sabato 28 giugno 2025

B for Busy / 爱情神话 ( Shao Yihui / 邵艺辉 , 2021 )

 




B for Busy (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10


Con il suo film d’esordio B for Busy , la regista cinese Shao Yihui firma una delle opere prime più originali del cinema contemporaneo cinese recente, una commedia delicata e stratificata che si muove con grazia tra l'ironia, il realismo urbano e una sottile malinconia di fondo. Ambientato nella vivace ma anche logorante Shanghai di oggi, il film offre un’istantanea della vita adulta nelle grandi metropoli cinesi, mescolando osservazione sociale, riferimenti cinematografici raffinati e una narrazione corale dai toni agrodolci.
La storia si sviluppa attorno a Lao Bai, un insegnante di pittura di mezza età divorziato, interpretato con sensibilità da Xu Zheng (noto soprattutto per i suoi esilaranti ruoli brillanti e anche produttore del film), e a un gruppo di donne che gravitano intorno alla sua esistenza: la parrucchiera Miss Li (Ma Yili), l'artista Miss Zhao (Wu Yue) e la madre single Gloria (Ni Hongjie). 
Ognuno di loro porta con sé ferite invisibili, sogni rimandati e una voglia di rimettersi in gioco che si intreccia continuamente con la paura di rimanere delusi.I protagonisti sono adulti in preda ad un disincanto sentimentale che deriva da esperienze personali fatte di amori falliti, divorzi, compromessi dolorosi. Non ci sono illusioni giovanili, ma nemmeno cinismo assoluto. L’amore viene mostrato come qualcosa di fragile, a volte buffo, sempre necessario.
Attraverso piccoli dettagli — i commenti delle madri, i giudizi velati dei conoscenti — il film racconta la pressione esercitata dalle aspettative familiari e sociali, in particolare su donne che hanno superato la "giusta età" per sposarsi secondo i canoni tradizionali cinesi, un intrecciarsi di modernità e di tradizione spesso in conflitto che dipinge una società ormai giunta al capolinea finale della sua spettacolare trasformazione vissuta negli ultimi venti anni che avvolge anche Shanghai, una città che col suo cosmopolitismo storico diventa un po' un personaggio del film , quel futuro raggiunto da chi ha saputo salire sul treno della modernizzazione, ma al tempo stesso quella città dove ancora pulsa un cuore fatto di tradizione, ben rappresentato dalla regista con il ricorso pressochè totale al dialetto di Shanghai nei dialoghi del film.



La regista inoltre dimostra grande conoscenza del cinema anche europeo, affidandosi spesso ad atmosfere da novelle vague francese, racconti rohmeriani oppure ad atmosfere vagamente alla Wong Karwai; lo stesso fatto di dipingere Shanghai con la grazia di un pittore ma con la forza di uno scrittore rimanda alla mente agli storici binomi regista-città che hanno fatto la storia del cinema (Woody Allen e New York su tutti); queste influenze sono sempre metabolizzate e rielaborate in maniera personale da Shao Yihui, che costruisce uno stile proprio, fatto di delicatezza e ironia, di osservazione empatica e ritmo narrativo misurato.
Il film non racconta una grande avventura sentimentale, né cerca il dramma: B for Busy preferisce dipingere piccole scene quotidiane, incontri e dialoghi intimi che lentamente delineano il bisogno umano di compagnia, riconoscimento e amore in una società che, pur essendo iper-connessa, genera una profonda solitudine.
La Shanghai di Shao Yihui non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio: una città cosmopolita, stratificata, moderna ma anche nostalgica, dove i caffè bohémien convivono con i vicoli tradizionali e dove il passato e il presente si scontrano continuamente.
Formalmente, B for Busy si presenta come una commedia sofisticata, ma dietro l’umorismo sottile si cela una dolce tristezza che accompagna i personaggi. I dialoghi sono brillanti, serrati ma mai teatrali, costruiti con attenzione quasi letteraria, capaci di far emergere, attraverso battute e silenzi, l'interiorità dei protagonisti.

sabato 7 giugno 2025

The Last Dance / 破·地獄 ( Anselm Chan / 陳茂賢 , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10


