mercoledì 30 dicembre 2020

In the Shadows ( Erdem Tepegoz , 2020 )

 




In the Shadows (2020) on IMDb
Giudizio: 7/10

In una epoca imprecisata e in un luogo indefinito si sviluppa il racconto di In the Shadows , opera del regista turco Erdem Tepegoz: un luogo carico di rovine desolate e marcescenti, ferraglia abbandonata a se stessa, palazzi che si sbriciolano, raccolti intorno ad una miniera dove come operai da epoca di Rivoluzione Industriale, si muove una umanità silenziosa, sporca , abbrutita, controllata in ogni suo gesto da un sistema di telecamere arrugginite e decadenti anch'esse e comandata da una voce metallica che ripete in ogni occasione possibile di tornare al proprio posto di lavoro; chi si ammala, dopo un grottesco esame condotto con apparecchiature fatiscenti e cadenti, viene allontanano dal posto di lavoro.
In questo limbo per poveri disgraziati che potrebbe essere un passato remoto come un futuro post apocalittico che regge la sua esistenza sulle rovine del mondo moderno è proibito ammalarsi quindi, ma anche opporre la seppur minima resistenza; eppure tutti i personaggi lavorano come schiavi, temendo di perdere il lavoro, come se la loro vita non avesse altre prospettive che quella di far funzionare una struttura industriale annessa alla miniera.



Il solo sospettare qualcosa di non funzionante , come imprudentemente fa il capelluto Zait che si affida la riparatore ufficiale per un problema con un pezzo della macchina su cui lavora, ha delle conseguenze letali: cibo ridotto, acqua tagliata, la minaccia della dismissione come manodopera dalla fabbrica, l'avversione degli altri lavoratori che vedono nel ribelle qualcuno che nuoce alla loro esistenza.
Procedere oltre nella sinossi sarebbe operazione inutile oltre che sbagliata perchè molto di quello che c'è da raccontare fa parte dell'esperienza visiva e della struttura filosofico-allegorica che impregna In the Shadows.
Il film di Tepegoz sfugge a classificazioni di genere e ha l'indubbio pregio di offrire uno sguardo originale, distopico e fortemente pessimista sull'umanità raffigurata nel film come un insieme di personaggi privati di ogni forma di socialità e di comunicazione, immersa nei detriti e nelle rovine di una società che di fatto non esiste più, almeno nelle sue sfere dirigenziali: solo l'operaio esiste, manipolato da una voce e da telecamere perennemente accese dietro cui non si sa bene chi possa esserci.

domenica 27 dicembre 2020

Beyond the Dream / 幻爱 ( Kiwi Chow / 周冠威 , 2020 )

 




Beyond the Dream (2019) on IMDb
Giudizio: 8/10

Ancora una volta, come spesso accaduto negli ultimi anni, la cinematografia di HongKong, per molti versi in crisi profonda, è capace di imporsi grazie ad un lavoro che racconta di situazioni disagiate; laddove ogni anno era il noir , l'action movie o la commedia a primeggiare, da un po' di tempo trova invece spazio e si impone una tipologia di film che in altri tempi sarebbe stato definito " di impegno sociale" : anziani disabili, malati mentali, personaggi ai margini della società pericolosamente in bilico sulla quella esilissima linea di confine che separa il cosiddetto normale dall'anormale sono infatti i protagonisti di questa piccola rinascita del cinema di Hong Kong.
Beyond the Dream appartiene ai diritto a questa categoria di film; in più il regista Kiwi Chow cinque anni orsono fu uno dei giovani registi protagonisti di quel Ten Years , lavoro corale che vide la luce nel pieno della rivolta degli ombrelli gialli e che proiettava nel futuro lo sguardo sul destino incerto di una Hong Kong in quei momenti ribollente di proteste; il mediometraggio di Chow che faceva parte del lavoro corale risultò il più politico e duro mostrando i connotati ideologici e culturali del regista.
In Beyond the Dream Chow affronta il tema della malattia mentale, lungi però dall'analisi scientifica o comportamentale, bensì nell'ottica della sua fenomenologia nella vita di tuitti i giorni.



