a rivoltare la vita di una persona in maniera sconvolgente? Quando Massimo scende in cantina per recuperare una lampadina il suo sguardo si apre su un abisso senza fondo che renderà la sua vita un qualcosa che sta a metà tra l’incubo e l’inferno.

Ed ecco allora che il grande inganno narrativo di cui si parlava prima prende piede: dopo dieci minuti abbiamo in mano tutto e come ogni buon thriller psicologico quale America Lattina è si tratta solo di mettere le tessere al posto giusto, ma quello che succede è meglio tacerlo.

La discesa di Massimo agli inferi della sua mente è qualcosa di tangibile o è solo frutto della sua psiche distorta?  Come si concilia l’America , cioè l’affermazione di se stessi, la vita agiata consona al livello sociale , la famiglia e tutti i valori che fanno delle società liberistiche i suoi capisaldi, con Latina, la città nella cui periferia si erge l’inquietante villa di Massimo e famiglia, tra residuati industriali, terre che un tempo erano paludi e scheletri edilizi in rovina?

A ben guardare tutto il film è un oscillare tra l’America e Latina , tra realtà e immaginazione, tra farsa e disperazione, tra una mente che perde gradualmente ogni contatto con il mondo reale ed insegue il suo mondo fatto di tenebre  e di orrore che ben si concretizza in quello scantinato ridotto a discarica e poi trasformato in una putrida piscina.

Il processo mentale e psichico che il protagonista imbastisce  è una guerra logorante tra ciò che gli si presenta agli occhi e ciò che non sa  e che teme di sapere, tra i  buchi della sua memoria ricolmi di psicofarmaci e alcool e un presente che nasconde una fragilità devastante.

venerdì 10 giugno 2022

L'Angelo dei muri ( Lorenzo Bianchini , 2021 )

 




L'angelo dei muri (2021) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Dopo cinque opere in vent’anni, quasi tutte rimaste all’interno dello stretto circolo di cinofili amanti del genere , finalmente Lorenzo Bianchini, regista , o meglio artigiano del cinema , friulano , trova il giusto e illuminato appoggio non solo di Rai Cinema e di MyMovies ma anche della Tucker Film ,  distributrice e produttrice del film, per finalmente presentare un lavoro che esce dai limiti del low cost e che consente al pubblico, anche quello non di nicchia, di poter apprezzare le doti del regista; l’Angelo dei muri infatti vedrà la luce nelle sale il prossimo 9 giugno, dopo essere stato presentato al Torino FilmFest dell’inverno scorso.

Lorenzo Bianchini nelle sue opere precedenti ha sempre attinto a piene mani a quell’horror del folklore che trova le sue radici nei racconti popolari, nelle leggende nere, nelle superstizioni della tradizione confezionando lavori di notevole fattura; con la sua ultima opera , in una sorta di processo naturale di tipo narrativo, il regista friulano si affida prevalentemente al genere del thriller psicologico nel quale si respira anche qualche influsso del ghost movie.

Un magnifico piano sequenza iniziale ci porta subito nel centro del racconto: la casa che Pietro deve abbandonare perché sfrattato ci mostra tutta la sua vetustà, la polvere posata su pavimenti e suppellettili, i letti , le finestre che si agitano sotto i colpi della bora; un sinuoso procedere della macchina da presa che sembra piuttosto entrare nelle viscere della casa piuttosto che percorrerne i corridoi e sbirciare nelle stanze.




Il vecchio Pietro, barba bianca e vecchiaia che incombe col suo peso  nelle sigarette e negli sguardi carichi di rassegnata melanconia, non vuole abbandonare la casa che è stata sua per tanti anni e verso la quale prova un legame profondo, per cui nel momento di andarsene si costruisce in fondo ad un corridoio un bugigattolo, alzando un muro e posizionando una grata che funge da sportello, ritrovandosi cos’ autorecluso in quella che è stata la sua casa per anni e che presto diventerà di qualcun altro, mentre lui assiste al via vai di operai e possibili compratori.