Con The Last Dance, il regista e sceneggiatore Anselm Chan (al suo secondo lungometraggio dietro la macchina da presa) compone una raffinata partitura che intreccia il lutto e il riso, la tradizione rituale e la modernità urbana, la morte e – inevitabilmente – la vita. Un film profondamente radicato nel tessuto sociale e spirituale di Hong Kong, capace di raccontare un tema universale come il distacco dai propri cari attraverso uno sguardo fortemente localizzato e allo stesso tempo accessibile a un pubblico globale, elevandosi inoltre a metafora dello status dell'ex colonia britannica ancora in forte crisi di identità dopo il ritorno alla Cina mainlander
Dominic (interpretato con misura e humour dall'eccellente Dayo Wong, conosciuto soprattutto per i suoi ruoli brillanti) è un wedding planner sulla via del fallimento. Dopo la pandemia, il mercato dei matrimoni è in crisi, e lui si ritrova per necessità ( e in un certo senso anche per fortuna) a gestire un’agenzia funebre cedutagli da uno zio della fidanzata , prossimo alla pensione. È un uomo pragmatico, moderno, sdrucito nei sogni, esattamente l'opposto  del suo nuovo partner,  Master Ben Man ( interpretato dalla leggenda del cinema brillante dell'epoca d'oro di Hong Kong Michael Hui), un sacerdote taoista, socio del precedente proprietario dell'agenzia funebre, che incarna l’antico sapere, il rigore del rituale, la sacralità dell’aldilà. Tra i due si instaura una tensione che è prima di tutto culturale e simbolica: tradizione contro innovazione, passato contro presente, spiritualità contro economia.
Ma Chan non indugia nella contrapposizione dicotomica di facile presa; il film si costruisce proprio sulla lenta contaminazione tra questi due mondi: da un lato Dominic che pensa che tutto sommato gestire un funerale non è poi tanto diverso da organizzare un matrimonio ( con le inevitabili situazioni grottesche che questa convinzione produrrà) , dall'altro Man che vive il suo ruolo nella rigorosa osservanza dei principi taoisti immutabili da secoli.   Non c’è vittoria di uno sull’altro, ma una crescita reciproca. È qui che The Last Dance trova il suo tono originale: non una commedia slapstick, non un dramma metafisico, ma un ibrido curioso, capace di attraversare i registri con intelligenza e sensibilità.



Il titolo originale del film –  letteralmente "Rompere l'inferno" – richiama direttamente uno dei riti più affascinanti e complessi della tradizione funebre taoista: il Po Dei Juk , un rituale in cui il sacerdote, armato di una spada cerimoniale al culmine di una danza sfrenata rompe simbolicamente le barriere infernali per liberare le anime erranti dei defunti. È un rituale profondamente teatrale, fatto di maschere, danze, fuoco e musica, e proprio in questo carattere spettacolare Chan trova un parallelo con l’arte scenica del cinema e con la vita stessa.
Il regista filma questi momenti con rispetto antropologico ma anche con consapevolezza estetica: i riti non sono solo testimonianze etnografiche, ma diventano azioni drammatiche che coinvolgono i personaggi e lo spettatore. Non sono semplici “usanze locali”, ma vere e proprie narrazioni incarnate, capaci di dare senso e dignità alla morte, e soprattutto di creare una comunione  tra vivi e morti.
Uno dei meriti maggiori del film è la sua capacità di interrogarsi sul ruolo della morte nella società contemporanea, e in particolare nella Hong Kong post-coloniale e post-pandemica. In una città sempre più globalizzata, dove l'efficienza ha soppiantato la riflessione e il culto degli antenati rischia di ridursi a formalità, The Last Dance rivendica la centralità del lutto come pratica viva.
Attraverso il contrasto tra Dominic e Master Ben, Chan ci chiede: come onorare i morti oggi? Come trasmettere un sapere antico ai giovani che ne hanno perso il linguaggio? La risposta non è nostalgica, ma attiva: il film suggerisce che il rito non deve essere abbandonato, ma reinventato, non nel senso di “semplificarlo” o “adattarlo al mercato”, ma nel trovare nuove vie per mantenerne viva la potenza simbolica.
La linea narrativa che coinvolge Yuet (Michelle Wai, pluripremiata per questo ruolo), la figlia di Master Ben, introduce un ulteriore livello tematico. Infermiera che opera sulle ambulanze di soccorso, razionale e concreta, Yuet è cresciuta tra canti rituali e offerte di carta, ma ha scelto di vivere lontana da tutto questo, anche perchè i rigidi principi taoisti vietano alle donne , esseri impuri, di poter presenziare i9n prima persona nel ruolo di sacerdotessa.  La sua distanza dal padre è anche una metafora della rottura generazionale oltre che parabola sulla contrapposizione di genere; tuttavia, il riavvicinamento dei due – mediato proprio da Dominic, outsider profano – mostra come il trauma e la cura possano convivere.
Il tema della trasmissione intergenerazionale diventa così uno dei cardini del film: non si tratta solo di passare un’eredità materiale, ma una grammatica del dolore e della consolazione. La danza finale (che dà il titolo al film) non è solo un numero coreografico, ma un atto di riconciliazione, un gesto fisico di continuità.