Lok è un giovane che da poco è uscito dal tunnel della malattia mentale a causa della sua personalità schizoide, il quale riconoscendo bene i segni  del disagio mentale soccorre in strada una giovane donna in preda ad una crisi; mentre il resto delle persone riprende la scena e si lascia andare a dileggi contro la malcapitata Lok , aiutato da una ragazza sconosciuta la conforta .
Qualche tempo dopo , con grande stupore scopre che la giovane che si è prestata ad aiutare la donna in strada abita nel suo stesso stabile, vittima di un padre violento e ubriacone, inizia a frequentarla, cerca di proteggerla dal padre e instaura con lei una relazione affettuosa; purtroppo per Lok però quella donna non è altro che la sua proiezione del disagio  psicologico ,motivo per cui finisce nuovamente ricoverato per il riacutizzarsi della malattia.
Con enorme sorpresa in ospedale scopre che quella donna che lo aiutò e della quale lui credette di innamorarsi è una psicologa che lo prende in cura in quanto interessata ad uno studio sul disturbo di cui è affetto Lok.
Come si piò facilmente capire la vita reale e quella immaginata dal ragazzo si trovano a correre su binari pericolosamente paralleli rendendo la salute mentale di quest'ultimo instabile, inoltre Yip Lam, la psicologa, ha anch'essa un passato turbolento e una serie di disturbi psicologici; il rapporto tra i due diventa quindi una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, tra coercizioni morali e professionali, sensi di colpa, vita reale che si confonde col sogno o con l'immaginario patologico, fino ad un finale al limite del poetico e dell'onirico ma non propriamente ottimistico.

martedì 22 dicembre 2020

The Woman Who Ran ( Hong Sangsoo , 2020 )

 




The Woman Who Ran (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Approfittando dell'assenza per qualche giorno del marito , dal quale non si separa mai perchè come dice spesso citando il marito stesso "chi si ama deve stare sempre insieme" , Gamhee decide di far visita a vecchie amiche: una che vive in una zona periferica residenziale insieme ad una amica, un'altra che ha appena rotto una relazione sentimentale e che a suo dire viene perseguitata da un uomo conosciuto in un bar e col quale ha avuto solo un rapporto di una notte ed un'altra ancora , incontrata, par di capire, casualmente e che ha qualcosa da farsi perdonare da Gamhee.
Tre quadri , statici, sublimazione assoluta dello stile di Hong Sangsoo, separati tra loro da un intermezzo musicale e dalla presenza impalpabile, a tratti patetica di un personaggio maschile; un lavoro di breve durata tutto incentrato su figure femminili, altra estremizzazione dello sguardo  del regista sempre più propenso ad indagare e a privilegiare l'universo femmineo.
Il processo di feminilizzazione iniziato da Hong già da qualche anno trova il suo caposaldo narrativo nella figura di Kim Minhee, attrice prediletta nonchè compagna di vita del regista , il suo tramite esploratore di un universo che il regista sembra prediligere, nei suoi dolori, nelle sue ambiguità, nella sua umana imperfezione.



Gli uomini che dominano i suoi primi film, quasi sempre personaggio descritti prevalentemente nei loro vizi e nella loro meschinità che rasenta l'abiezione, sono sempre più figure marginali, in The Woman Who Ran addirittura dei meri intermezzi fastidiosi come può esserlo un intruso; forse Hong considera se stesso un intruso del mondo femminile, ma il suo legame con Kim ne fa un osservatore privilegiato, grazie anche alla leggiadria e alla bravura della attrice.
Ther Woman Who Ran, come detto, si articola su tre quadri, quasi tutti in interni, nei quali i dialoghi, ancora più che negli altri lavori, sono il verso centro del film; gli argomenti e le tematiche affrontati sono quasi sempre appena accennati, quasi delle traccia lasciate lì artatamente in attesa che qualcuno decida di seguirle, perchè in effetti il minimalismo narrativo raggiunge in questa opera una essenzialità cinematografica semi assoluta sia come racconto che come tecnica di regia con una gamma di interpretazioni da sviluppare osservando piccoli segni , sguardi, mezze parole , silenzi che conducono assai spesso al dubbio che vuole diventare sottointeso.
Se la protagonista è al tempo stesso l'occhio del regista ma anche il suo oggetto di analisi, le altre amiche sono donne dalle quali emerge un qualche male di vivere , una qualche difficoltà a relazionarsi, anche se stavolta le immancabili bevute con conseguenti scene madre da osteria di borgata non ci sono e sono appena accennate come racconto.
Ma a ben guardare l'interesse di Hong si posa essenzialmente sulla protagonista, cioè sull'unico elemento che tiene insieme il racconto: è realmente una donna realizzata e felice come sembra e come non si stanca mai di affermare? e questo breve viaggio nel passato , alla ricerca delle vecchie amiche, cosa significa veramente , o forse più esattamente , cosa sottintende? E' forse lei la donna che fugge del titolo? 