Il piccolo mondo di Pietro nel quale si è chiuso pur di mantenere un contatto con quella casa, diventa in un certo momento il suo tramite con una misteriosa ragazzina cieca che abita la casa con la giovane mamma; la ragazzina sa che Pietro esiste lo chiama il suo angelo ed il vecchio solo in quei momenti di fugace contatto con la piccola mostra una quasi ritrovata vitalità.

Chi sono quelle due figure che occupano la casa e che si muovono nelle stanze?  Perché Pietro guarda con tenerezza quella ragazzina sfortunata?

Ovviamente non lo diremo, ma non c’è dubbio che abbastanza presto nel racconto si intuiscono le line di confine del plot: ed è qui che la bravura di Bianchini come scrittore e regista segna il primo successo; sebbene appaia ben presto abbastanza chiaro cosa ci sia dietro alla storia, il regista ci conduce lungo le vie del racconto in maniera tale da costruire una sottile crescente tensione che trova soltanto nella forza narrativa la sua efficacia.

Bianchini insomma dimostra di sapere tenere lo spettatore in bilico sulla sedia rifuggendo tutte le classiche situazioni del genere, anche perché l’Angelo dei muri sa ben miscelare atmosfere da dramma e da thriller, riesce ad essere poetico in alcuni passaggi, scava nel recessi profondi della coscienza, indaga sul perdono e sulla colpa.

venerdì 20 maggio 2022

Sundown ( Michel Franco , 2021 )

 



Sundown (2021) on IMDb

Giudizio: 6.5/10

C'è sempre il Messico nel cuore cinematografico di Michel Franco: l'ultima volta che lo avevamo visto era stato il politico-apocalittico pluripremiato , ma per certi versi deludente, Nuevo Orden che nel 2020 vinse il Gran premio della giuria a Venezia; ora il ritorno al Lido, quasi un atto di fedeltà e gratitudine, è con Sundown, altro dramma moderatamente violento che per certi versi sembra riprendere anche l'analisi sociologica e antropologica che il precedente Nuevo Orden sbatteva in faccia allo spettatore con inaudita violenza e crudezza.
In una Acapulco che dietro l'apparente splendore e sfrenato lusso dei resort, nasconde un'anima marcia , decadente e schifosa Alice e Neil , fratello e sorella britannici, oziano al sole , godendosi drink e vedute marittime da cartolina; con loro i figli di lei, fratello e sorella, da poco usciti dalla adolescenza; sono i rampolli di una ricca famiglia inglese, proprietaria di una immensa catena di distribuzione di prodotti derivati dal maiale, macellai di gran lusso insomma.
Nel breve prologo il tempo passa come ci si aspetterebbe in ogni film ambientato nel sole cocente delle località marittime messicane, manca solo il sombrero e poi l'iconografia classica è completa.



Due momenti fulminei danno però , in maniera diversa, la svolta al racconto: da Londra una telefonata annuncia la morte della matriarca della famiglia e un breve ,e al primo impatto inspiegabile, segmento di qualche secondo, ci offre la chiave di lettura di tutto il film, ma sfido chiunque a capirlo prima che si giunga alla fine, una trappola narrativa insomma che funziona perchè non svela niente ma che al termine darà una prospettiva nuova alla storia, ammesso che uno si ricordi di quel piccolo inserto.
Neil finge di smarrire il passaporto e quindi non abbandona Acapulco per fare ritorno in Inghilterra, anzi, trascinandosi con i suoi bermuda lisi e le sue camiciole sempre sgualcite prende una stanza in un albergo di infimo ordine nella Acapulco nascosta dietro le cartoline fatte di mare splendente e di scogliere mozzafiato, dove prosegue il suo buen retiro messicano stavolta su spiagge in stile ostiense con fagottari panzoni, bellezze sfiorite , delinquenti e assassini in libera attività.
Neil vive nella indolenza assoluta , lo sguardo che scivola sempre più verso l'ebete, stringe un rapporto con una giovane ragazza del posto di cui diventa amante, una deriva personale che appare addirittura ridicola vista alla luce dell'inedia che sembra circondarlo.
Quando la sorella tornerà per capire cosa è successo a Neil, quest'ultimo compirà il gesto che porterà alla frattura conclusiva con quello che è stato il suo mondo.
Sundown vive essenzialmente su due binari narrativi sostanziali: da un lato quello sociale che ci mostra la visione di Franco del Messico attuale, dall'altro quello antropologico che ci racconta le conseguenze di una presa di posizione netta che porta alla volontà di tagliare con tutti ed isolarsi nel mondo che intorno continua a scorrere.