giovedì 24 aprile 2025

Sons ( Gustav Möller , 2024 )

 




Sons (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Con Sons, Gustav Möller, regista svedese di nascita ma danese cinematograficamente, compie un passo rischioso e necessario: si allontana dal thriller claustrofobico e sperimentale di The Guilty, la sua interessante opera prima, per abbracciare una narrazione più classica, fisica, che si nutre del corpo e dello spazio tanto quanto della tensione interiore. 
Ambientato quasi interamente tra le mura di un carcere  danese, il film racconta una storia apparentemente semplice: Eva, agente penitenziaria integerrima e rispettata, si trova a dover gestire il nuovo arrivato, Mikkel, giovane detenuto con un passato di violenza e sofferenza. Che l'agente abbia qualcosa a che fare col detenuto lo si capisce subito da quando osserva dalla finestra il suo arrivo al carcere e poi chiede di essere trasferita nella sezione per delinquenti incalliti e considerati irrecuperabili dove appunto è indirizzato il nuovo arrivato.
Tra i due si instaura da subito un rapporto ambiguo tra carnefice e vittima carico di tensione in cui i ruoli tendono a ribaltarsi  , un rapporto che progressivamente porta a galla colpe rimosse, ferite non rimarginate, bisogni di vendetta mascherati da aneliti di redenzione.
Möller costruisce il suo film come un duello silenzioso, dove ogni scambio, ogni gesto di vicinanza o di sfida, ogni sguardo trattenuto diventa un movimento nel gioco complesso del dominio psicologico. 
Non c'è mai, in Sons, una netta distinzione tra vittima e carnefice: Eva e Mikkel si osservano, si manipolano, si feriscono, in un ribaltamento continuo dei ruoli che smantella qualsiasi certezza morale. E proprio su questo crinale ambiguo si gioca la potenza del film: Möller non offre punti di vista privilegiati, non chiede allo spettatore di schierarsi, ma lo trascina in una zona grigia dove redenzione e vendetta si intrecciano fino a diventare indistinguibili.
La prima parte del film è un esempio magistrale di costruzione della tensione. Senza ricorrere a colpi di scena o a facili espedienti, Möller lavora sulla compressione degli spazi, sulla ripetitività dei gesti quotidiani, sulla sottile violenza che si insinua nei silenzi. Il carcere non è solo il luogo fisico della reclusione, ma diventa il simbolo della prigionia emotiva che lega i due protagonisti: Eva è intrappolata nel suo bisogno di espiazione attraverso la vendetta, Mikkel nella sua furia impotente contro un mondo che lo ha tradito molto prima del suo ingresso in carcere. Entrambi cercano nell'altro una forma di liberazione che non potrà mai arrivare.


La redenzione in Sons è una chimera: Eva tenta disperatamente di redimere Mikkel non tanto per salvarlo, quanto per liberare sé stessa dal peso della propria colpa. Ma ogni tentativo di salvezza si rivela un atto egoistico, un gesto di appropriazione che non rispetta l'altro come essere autonomo. 
Allo stesso modo, la vendetta di Mikkel, più sottile e psicologica che fisica, è una risposta al tradimento del mondo adulto, un tentativo di riaffermare una dignità negata, anche a costo di distruggere chi tenta di aiutarlo.
In questa dinamica implacabile, Möller si dimostra spietato e rigoroso: non concede sconti emotivi, non offre facili redenzioni né redenzioni spettacolari. I personaggi si muovono in un limbo morale dove ogni scelta sembra condannata al fallimento. Il film evita il melodramma ma ne conserva l'intensità emotiva, dosando con sapienza momenti di apparente stasi a esplosioni improvvise di violenza contenuta.
Dal punto di vista formale, Sons conferma la maturità di Möller: la regia è asciutta, precisa, capace di trasformare i corridoi anonimi del carcere in spazi carichi di minaccia latente. La macchina da presa segue i personaggi con discrezione, senza virtuosismi inutili, ma anche senza mai perdere di tensione. L'uso degli spazi chiusi, la fotografia fredda e priva di concessioni estetiche, la scelta di evitare musiche invasive, tutto contribuisce a creare un'atmosfera claustrofobica, tornando quindi per altre vie a quelle atnmosfere che dominavano The Guilty, che rende palpabile il conflitto interno dei protagonisti.
Fondamentale è il lavoro degli attori: Sidse Babett Knudsen offre un'interpretazione intensa e controllata, restituendo con grande finezza la complessità di Eva, il suo oscillare tra forza apparente e fragilità profonda. 