martedì 15 dicembre 2020

Dwelling in the Fuchun Mountains / 春江水暖 ( Gu Xiaogang / 顾晓刚 , 2019 )

 




Dwelling in the Fuchun Mountains (2019) on IMDb
Giudizio: 8/10

Ambiziosa opera prima del poco più che trentenne regista cinese Gu Xiaogang, già dal titolo dimostra in maniera palese il suo riferimento e legame con la tradizione: Dwelling in the Fuchun Mountains è infatti una delle pochissime opere rimaste del pittore del XIV secolo Huang Gongwang appartenente a quella corrente pittorica che faceva del paesaggio rappresentato in una lunga striscia di immagini il centro del suo interesse; ed in effetti Gu cala il suo racconto, che si dipana lungo due anni, scanditi dallo scorrere delle stagioni, in un ambiente classico, pittoricamente efficace, tra fiumi che scorrono placidi, montagne, pescatori e storie famigliari.
Il racconto infatti riguarda una famiglia vecchio stampo, di quelle numerose, formatisi e accresciutesi nell'epoca in cui la legge sul figlio unico ancora non era stata introdotta nel paese: attraverso i 48 mesi vediamo le dinamiche famigliari che ruotano intorno alla vecchia matriarca, i conflitti tra fratelli, il difficile rimanere a galla di fronte alle difficoltà economiche, ma anche i problemi dei giovani, la tradizione che fa a pugni con la modernità di vedute di cui sono impregnate le nuove generazioni.



Tutto il racconto però è perfettamente , e direi egregiamente, inserito in un contesto paesaggistico che rende omaggio a quello appunto stilizzato nell'opera pittorica che dà il titolo al film stesso: siamo a Fuyang che non è solo la città natale del regista, ma anche lo scenario dipinto nel quadro, oltre ad essere la patria di Yu Dafu importante poeta di inizio XX secolo che quei luoghi ha celebrato nelle sue opere; un contesto insomma che sprizza poesia e arte in ogni suo angolo ma che con la galoppante e impetuosa crescita del paese sta per essere inglobato nella espansione vorticosa di Hangzhou una delle più dinamiche , anche culturalmente , tra le nuove metropoli cinesi.
Ed ecco quindi che Gu, pur con le sue carrellate a piano sequenza  che cercano di riprodurre quasi tangibilmente il senso di srotolamento della storia e dei personaggi enfatizzando la bellezza dei luoghi, la tradizione poetica che racchiudono e la vita di tutti i giorni scandita dalle tradizioni millenarie, ci mostra il rischio di contaminazione inarrestabile che comporta l'inglobamento della provincia nella espansione della realtà urbana: case abbattute, operai al lavoro per rimuovere i detriti, piccoli segni del tempo passato ritrovati tra le macerie, siano essi lettere o piccoli oggetti; la poetica dell'elegia della montagna e del fiume che scorre lasciano il passo alla poetica terribile e violenta delle ruspe, della modernità che cerca di seppellire il peso ingombrante del passato e delle tradizioni in un paese in cui l'importanza del passato e delle millenarie usanza ha sempre avuto una valenza difficilmente riscontrabile altrove.

domenica 13 dicembre 2020

Moving On ( Yoon Danbi , 2019 )

 




Moving On (2019) on IMDb
Giudizio: 8/10

Dopo un folgorante esordio internazionale al Festival di Busan che è valso svariati riconoscimenti, bissati alla rassegna di Rotterdam e in altre di minor prestigio, l'opera prima della giovane regista coreana Yoon Danbi arriva anche in Italia attraverso gli schermi virtuali del Festival di Torino dove riceve il premio Fipresci a conferma del successo di critica ottenuto lungo tutto il 2020, anno che ha confermato una volta in più il grande valore artistico e la fulgida vitalità del cinema indipendente coreano che ha regalato in questi due anni lavori di gran pregio che arricchiscono una cinematografia, quella coreana appunto, nota soprattutto per la qualità dei suoi blockbuster d'azione o comunque delle grandi produzioni.
La giovane regista dimostra di conoscere molto bene il cinema di quelli che sono probabilmente  due tra i cantori delle storie famigliari più importanti del cinema asiatico: Moving On infatti mostra chiari, non sappiamo quanto voluti, ma innegabili , riferimenti ad Ozu e a Koreeda nel mettere al centro del racconto una vicenda famigliare osservata attraverso la prospettiva di una adolescente, Okju e del suo fratellino più giovane, Dongju ,ancora nel pieno della fanciullezza.