giovedì 5 maggio 2022

E' andato tutto bene [aka Everything Went Fine] ( François Ozon , 2021 )

 




Everything Went Fine (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Nel variegato e polimorfo universo cinematografico di Francois Ozon, mancava fino a qualche anno fa il racconto che una volta si sarebbe definito di impegno civile: con Grazie a Dio prima e con E' andato tutto bene ora nell'arco di due anni mette sul piatto la sua visione di due tematiche a forte impronta civile, la pedofilia nella Chiesa e l'eutanasia; ma mentre nel primo caso affronta l'argomento partendo da un fatto realmente accaduto che scosse la comunità cattolica di Lione fin nei suoi vertici ecclesiastici per approdare ad una pellicola carica di dramma personale e sociale, nel caso di quest'ultimo E' andato tutto bene, lo spinoso argomento dell'eutanasia e della autodeterminazione del malato a decidere una fine dignitosa, viene descritto sotto una prospettiva nella quale la mano consueta del regista parigino è evidentissima soprattutto per il suo tocco di humor e per l'eleganza con cui viene raccontata la storia.
Tratto da un romanzo autobiografico di Emmanuele Bernheim, scrittrice e collaboratrice di Ozon negli ultimi anni , scomparsa nel 2017 all'età di 62 anni, il film narra la storia dell'ultraottantenne Andrè, che colpito da un ictus che lo invalida nei movimenti, per nulla nelle funzioni cerebrali, decide di voler ricorrere all'eutanasia non sopportando più di vivere su una sedia a rotelle con tanto di assistenza continua, lui che nella sua lunga vita è stato uno di quei personaggi un po' bohemien che popolano i racconti di Ozon: musicista di fama ,sposato e separato da una donna i cui parenti si opposero fieramente al matrimonio, in quanto ritenevano Andrè un gay , ed in effetti l'uomo, da bravo viveur non disdegnava i piaceri corporali con altri uomini, padre tutt'altro che esemplare anche con le figlie cui decide di gettare sulle spalle la croce della sua decisione di porre fine alla sua vita.



Le due figlie, Emmanuelle, la maggiore, e Pascale, si trovano quindi ad affrontare il problema non solo dal punto di vista morale ed etico, che è poi di fatto il perno su cui ruota tutta la riflessione contenuta nel film, ma anche pratico visto che anche in Francia la legge vieta tale procedura , motivo per cui, dovranno rivolgersi  all'accogliente Svizzera (basta avere i soldi, ovvio...) per portare a termine i desideri del vecchio patriarca.
Lungi dall'essere carica di drammaticità, l'opera di Ozon è percorsa da venature di umorismo, a volte anche un po' grigiatsro, se non proprio nero, e da una prospettiva comunque mai di parte, senza essere schierato, evitando quindi la battaglia ideologica in favore di un equilibrio e soprattutto di una tematica che si discosta un po' dal cuore del problema: il tormento , l'imbarazzo e il dolore di chi si trova a dover diventare come colui che stacca la spina dalla macchina che tiene in vita, una macchina stavolta, nel caso di Andrè, puramente figurata, visto che comunque l'uomo mantiene viva la sua funzione intellettiva e la sua lucidità; è insomma la prospettiva tipica del regista che predilige raccontare l'uomo davanti alle sua contraddizioni e alle sue responsabilità, ieri era contro il potere oggi è contro il destino e la dinamica famigliare.
La scelta di Andrè inoltre fa ben presto venire a galla il passato della due figlie, la maggiore , la prediletta, che però ha sempre pensato da giovane di voler vedere il padre morto e che ora ha sulle sue spalle il  gravoso compito di accompagnarlo nella fossa, e la minore che ha sempre vissuto un po' all'ombra della sorella: la famiglia borghese benestante, cui va aggiunta la figura di una madre artista in perenne crisi depressiva che vive da sola e che però non ha mai strappato definitivamente il legame con un marito che ha molto amato comunque, altro bersaglio abituale di Ozon, calderone nel quale ribollono le passioni e le contraddizioni personali, i vissuti dell'infanzia e le esperienze di una vita.