Bird ( Andrea Arnold , 2024 )

 




Bird (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10

Andrea Arnold è da anni una delle voci più sensibili e coerenti del panorama cinematografico internazionale. Fin dai tempi di Red Road (2006) e Fish Tank (2009), la regista britannica ha raccontato con sguardo sincero la vita ai margini, scegliendo sempre storie di giovani donne in lotta con un contesto sociale difficile. Il suo cinema, caratterizzato da uno stile visivo ruvido e partecipato, si è sempre mosso tra il realismo più crudo e improvvisi slanci di lirismo.
Con Bird, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2024, Andrea Arnold torna a raccontare il mondo degli ultimi, ma questa volta lo fa spingendosi ancora più in là nella ricerca di una forma narrativa libera, quasi istintiva, capace di fondere realismo sociale, favola urbana e racconto di formazione. 
Il risultato è un film che mantiene la durezza del reale pur aprendosi a spazi di immaginazione e di meraviglia, costruendo una storia che ha la leggerezza di un sogno ma il peso specifico delle esistenze ferite.
Al centro del film c’è Bailey, una dodicenne cresciuta in un ambiente familiare instabile: il padre, Bug, è un eterno adolescente incapace di prendersi responsabilità, più amico che genitore, mentre la madre è assente, persa in un’altra deriva pseudosentimentale tossica con a carico altre tre figli piccoli avuti da qualcun’altro e verso cui Bailey ha però un sincero affetto e amore quasi da surrogato materno. 
Quando Bug si prepara a risposarsi con una nuova compagna molto più giovane di lui, Bailey si sente tradita e smarrita. È in questo momento di crisi che la ragazza incontra Bird, una figura misteriosa, al tempo stesso reale e simbolica: un ragazzo-uccello, forse uno spirito libero, forse una creatura della sua immaginazione, sicuramente un essere bastonato anch’esso dalla vita sin dalla sua infanzia.
Attraverso l'incontro con Bird, Bailey intraprende un percorso di crescita fatto di scoperte, abbandoni, piccole rivolte e riconciliazioni interiori. Arnold costruisce la narrazione evitando la linearità tradizionale: la storia si sviluppa per accumulo di sensazioni, di piccoli eventi quotidiani, di dialoghi frammentati e immagini che evocano più di quanto raccontino esplicitamente.



