Tre anni dopo The Blood of Wolves, Shiraishi Kazuya, uno dei registi più interessanti degli ultimi anni proveniente dal Giappone, dirige il sequel, attesissimo anche in Italia e presentato al FEFF del 2021; le entusiastiche reazioni che avevano accompagnato The Blood of Wolves hanno creato un clima d’attesa quasi spasmodico intorno a Last of the Wolves, anche perché il regista non è venuto meno alla formula narrativa che tanto successo aveva portato al lavoro precedente.
Last of the Wolves, come il primo episodio del dittico, infatti si sviluppa su canoni da yakuza movie ultraclassico, nel quale abbondano le efferatezze, e che ricrea il clima dei tardi anni 80-primi anni 90 in cui è ambientato , poco prima della promulgazione della legge contro il crimine organizzato che nel 1992 segnò una svolta nel paese e nella storia delle organizzazioni criminali.
Il film di Shiraishi riparte da dove era finito il primo: dopo la morte del detective Ogami e il colpo decisivo inferto al capo della gang Jinsei-kai grazie al ruolo avuto dal poliziotto Hioka, erede dell’azione di controllo propugnata dal collega ucciso, per tre anni la guerra tra le varie organizzazioni con base ad Hiroshima e dintorni ha subito una lunga tregua, anche grazie ai metodi di Hioka che nell’ombra manovrava le varie bande per assicurare una pace e scongiurare guerre sanguinose.
Quando però viene rilasciato Uebayashi, delfino dichiarato del boss ucciso tre anni prima e ben deciso a prendere in mano le sorti dell’organizzazione dell’ex boss, la guerra torna ad esplodere in maniera fragorosa, più truculenta e sanguinaria che mai e che vedrà inevitabilmente coinvolto anche Hioka, colpevole di essere stato colui che causò la morte del vecchio boss.
Il personaggio di Uebayashi è un po’ la miccia che accende il film con una deflagrazione inaudita: psicopatico , folle, ben deciso a rimanere fedele al codice della vecchia yakuza fatto di violenza sangue e mutilazioni varie, fiero avversario della nuova yakuza dai colletti bianchi da brooker e uomini di finanza: un personaggio al limite, talmente sopra le righe, e non solo per i raccapriccianti outfit che presenta, da apparire subito una emanazione di un fumetto, un po’ come certi eroi tarantiniani.
Naturalmente dietro a questa follia dilagante si nasconde un’infanzia mutilata, umiliata e offesa per uscire dalla quale il piccolo Uebayashi si rende protagonista del suo esordio efferato nel mondo della violenza colorato da infinite scie di sangue.
Un background psicologico che il regista tende ad accennare in svariati personaggi, quasi che l’aver subito soprusi e violenze possa essere l’anticamera obbligata dell’entrata nel mondo del crimine.
Il film mantiene sempre un ritmo sostenuto, non stancano le quasi due ore e venti minuti, si rivolge a stereotipi ben consolidati ma che non sanno mai di già visto, si affida a un paio di colpi di scena che servono a creare una prospettiva diversa alla storia; ma fondamentalmente Last of the Wolves è un film che esplicita in tutta la sua potenza l’immagine di un mondo del crimine privo di ogni controllo che portò il governo nel 1992 ad introdurre una legge durissima per combattere le organizzazioni criminali che infestavano ormai persino le strade delle città giapponesi.
Se l’opera di Shiraishi con il passare dei minuti diventa sempre più un confronto tra il folle boss privo di ogni morale che non sia la sua legata alla yakuza e allo spargimento di sangue e il poliziotto che si muove in quel limbo di grigio che sta tra la giustizia e il malaffare con tanto di manovratori occulti dei livelli superiori, tormentato peraltro dal suo coinvolgimento personale e dei suoi affetti, il corollario di personaggi secondari è davvero notevole non solo per il colore delle giacche e camicie sfoggiate , ma anche per la vasta gamma di esaltati e violenti presentata.
Insomma come ogni buon yakuza movie che si rispetti, Last of the Wolves non manca di presentare quelli che tutto sommato sono un po’ i luoghi comuni del genere, ma lo fa con il giusto mix di gore e di ironia: per cui largo spazio a dita mozzate, torture da medioevo, coltellate, sparatorie, scazzottate, bastonate, stupri ed efferatezze varie, giacche e camicie da clown, dialoghi eccessivi, atteggiamenti da bulli; il trionfo dei topoi del genere , esattamente quello che ci si aspetta da un film di genere.
Ovviamente il film di Shiraishi è anche molto altro: le tematiche della colpa e del rimorso, la disamina sociale e quella politica, lo sguardo sulla corruzione di un paese che ha stentato ad uscire da certi terreni paludosi, il destino segnato da scelte quasi obbligate, un clima molto cupo ( anche grazie ad una fotografia valida e ad una ricostruzione storica ben fatta), pessimista in cui non c’è spazio per molto altro che non sia una vendetta tardiva che chiude il film e una metaforica immagine di un lupo di montagna, forse un allucinazione o qualcosa di più profondo.
Suzuki Ryohei , non a caso ripetutamente premiato nei vari festival in cui il film ha ricevuto grossi riconoscimenti, dà vita ad uno dei villain più straordinari che il cinema ci abbia regalato in questi ultimi anni ben fronteggiato da Matsuzaka Tori, poliziotto che vive in quel limbo grigio di cui abbiamo parlato: un film che si polarizza sempre di più sul confronto tra il buono ed il cattivo non poteva trovare due interpreti in stato di grazia migliori
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