giovedì 7 aprile 2022

A Writer's Odyssey [aka L'eroe dei due mondi] / 刺殺小說家 ( Lu Yang / 路阳 , 2021 )

 




A Writer's Odyssey (2021) on IMDb
Giudizio: 7/10

In un periodo storico in cui il cinema cinese sta vivendo una metamorfosi che si presenta vertiginosa ed in cui da un lato rimangono quelle zone periferiche nelle quali si posiziona il cinema d'autore e quello indipendente e dall'altro invece irrompe in maniera sempre più decisa e fragorosa il blockbuster in grande stile, lasciando un spazio centrale che appare insolitamente disabitato , quello in cui si poneva il cinema che sapeva coniugare l'aspetto commerciale e la qualità, un film come A Writer's Odyssey si distingue per il suo essere un prodotto dal forte impatto commerciale , dal budget solido ma anche da una certa qualità di fondo e il cui risultato è quello di risultare un'opera mainstream e di intrattenimento che presenta però anche aspetti interessanti.
Il film è tutto raccontato in un continuo alternarsi di realtà e fantasy: c'è infatti il protagonista Guan che dopo sei anni non si riesce a dar pace per la scomparsa della figlioletta, dà la caccia ai trafficanti di bambini che crede di avere individuato come i rapitori della ragazzina, possiede una capacità balistica con le mani tale che neppure il miglior lanciatore della Major Legue si può minimamente paragonare a lui.



Quando viene avvicinato da una giovane donna che lavora per una società piuttosto misteriosa che le propone la possibilità di ritrovare la figlia in cambio dell'uccisione di uno scrittore di romanzi-live in rete, l'uomo ovviamente accetta, salvo scoprire presto che il patto stretto conduce in un turbinio di situazioni apparentemente assurde: il racconto scritto dal giovane romanziere infatti sembra avere la capacità di condizionare la realtà e di imbricarsi pericolosamente con essa; come non bastasse Guan si rende conto che in quel romanzo e e nel suo interagire con la realtà potrebbe esserci la chiave per ritrovare la figlia scomparsa oltre che la possibilità di penetrare lui stesso nel mondo fantastico raccontato dallo scrittore.
Dietro la richiesta di uccidere lo scrittore c'è il capo della società per cui lavora la giovane segretaria che aveva abbordato Guan e col procedere del racconto si riesce ad intuire meglio come  e perchè la realtà si interseca con la fantasia.
Nel corso delle abbondanti due ore del film i registri intorno cui il racconto si sviluppa variano continuamente: in una atmosfera di fantasy troviamo accenni al Wuxia, all'action movie, alle leggende tipiche della cultura e della tradizione cinese, all'horror movie: come filo comune c'è una dissertazione di fondo, abbastanza superficiale a dire il vero, sul ruolo del narratore e su come la realtà possa effettivamente interagire con la fantasia, l'inevitabile battaglia sempiterna tra bene e male  e soprattutto uno sfoggio di mirabili tecnologiche che a ben vedere costituiscono probabilmente l'aspetto più accattivante ed interessante del film, a maggior ragione se consideriamo che la crew tecnica che si occupa delle riprese digitali e delle varie altre tecnologie è totalmente cinese, quando fino a poco tempo fa ci si affidava , anche nei kolossal, a cast tecnici coreani o americani.

martedì 5 aprile 2022

La persona peggiore del mondo [aka The Worst Person in the World] ( Joachim Trier , 2021 )

 