Bird si iscrive nella lunga tradizione del realismo britannico, ma Andrea Arnold se ne distacca con decisione, rifiutando ogni didascalismo o giudizio: se si sente forte l’influsso di Ken Loach dal punto di vista delle atmosfere e delle ambientazioni, per certi versi però Bird richiama più alcuni tratti del cinema di Sean Baker e della sua impronta poetica.
Il contesto sociale in cui vive Bailey è quello di una working class disgregata, intrappolata in una periferia degradata e priva di futuro: case popolari fatiscenti, lavori precari, rapporti familiari sfilacciati. Tuttavia, il film non insiste sul degrado in modo compiaciuto o accusatorio. La regista mostra la povertà materiale e affettiva senza trasformarla in spettacolo, mantenendo sempre una profonda compassione per i suoi personaggi.
In questo senso, il tema della "famiglia" è centrale. Ma è una famiglia fragile, disfunzionale, in continua ridefinizione: non più un'istituzione rigida, bensì una rete instabile di relazioni, affetti spezzati e ricostruiti, errori ripetuti. Bug, interpretato con struggente verità da Barry Keoghan, incarna perfettamente questa ambiguità: è affettuoso ( a modo suo) ma irresponsabile, tenero ( sempre a modo suo) ma incapace di proteggere chi ama.
Il film si muove su un crinale sottile tra il dramma realistico e la favola contemporanea. Bird è il personaggio che introduce questa dimensione sospesa: figura eterea e sfuggente, a metà tra un ragazzo vagabondo e un'entità magica, egli incarna il desiderio di fuga e di leggerezza che Bailey prova ma non riesce a esprimere a parole. La regista non chiarisce mai del tutto la natura di Bird: è un vero outsider? Un angelo custode? Una proiezione della mente della ragazza? Un altro prodotto di una società spietata? Questa ambiguità è una delle forze del film: Arnold non cerca risposte definitive, ma suggerisce possibilità, aprendosi a un immaginario che richiama la letteratura fiabesca senza perdere il contatto con il terreno accidentato della realtà.
Il volo, la libertà, la trasformazione sono simboli ricorrenti. L'uccello — da sempre figura mitologica di passaggio, di cambiamento — diventa emblema del percorso interiore di Bailey, del suo bisogno di trovare uno spazio proprio nel mondo, di staccarsi da una condizione che sembra predeterminata.
Bird è anche e soprattutto un racconto di formazione in cui però, per fortuna, manca tutto quel corredo stilistico e di situazioni piuttosto dozzinali che si riscontra di sovente;  Bailey si muove attraverso un territorio emotivo accidentato: il senso di abbandono, il desiderio di essere vista e amata, la scoperta della propria forza. Arnold riesce a raccontare questa crescita senza didascalismi o tappe forzate, non c’è un evento traumatico risolutivo, ma una lenta, faticosa, bellissima presa di coscienza, costruita con la sua forza interiore e con il suo sguardo da adolescente matura.

lunedì 21 aprile 2025

The Shrouds [aka The Shrouds-Segreti Sepolti] ( David Cronenberg , 2024 )

 




The Shrouds (2024) on IMDb
Giudizio: 6.5/10

The Shrouds (sottotitolo italiano: Segreti sepolti) è l’ultima fatica del regista David Cronenberg, presentata in concorso al Festival di Cannes 2024. Un’opera profondamente personale, inquieta, stratificata, che sembra sintetizzare molti dei temi cardine della sua filmografia — il corpo, la tecnologia, la perdita di identità — attraverso una narrazione intima e algida, carica di dolore esistenziale e riflessione filosofica. 
È anche il suo film più esplicitamente autobiografico, nato come una elaborazione del lutto per la morte della moglie Carolyn Zeifman, avvenuta  nel 2017. The Shrouds è quindi un’opera sulla morte, ma anche della speculazione sul futuro, sul corpo e sull’irreversibilità della perdita.
Il protagonista Karsh (interpretato da Vincent Cassel, in uno dei ruoli più complessi e asciutti della sua carriera, quasi un clone anche fisicamente del regista stesso) è un imprenditore sessantenne che, devastato dalla morte della moglie Becca, ha sviluppato un’innovativa tecnologia funeraria chiamata “GraveTech” strutturata su un cimitero privato ( con annesso ristorante di alta qualità) nel quale attraverso  un sistema iper tecnologico basato su un sudario che permette di osservare in tempo reale la decomposizione dei corpi dei propri cari attraverso delle telecamere installate nei sudari stessi e nelle bare. La finalità — o forse l’illusione — è quella di continuare a “comunicare” con chi non c’è più, di prolungare un legame, di non arrendersi al vuoto definitivo del distacco.
Quando un atto vandalico distrugge alcune tombe dotate di GraveTech, tra cui quella della moglie, Karsh si ritrova coinvolto in un’indagine che è prima di tutto interiore. Il film prende presto però una piega cospirativa, con complotti che coinvolgono russi americani cinesi, hacker e soggetti oscuri senza diventarre però mai un thriller a tutti gli effetti. 
È piuttosto una riflessione disturbante e contemplativa sulla memoria, sul bisogno di dare forma alla perdita, sull’identità fratturata. Attorno a Karsh ruotano figure enigmatiche: la sorella gemella  di Becca (interpretata da Diane Kruger, in un doppio ruolo ambiguo), un maldestro hacker nonché  ex cognato , la moglie di un magnate di origini franco-coreane e i fantasmi — reali o immaginati — del passato coniugale.