I due ragazzi si trasferiscono infatti col padre divorziato presso la grande casa dell'anziano nonno nella provincia coreana, per far fronte alle difficoltà economiche e risparmiare quindi i soldi per l'affitto; il nonno, un po' rimbambito, silenzioso e di salute malferma ha bisogno di assistenza e quindi poco dopo la sorella del padre li raggiunge nella grande casa.
Mentre per il piccolo Dongju questo cambiamento è vissuto quasi come una vacanza, Okju soffre dei normali sbalzi d'umore tipici della sua età accentuati da una situazione di insicurezza, nonostante i consigli che la zia, anch'essa prossima al divorzio, le propina con molto affetto.
Il vecchio nonno ha ormai preso la china discendente e i figli decidono di portarlo in una casa di riposo e vendere la casa, cercando così di sistemare le loro misere esistenze; sembra che solo i giovanissimi riescano a vedere oltre la miseria della vita dei loro genitori e capire l'importanza della perdita del nonno.
Tutto il film di Yoon ruota intorno al disfacimento della famiglia: è in rovina quella dei due giovani protagonisti, con un padre fallito che per campare spaccia scarpe taroccate e una madre che non si è mai fatta problemi a perseverare nella sua assenza, sta andando a rotoli quella della zia, che per lo meno non ha figli e quindi si sente in qualche modo consolata e meno oppressa, è in disfacimento , mutatis mutandi, la famiglia coreana, intesa nella sua forma istituzionale, come il centro e il cuore della società che si sta modificando troppo in fretta e che lascia alle spalle le sue tradizioni e il suo passato.
Il ritratto che ne fa la giovane regista è crudo nel suo realismo, ma al tempo stesso delicato, avendo scelto probabilmente proprio per questo di utilizzare lo sguardo dei due giovani ragazzi ; per tale motivo la realtà della famiglia coreana in decadenza risulta ancora più cruda e dolorosa, perchè quello che emerge non sono solo le ristrettezze economiche e la difficoltà a rapportarsi  all'interno della comunità famigliare, ma anche una certa meschinità  se non addirittura un egoismo bieco che travalica il rispetto reciproco.

sabato 12 dicembre 2020

Camp de maci [aka Poppy Field] ( Eugen Jebeleanu , 2020 )

 




Poppy Field (2020) on IMDb
Giudizio: 5.5

E' dura la vita per gli omosessuali nella Romania che si avvicina a piccoli passi all'integrazione europea a ormai 30 anni dalla caduta del regima comunista e al successivo avvicinamento all'Europa Occidentale: in Poppy Field ( Camp de maci il titolo originale), opera prima del regista rumeno Eugen Jebeleanu, Cristi è un poliziotto gay fidanzato con un giovane francese e che vive la sua condizione di omosessualità in maniera piuttosto tormentata causando anche delle incomprensioni col suo compagno, chiaramente dalle vedute più ampie. 
La sua condizione che crea evidente disagio nell'uomo trova una improvviso aggravamento, quasi un break point quando Cristi insieme ad altri colleghi è inviato a sedare un confronto animato in un cinema dove viene proiettato un film a tematica lesbo tra attivisti gay e un manipolo di oltranzisti religiosi  pronti a lanciare anatemi sugli omosessuali e su chi si avvicina a loro anche solo per vedere un film.
La serata , con il confronto di idee inevitabilmente pesante per il protagonista, diventa una analisi della propria condizione , del carico di paure , di sensi di colpa e di tormento che si agitano dentro di lui e soprattutto dal timore che il suo essere gay venga alla luce, in un ambiente in cui il machismo domina.



L'opera prima del regista rumeno soffre di una pesante problematica di fondo :  la pretenziosità con la quale il tema viene trattato, quasi un tentativo di alleggerire il peso che la condizione di omosessualità comporta in una società evidentemente ancora impregnata di omofobia e di grettezza; questo contrasta con una messa in scena che invece ha i suoi pregi soprattutto dal punto di vista tecnico grazie ai lunghi piani sequenza e alla capacità di sfruttare gli spazi che dimostra la provenienza dal teatro del regista.
Il risultato che Poppy Field ci mostra è però un film nel complesso troppo verboso che  spesso affoga l'analisi sociologica e i tormenti che derivano dalla fragile condizione del protagonista in disquisizioni infinite e prive di sostanza.
La dicotomia che sfocia quasi nella schizofrenia in cui vive il protagonista che si basa sul suo essere gay calato in una società e in un ambiente lavorativo tutt'altro che tolleranti doveva essere trattata con maggiore attenzione essendo di fatto la vera tematica centrale del film oltre che quella più ricca di spunti narrativi.
Condividi