The Worst Person in the World (2021) on IMDb
Giudizio: 4.5/10 

Quasi inspiegabilmente entrato nella cinquina finale per gli Oscar da cui è stato prescelto il vincitore, affiancato ad opere come Drive My Car ed  E' stata la mano di Dio, La persona peggiore del mondo di Joachim Trier  soffre della sindrome del "film carino"; così infatti viene largamente definito in una sola parola la pellicola del regista danese , che a sua volta già non aveva granchè convinto con le sue due ultime opere.
Film carino, che come ben sappiamo non significa nulla , perchè nè di persone nè di oggetti più o meno inanimati si tratta, bensì di cinema che dovrebbe accendere i nostri sentimenti , le passioni, la curiosità o la maraviglia; il film di Trier, purtroppo, sebbene avvolto da una livrea a tratti addirittura seducente è pellicola che cinematograficamente non desta alcuno stimolo.
Strutturato in maniera alquanto pretenziosa in  capitoli ( 12 ) un prologo e  un epilogo, iniziamo con atmosfere che sembrano derivate da Woody Allen, con tanto di voce narrante che ci inquadra la protagonista che vuole fare il medico per poi capire che le interessa la psiche e quindi abbraccia gli studi di psicologia per concludere poi che il suo mondo è quello della fotografia e per finire comunque a fare la commessa in una libreria.



Si va avanti con ambientazioni da Il grande freddo di Kasdan per inanellare, capitolo dopo capitolo, dissertazioni più o meno filosofiche e altrettanto più o meno sbrigative , in ordine sparso su: tradimento amoroso, femminismo militante ("si può essere femministe e provare piacere a farselo mettere in bocca?" "teoria del pene flaccido che è bello da far indurire" per finire "al sesso orale in tempi di Metoo") , passando per gli immancabili problemi famigliari con figure paterne patetiche, per Freud e la cultura fumettistica underground, la questione ambientale, funghi allucinogeni, arte  e ovvietà da telenovela tipo " spero di essere me stessa con te", il tutto imperniato intorno alla figura della protagonista e della sua presunta maturazione personale trattata con un coming-of-age un po' troppo maturo, visto che di una trentenne si parla, che entra in conflitto coi suoi compagni amorosi per la sua mancanza di volontà ad esser madre , sempre spinta a sperimentare , a cambiare pagina rapidamente, a buttare nel cesso tutto per i suoi semplici capricci ( " Vogliamo cose diverse")
E nonostante come il titolo del film si definisca uno dei suoi partner , la vera persona detestabile è proprio lei , Julie, la biondina che non  matura mai, che lascia Aksel perchè questi vuole un figlio, si mette con Eivind il bambacione che non si sa se i figli li voglia o meno però la ingravida, e lei che torna da Aksel malato di cancro a chiedergli se lui pensa che possa essere una brava madre: complimenti per la sensibilità e delicatezza ! Il fato comunque ci darà la soluzione dell'enigma.

venerdì 1 aprile 2022

Benedetta ( Paul Verhoeven , 2021 )

 




Benedetta (2021) on IMDb
Giudizio: 6.5/10

Concluso nel 2018, programmata la sua uscita nel 2019 a Cannes, rimandato per problemi di salute del regista che ne hanno bloccato la post produzione fino a tutto il 2019 e per ulteriori ritardi che hanno portato alla sua anteprima sempre a Cannes ma nel 2021, l'ultimo film di Paul Verhoeven, attesissimo anche perchè si immaginava foriero di polemiche e crociate religiose di vecchia memoria, ci riporta  in maniera quasi automatica alle atmosfere di Flesh+Blood, opera del 1985 a tutt'oggi uno dei suoi lavori più belli e visionari.
Per questo racconto ambientato nella Toscana del XVI secolo in piena epidemia di peste, il regista olandese si affida al testo di Judith C.Brown "Atti impuri-Cronaca di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento" una cronaca ispirata alla figura di Benedetta Carlini, uno dei tanti personaggi che hanno arricchito il Rinascimento italiano e dei quali non si riesce a capire quanto ci sia di santità e quanto di ciarlataneria.
Sin da bambina la piccola Benedetta dimostra una fede incrollabile nella Vergine, un afflato quasi morboso che la porta però a salvare se stessa e la sua famiglia dai briganti come si vede nella prima scena del film, proprio durante il viaggio che la famiglia ha organizzato per portarla al convento delle monache teatine di Pescia; qui dietro pagamento di una cospicua dote richiesta per accedere al convento ed essere avviata al noviziato, la ragazzina inizia la sua carriera di monaca che tra un mezzo miracolo e l'altro la porta un po' di anni dopo ad essere un personaggio di spicco del convento al punto di spingere le autorità locali a sostituire la badessa con Benedetta stessa, nel frattempo (auto)assurta a ruolo di santa con tanto di stigmate ricevute e visioni di Cristo con il quale la giovane donna ha frequenti contatti in visioni che a volte appaiono quasi blasfeme.