La morte, da sempre una delle grandi ossessioni cronenberghiane, in The Shrouds non è tanto un evento biologico quanto un enigma metafisico e mediatico. L’idea di “guardare” la decomposizione del corpo attraverso uno schermo riprende in modo inquietante le teorie di Jean Baudrillard e l’estetica del postumano: ciò che è morto continua a esistere come immagine, dato, simulacro. È un lutto tecnologico, anestetizzato, ma mai elaborato davvero. La visione diventa una forma di controllo e di negazione della perdita: osservare la corruzione del corpo come se ciò bastasse a contenerne la scomparsa.
Karsh è un uomo che ha digitalizzato il dolore, che ha mercificato il cordoglio, ma non per cinismo: è un atto disperato, quasi religioso, che cerca una trascendenza là dove la biologia ha messo un punto. Il sudario tecnologico diventa così il nuovo sacrario, e Cronenberg insinua un parallelo tra la sacralità dei riti funebri e le nuove forme di culto digitale.
Il corpo, che nel cinema di Cronenberg è sempre stato teatro di trasformazione, qui è corpo morto, putrefatto, osservato. Dall’horror della carne mutante di The Fly e Videodrome si passa a una fissità glaciale: l’orrore non è più nella mutazione ma nell’inerzia, nella decomposizione. 
La tecnologia non serve più a potenziare il corpo, ma a fossilizzarlo e in questo senso, The Shrouds rappresenta una svolta nella poetica del regista: il postumano non è più un’estensione del desiderio, ma una forma di paralisi emotiva.
Karsh è un alter ego evidente di Cronenberg,è un uomo colto, ossessivo, solitario, che usa la creazione come forma di elaborazione del dolore. Ma come sempre nei personaggi cronenberghiani, la creazione sfugge di mano, si contamina, si ritorce contro il suo artefice. La paranoia cresce: chi ha distrutto le tombe? Perché? Cosa nascondeva davvero Becca? Cosa sono quei fenomeni post mortem che sembrano crescere adesi alle ossa della donna? 
La morte diventa anche occasione per riscrivere la narrazione dell’altro, per proiettare su di lui i propri fantasmi; ma è proprio su questi punti che il film mostra vistose pecche: tutte le sottotrame complottiste geopolitiche, di guerra digitale addirittura intercontinentale, sembrano un qualcosa di assolutamente superfluo, per lo meno elaborato in questa maniera, anche perché il film non è , e non vuole essere , un thriller classico; semmai Cronenberg ha cercato maggiormente , non riuscendoci neppure bene, una tensione e una inquietudine interna alla sua riflessione sulla morte e sulla elaborazione del lutto facendo affidamento sui suoi consueti canoni di narrazione.

venerdì 18 aprile 2025

Wonderland ( Kim Taeyong , 2024 )

 




Wonderland (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Con Wonderland, il regista coreanoKim Taeyong propone un'opera di fantascienza intima e riflessiva, capace di affrontare con sensibilità e profondità temi complessi come il lutto, l'identità e l'intelligenza artificiale. Il film si inserisce in una tradizione cinematografica ormai ben consolidata, soprattutto negli ultimi anni che indaga il rapporto tra uomo e tecnologia, ma lo fa attraverso una prospettiva emozionale piuttosto che distopica. 
Al centro della narrazione vi è un servizio innovativo, denominato "Wonderland", che permette alle persone di interagire con versioni digitali dei loro cari scomparsi o inaccessibili, ricostruite grazie all'intelligenza artificiale. Un espediente narrativo che apre la strada a numerose riflessioni etiche ed esistenziali.
La storia si sviluppa attraverso due linee narrative principali. Da un lato, Jungin (Bae Suzy), assistente di volo, utilizza il servizio Wonderland per interagire con il fidanzato Taeju (Park Bogum), in coma dopo un incidente. Attraverso l'IA, può continuare a "parlare" con lui, colmando un'assenza che altrimenti sarebbe insopportabile. 
Dall'altro, Bai Li (Tang Wei), madre single affetta da una malattia terminale, sfrutta il servizio per garantire alla figlia Jia una versione virtuale di sé stessa, assicurandole così un affetto materno che si prolunga oltre la sua morte.
Entrambi i racconti mettono in luce le implicazioni di una tecnologia che, se da un lato permette di mantenere vivi i legami, dall'altro solleva interrogativi sull'autenticità delle relazioni, sull'elaborazione del lutto e sui limiti dell'intelligenza artificiale nel sostituire la presenza umana e nel creare un pericoloso corto circuito di identità
Uno dei fulcri emotivi del film è la gestione della perdita: il servizio Wonderland si presenta come una risposta tecnologica al dolore, offrendo un'illusione di continuità con chi non c'è più. Jungin si aggrappa disperatamente alla replica digitale del fidanzato, ma quando Taeju si risveglia dal coma, la realtà si rivela più complessa e dolorosa di quanto lei fosse pronta ad accettare creando una pericolosa dicoltomia tra il personaggio reale e quello digitale con cui era abituata a interagire. La sua esperienza solleva una domanda fondamentale: l'accesso a una replica digitale aiuta realmente ad affrontare il lutto, o lo prolunga in un limbo emotivo?
Allo stesso modo, Bai Li cerca di proteggere la figlia dal trauma della sua imminente scomparsa, sostituendo la sua assenza con un'ombra digitale. Ma può un'immagine algoritmica davvero sostituire la fisicità e il calore di un genitore? Il film suggerisce che la tecnologia, per quanto avanzata, non può ricreare la profondità dell'interazione umana, rivelando le fragilità di una soluzione apparentemente perfetta.



