giovedì 30 giugno 2022
The Novelist's Film ( Hong Sangsoo , 2022 )
martedì 28 giugno 2022
Last of the Wolves ( Shiraishi Kazuya , 2021 )
Tre anni dopo The Blood of Wolves, Shiraishi Kazuya, uno dei registi più interessanti degli ultimi anni proveniente dal Giappone, dirige il sequel, attesissimo anche in Italia e presentato al FEFF del 2021; le entusiastiche reazioni che avevano accompagnato The Blood of Wolves hanno creato un clima d’attesa quasi spasmodico intorno a Last of the Wolves, anche perché il regista non è venuto meno alla formula narrativa che tanto successo aveva portato al lavoro precedente.
Last of the Wolves, come il primo episodio del dittico, infatti si sviluppa su canoni da yakuza movie ultraclassico, nel quale abbondano le efferatezze, e che ricrea il clima dei tardi anni 80-primi anni 90 in cui è ambientato , poco prima della promulgazione della legge contro il crimine organizzato che nel 1992 segnò una svolta nel paese e nella storia delle organizzazioni criminali.
Il film di Shiraishi riparte da dove era finito il primo: dopo la morte del detective Ogami e il colpo decisivo inferto al capo della gang Jinsei-kai grazie al ruolo avuto dal poliziotto Hioka, erede dell’azione di controllo propugnata dal collega ucciso, per tre anni la guerra tra le varie organizzazioni con base ad Hiroshima e dintorni ha subito una lunga tregua, anche grazie ai metodi di Hioka che nell’ombra manovrava le varie bande per assicurare una pace e scongiurare guerre sanguinose.
Quando però viene rilasciato Uebayashi, delfino dichiarato del boss ucciso tre anni prima e ben deciso a prendere in mano le sorti dell’organizzazione dell’ex boss, la guerra torna ad esplodere in maniera fragorosa, più truculenta e sanguinaria che mai e che vedrà inevitabilmente coinvolto anche Hioka, colpevole di essere stato colui che causò la morte del vecchio boss.
Il personaggio di Uebayashi è un po’ la miccia che accende il film con una deflagrazione inaudita: psicopatico , folle, ben deciso a rimanere fedele al codice della vecchia yakuza fatto di violenza sangue e mutilazioni varie, fiero avversario della nuova yakuza dai colletti bianchi da brooker e uomini di finanza: un personaggio al limite, talmente sopra le righe, e non solo per i raccapriccianti outfit che presenta, da apparire subito una emanazione di un fumetto, un po’ come certi eroi tarantiniani.
Naturalmente dietro a questa follia dilagante si nasconde un’infanzia mutilata, umiliata e offesa per uscire dalla quale il piccolo Uebayashi si rende protagonista del suo esordio efferato nel mondo della violenza colorato da infinite scie di sangue.
Un background psicologico che il regista tende ad accennare in svariati personaggi, quasi che l’aver subito soprusi e violenze possa essere l’anticamera obbligata dell’entrata nel mondo del crimine.
Il film mantiene sempre un ritmo sostenuto, non stancano le quasi due ore e venti minuti, si rivolge a stereotipi ben consolidati ma che non sanno mai di già visto, si affida a un paio di colpi di scena che servono a creare una prospettiva diversa alla storia; ma fondamentalmente Last of the Wolves è un film che esplicita in tutta la sua potenza l’immagine di un mondo del crimine privo di ogni controllo che portò il governo nel 1992 ad introdurre una legge durissima per combattere le organizzazioni criminali che infestavano ormai persino le strade delle città giapponesi.
martedì 14 giugno 2022
America Latina ( Damiano D'Innocenzo , Fabio D'Innocenzo , 2021 )
Già nelle loro opere precedenti, La terra dell’abbastanza e Favolacce, i fratelli D’Innocenzo, gemelli romani trentaquattrenni, avevano ampiamente dimostrato l’indubbio talento soprattutto visivo che si connota in uno stile personale spesso ai confini con la fiaba; l’ultimo lavoro , presentato in concorso a Venezia, conferma una volta in più quanto a fiumi, e spesso in maniera anche scriteriata, è stato scritto sul loro cinema: America Latina, che nel suo essere un "grande imbroglio" dal punto di vista narrativo più profondo si presenta già dal titolo fuorviante, è lavoro complesso, molto personale sia nella cifra stilistica sia nel suo nocciolo di scrittura, ci restituisce l’immagine di due cineasti che mettono la ricerca stilistica e le ambientazioni al vertice del loro percorso cinematografico.
America Latina è anche opera difficile da raccontare senza cadere in spoiler o in semplici interpretazioni fallaci, motivo per il quale sposerò la causa della sinossi minimalista, che se non altro mette al riparo dall’anticipazione selvaggia per ogni valutazione o riflessione fatta in fase di commento.
Massimo è un affermato dentista, ha una bella famiglia di sole donne, una moglie e due figlie, una villa “bella” nel mezzo della campagna; una esistenza insomma di quelle invidiabili, da autentico professionista di successo, che si concede solo ogni tanto una bevuta con l’amico del cuore Simone, una innocente evasione tra amici di vecchia data.