Tra un miracolo presunto o gridato e l'altro, tra una visione e una profezia, tra un sogno e una aura di santità Benedetta stringe una relazione lesbica con una novizia del convento che lei stessa ha salvato dalle grinfie di una famiglia che abusava di lei.
Per buona parte del segmento centrale il film si impernia sulla relazione lesbica che si imbrica narrativamente quasi in modo naturale con il fervore messianico della donna sempre in contatto con Cristo: l'amore carnale ricercato e voluto e quello spirituale , che però sembra scivolare ,  in maniera piuttosto ambigua, sempre verso il fervore sessuale, conducono Benedetta sulla soglia della santità ( processo che fu molti anni dopo riaperto), all'essere elevata protettrice contro la peste che in effetti sembra risparmiare il piccolo borgo di Pescia.
Quando le autorità ecclesiastiche superiori intervengono stimolate dalla badessa soppiantata animata da spirito di vendetta , per Benedetta passare dalla santità all'accusa di stregoneria sarà un attimo, nonostante il popolino e le sue consorelle continuino a considerarla una santa.
Il finale, unica licenza che il regista, come ha dichiarato, si prende verso il riferimento letterario lascia aperta la domanda: è stata Bnedetta una santa, una strega , una ciarlatana o una puttana?
Verhoeven naturalmente si guarda bene dal dare un suo punto di vista personale e quindi un giudizio sulle mille domande che accompagnano il racconto, anzi sembra divertirsi a farci sguazzare nelle mille domande e nei mille dubbi che la figura di Benedetta produce.

mercoledì 30 marzo 2022

Spencer ( Pablo Larrain , 2021 )

 




Spencer (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Dopo Jackie e Ema, che comunque incarna un ideale femmineo seppur più moderno, Pablo Larrain torna ad esplorare probabilmente l'unico altro personaggio femminile della seconda metà del secolo scorso che possa essere paragonata in quanto a dimensione del mito a Jacqueline Kennedy, la principessa Diana d'Inghilterra la cui vita tragicamente conclusasi con l'incidente del ponte dell'Alma di Parigi è assurta in breve tempo ad icona incancellabile  di grazia, umanità ed in un certo senso di ribellione.
Come per il film sulla figura della moglie di John Kennedy, anche Spencer si focalizza su un piccolissimo segmento della vita di Diana, le festività natalizie del 1991 nella tenuta reale del Norfolk, attraverso il quale il regista delinea i contorni del personaggio e della costruzione del suo mito attraverso quella che è stata la più grande contraddizione della vita di Diana: l'essere entrata a corte , pensando di vivere la sua favola d'amore regale e ritrovarsi ben presto ai margini della famiglia per la suo desiderio di scrollarsi di dosso tutti i doveri che l'etichetta rigida impone; un mito che passa per la ribellione personale pagata a caro prezzo considerate le vere e proprie umiliazioni che Lady D dovette subire.