La creazione di simulacri digitali solleva questioni profonde sull'identità. Le copie artificiali di Wonderland non sono semplici repliche: interagiscono, apprendono, simulano emozioni. Ma sono davvero le stesse persone che rappresentano, o si tratta di un'illusione sofisticata? Taeju, una volta risvegliatosi, scopre che una versione di lui ha continuato a "vivere" nei ricordi della fidanzata. Ma chi è il vero Taeju? Quello in carne e ossa o quello rimasto nella memoria artificiale?
Il film riflette sul concetto stesso di esistenza: siamo definiti dai nostri corpi e dalle nostre esperienze dirette, o dalle impressioni e dai ricordi che lasciamo negli altri? In un'epoca in cui le nostre vite digitali diventano sempre più preponderanti, Wonderland mette in discussione la nostra percezione di realtà e di autenticazione dell'individuo.
Il film invita a una riflessione sulla moralità dell'intelligenza artificiale applicata alle relazioni umane. Chi controlla la memoria digitale delle persone? Wonderland è un servizio concepito come supporto terapeutico o nasconde una logica commerciale e manipolatoria? Se è possibile interagire con un defunto, chi garantisce che questa interazione non venga sfruttata a fini economici o politici? 
Il film non offre risposte definitive, ma lancia interrogativi inquietanti che risuonano nel nostro presente, dove l'IA si insinua sempre più nelle dinamiche della nostra esistenza, ed in effetti il valore del film sta proprio nella serie di infinite domande che ci fa porre , a noi stessi per primi.

mercoledì 16 aprile 2025

The Substance ( Coralie Fargeat , 2024 )

 




The Substance (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

The Substance di Coralie Fargeat è un'opera che si colloca con prepotenza nel panorama contemporaneo del cinema di genere, mescolando body horror, satira sociale e critica all'ossessione per l'immagine. Il film si distingue per il suo stile viscerale e per una narrazione che affonda le radici nell'angoscia dell'invecchiamento e nel culto della giovinezza, temi sempre più centrali nell'era dell'iperconnessione e della visibilità mediatica al punto che appaiono piuttosto stupefacenti le nominations che l'opera ha ottenuto per la serata finale in cui si assegnavano gli Oscar, essendo la Hollywood mainstream piuttosto allergica ai film di genere quale è questo, nonostante la tematica centrale sia ben presente nel mondo di lustrini del cinema hollywoodiano.
La protagonista, Elisabeth Sparkle (una convincentissima Demi Moore), è una celebrità in declino che ha costruito la sua carriera e identità sull'aspetto fisico e sulla notorietà. Quando il mondo dello spettacolo inizia a voltarle le spalle, viene a conoscenza di una sostanza sperimentale in grado di creare una versione giovane e perfetta di sé stessa: Sue (una scintillante Margaret Qualley). Il farmaco consente alle due versioni di coesistere alternandosi a scadenza settimanale, ma ben presto la dinamica tra Elisabeth e Sue si trasforma in una lotta per l'esistenza e il dominio dell'identità, nonostante sin dall'inizio del film in più di una occasione ci viene fatto sapere che però le due sono una unica persona e quindi ciò prevederebbe una assenza di competizione.
Quando le regole base di questo diabolico gioco di sopravvivenza vengono violate lo scontro tra le due anime della stessa persona ( ma sarà vero poi?...) portano all'inevitabile catastrofe.
La struttura narrativa del film segue una parabola discendente: inizialmente il "miracolo" della sostanza sembra un dono straordinario, ma con il passare del tempo si trasforma in una maledizione, mettendo in discussione non solo l'identità della protagonista, ma anche i concetti stessi di valore e riconoscimento sociale.
Il cuore pulsante di The Substance è la riflessione sulla società dell'immagine e sul terrore dell'oblio. Nel mondo dello spettacolo, e più in generale nella società contemporanea, l'invecchiamento è vissuto come una condanna. 