Può bastare una lampadina che si fulmina a rivoltare la vita di una persona in maniera sconvolgente? Quando Massimo scende in cantina per recuperare una lampadina il suo sguardo si apre su un abisso senza fondo che renderà la sua vita un qualcosa che sta a metà tra l’incubo e l’inferno.
Ed ecco allora che il grande inganno narrativo di cui si parlava prima prende piede: dopo dieci minuti abbiamo in mano tutto e come ogni buon thriller psicologico quale America Lattina è si tratta solo di mettere le tessere al posto giusto, ma quello che succede è meglio tacerlo.
La discesa di Massimo agli inferi della sua mente è qualcosa di tangibile o è solo frutto della sua psiche distorta? Come si concilia l’America , cioè l’affermazione di se stessi, la vita agiata consona al livello sociale , la famiglia e tutti i valori che fanno delle società liberistiche i suoi capisaldi, con Latina, la città nella cui periferia si erge l’inquietante villa di Massimo e famiglia, tra residuati industriali, terre che un tempo erano paludi e scheletri edilizi in rovina?
A ben guardare tutto il film è un oscillare tra l’America e Latina , tra realtà e immaginazione, tra farsa e disperazione, tra una mente che perde gradualmente ogni contatto con il mondo reale ed insegue il suo mondo fatto di tenebre e di orrore che ben si concretizza in quello scantinato ridotto a discarica e poi trasformato in una putrida piscina.
Il processo mentale e psichico che il protagonista imbastisce è una guerra logorante tra ciò che gli si presenta agli occhi e ciò che non sa e che teme di sapere, tra i buchi della sua memoria ricolmi di psicofarmaci e alcool e un presente che nasconde una fragilità devastante.
venerdì 10 giugno 2022
L'Angelo dei muri ( Lorenzo Bianchini , 2021 )
Dopo cinque opere in vent’anni, quasi tutte rimaste all’interno dello stretto circolo di cinofili amanti del genere , finalmente Lorenzo Bianchini, regista , o meglio artigiano del cinema , friulano , trova il giusto e illuminato appoggio non solo di Rai Cinema e di MyMovies ma anche della Tucker Film , distributrice e produttrice del film, per finalmente presentare un lavoro che esce dai limiti del low cost e che consente al pubblico, anche quello non di nicchia, di poter apprezzare le doti del regista; l’Angelo dei muri infatti vedrà la luce nelle sale il prossimo 9 giugno, dopo essere stato presentato al Torino FilmFest dell’inverno scorso.
Lorenzo Bianchini nelle sue opere precedenti ha sempre attinto a piene mani a quell’horror del folklore che trova le sue radici nei racconti popolari, nelle leggende nere, nelle superstizioni della tradizione confezionando lavori di notevole fattura; con la sua ultima opera , in una sorta di processo naturale di tipo narrativo, il regista friulano si affida prevalentemente al genere del thriller psicologico nel quale si respira anche qualche influsso del ghost movie.
Un magnifico piano sequenza iniziale ci porta subito nel centro del racconto: la casa che Pietro deve abbandonare perché sfrattato ci mostra tutta la sua vetustà, la polvere posata su pavimenti e suppellettili, i letti , le finestre che si agitano sotto i colpi della bora; un sinuoso procedere della macchina da presa che sembra piuttosto entrare nelle viscere della casa piuttosto che percorrerne i corridoi e sbirciare nelle stanze.
Il vecchio Pietro, barba bianca e vecchiaia che incombe col suo peso nelle sigarette e negli sguardi carichi di rassegnata melanconia, non vuole abbandonare la casa che è stata sua per tanti anni e verso la quale prova un legame profondo, per cui nel momento di andarsene si costruisce in fondo ad un corridoio un bugigattolo, alzando un muro e posizionando una grata che funge da sportello, ritrovandosi cos’ autorecluso in quella che è stata la sua casa per anni e che presto diventerà di qualcun altro, mentre lui assiste al via vai di operai e possibili compratori.
Il piccolo mondo di Pietro nel quale si è chiuso pur di mantenere un contatto con quella casa, diventa in un certo momento il suo tramite con una misteriosa ragazzina cieca che abita la casa con la giovane mamma; la ragazzina sa che Pietro esiste lo chiama il suo angelo ed il vecchio solo in quei momenti di fugace contatto con la piccola mostra una quasi ritrovata vitalità.
Chi sono quelle due figure che occupano la casa e che si muovono nelle stanze? Perché Pietro guarda con tenerezza quella ragazzina sfortunata?
Ovviamente non lo diremo, ma non c’è dubbio che abbastanza presto nel racconto si intuiscono le line di confine del plot: ed è qui che la bravura di Bianchini come scrittore e regista segna il primo successo; sebbene appaia ben presto abbastanza chiaro cosa ci sia dietro alla storia, il regista ci conduce lungo le vie del racconto in maniera tale da costruire una sottile crescente tensione che trova soltanto nella forza narrativa la sua efficacia.
Bianchini insomma dimostra di sapere tenere lo spettatore in bilico sulla sedia rifuggendo tutte le classiche situazioni del genere, anche perché l’Angelo dei muri sa ben miscelare atmosfere da dramma e da thriller, riesce ad essere poetico in alcuni passaggi, scava nel recessi profondi della coscienza, indaga sul perdono e sulla colpa.