Già l'inizio del film ci presenta una Diana in lotta con l'ambiente che la opprime: a bordo della sua spider non riesce a trovare la strada per arrivare al castello, si ferma nei campi stimolata dai ricordi del Norfolk , sua terra natale, si sottrae quasi con sdegno ai riti che lo corte impone all'arrivo, primo fra tutti quello grottesco della pesatura, i fantasmi dell'anoressia-bulimia la assalgono in continuazione, il rapporto col marito Carlo è già avviato alla catastrofe visto che la sua relazione con Camilla è ormai praticamente ufficiale, persino l'incubo del fantasma di Anna Bolena ( non a caso altra figura la cui vita a corte subì una parabola discendente fino a portarla a morte per mano del marito Enrico VIII ); unico lampo di luce nel grigio di una vita piena di delusioni e di tormenti, il rapporto coi due figli, che erano per lei l'unico motivo che manteneva ancora un tenue filo di contatto con la corte.
Con tali premesse è facilmente comprensibile come il film di Pablo Larrain sia tutt'altro che un biopic classico che si basa sulla cronaca o sulle letture nascoste dei fatti: d'altronde Diana è stato forse il primo personaggio globale della storia, conosciuta in tutto il mondo anche grazie alle sue opere caritatevoli, ai suoi rapporti con il mondo dello spettacolo e dello sport, oltre che con gli uomini politici di tutto il mondo, motivo per il quale sarebbe difficile trovare da scrivere o aggiungere qualcosa a quanto già non si sappia della sua vita.

giovedì 24 marzo 2022

True Mothers ( Kawase Naomi , 2020 )

 




True Mothers (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

C'è voluto un evento unico e drammaticamente globale come la pandemia da Sars-Covid per impedire la rituale prima sulla Croisette per un film di Kawase Naomi, che da anni ormai è stata adottata dalla rassegna francese anche per il costante contributo produttivo che riceve la regista giapponese dai nostri cugini d'oltralpe; è stato quindi il Festival di Toronto prima e quello di San Sebastian subito dopo a fare da palcoscenico per la prima di True Mothers, l'ultimo lavoro della regista nativa di Nara, opera di quasi due ore e mezzo di durata , centrata sui temi della maternità, quella biologica e quella acquisita, e dell'adozione, argomenti che rimandano inevitabilmente alla esperienza personale della regista che fu abbandonata dai genitori in tenera età.
Per affrontare un tema così vasto, così carico di angolature e prospettive e soprattutto così scivoloso, la regista ripiega su una narrazione molto più convenzionale, quasi un racconto lineare, per riservare solo piccoli momenti al suo cinema a volte astratto , altre etereo, sempre comunque raccontato con delicatezza e con grazia, privilegiando la scelta di affrontare da un punto di vista prettamente femminile le tematiche contenute nel film.



Satoko e Kiyokazu sono una coppia che dopo averle tentate tutte, a causa della infertilità di lui, decidono di adottare un bambino, il figlio di una quindicenne i cui genitori non hanno intenzione di far rimanere con la giovane madre.
Il piccolo Asato cresce circondato dall'amore dei genitori che cercano di proteggerlo in ogni modo soprattutto da quella forma di strisciante discriminazione, oltrechè di pura cattiveria, cui i figli adottati a volte vengono sottoposti, come dimostra la scena iniziale dell'incidente scolastico.
Improvvisamente, quando il piccolo ha ormai cinque anni, ricompare dal nulla Hikari la madre biologica , reclamando a sè il figlio o in alternativa il pagamento di una somma per impedire che il ragazzino venga a sapere le sue origini.
Il film vive per larghissima parte su questo dualismo che appare tra l'altro quasi naturale, perchè secondo la regista entrambe le donne possono legittimamente considerarsi madri alla stessa stregua.
Con l'utilizzo di lunghi flashback veniamo a conoscere quindi il modo in cui Hikari rimane incinta , conseguenza del primo rapporto amoroso adolescenziale con un compagno di scuola, la reazione della famiglia e il suo isolamento su un'isola dove sorge una struttura in cui trovano ospitalità le giovani nella sua stessa condizione, per poi ritrovarla in un altro salto temporale qualche tempo dopo quando se ne va di casa e inizia una vita difficile priva di stabilità e fatta di amicizie estemporanee.
Grazie a questo procedere non lineare fatto di balzi temporali si arriva al presente e all'epilogo in cui il confronto tra le due madri è inevitabile, sebbene se un difetto True Mothers possiede è quello di scegliere un finale un po' troppo forzato.
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