Coralie Fargeat esaspera questo concetto, mostrandoci una protagonista che non può permettersi di essere dimenticata e che è disposta a sacrificare la propria umanità pur di restare sotto i riflettori.
L’uso della sostanza diventa una metafora per i metodi sempre più invasivi con cui la cultura popolare cerca di sconfiggere il tempo: interventi chirurgici estremi, trattamenti sperimentali, digitalizzazione dell’immagine e manipolazione della percezione pubblica. 
In un mondo in cui la visibilità sui social media e la rilevanza pubblica sembrano determinare il valore individuale, il film pone domande cruciali: chi siamo davvero al di là del nostro aspetto? Cosa rimane quando l’immagine non è più sufficiente?
Il film utilizza il body horror in modo efficace per rappresentare il terrore della trasformazione, quasi una maledizione metafisica per avere tentato di alterare le strade della natura; il corpo di Elisabeth, sottoposto a un continuo processo di rigenerazione e deterioramento, diventa un campo di battaglia tra il passato e il presente, tra la vecchia identità e la nuova. La relazione tra Elisabeth e Sue non è solo fisica ma anche simbolica: è la lotta tra il desiderio di rimanere eternamente giovani e la paura di essere sostituiti.
Il tema del doppio è stato esplorato in molte opere cinematografiche, ma The Substance lo declina in chiave postmoderna, facendo emergere le contraddizioni della cultura contemporanea. Sue rappresenta l’ideale inaccessibile della bellezza, ma anche una minaccia costante: se la società desidera solo la versione giovane e perfetta di Elisabeth, cosa succede alla "vera" Elisabeth?
Coralie Fargeat dimostra una padronanza registica notevole, bilanciando l'estetica patinata con sequenze disturbanti. La fotografia, dai colori accesi e saturi, richiama l'estetica della pubblicità e del mondo della moda, per poi sfaldarsi progressivamente in un incubo visivo fatto di carne, sangue e decomposizione.
La colonna sonora e il sound design contribuiscono a costruire un'atmosfera claustrofobica, enfatizzando la tensione crescente e il conflitto interiore della protagonista. I richiami a registi come David Cronenberg sono evidenti, soprattutto nel modo in cui il corpo diventa veicolo di ansie e ossessioni sociali.

mercoledì 2 aprile 2025

Mickey 17 ( Bong Joonho , 2025 )

 




Mickey 17 (2025) on IMDb
Giudizio: 8/10

Sei anni dopo il colossale trionfo sotto tutti i punti di vista ottenuto con Parasite, il regista coreano Bing Joonho torna alla regia con Mickey 17, liberamente ispirato al romanzo di fantascienza di Edward Ashton dal titolo Mickey 7; ripercorrendo il sentiero del genere di fantascienza come fatto già con Okja e con Snowpiercer Bong si affida ancora una volta ad un genere ben strutturato (la fantascienza appunto) per contaminarla poi con la commedia, il thriller , l’action movie ,la satira sociale e politica e con una profonda riflessione filosofica  semiseria, ma a tutti gli effetti drammatica , sulla condizione dell’uomo e sul suo rapporto con il progresso scientifico; possiamo dire sin da subito che è proprio questa fusione-contaminazione di stili e generi che il regista mette in atto uno dei capisaldi fondamentali della buona riuscita della pellicola, operazione che Bong spesso e volentieri ha già messo in atto in molte delle sue opere precedenti.
Siamo in un futuro neppure troppo remoto e la storia segue le vicende di Mickey Barnes che invischiato pericolosamente con degli strozzini feroci decide di fuggire lontano arruolandosi nella flotta di una astronave in partenza per un lontano pianeta inospitale colonizzato per arrivare sul quale saranno necessari molti mesi di navigazione nello spazio. 
Purtroppo per lui sulla nave sono rimasti solo posti per “sacrificabili” cioè soggetti che svolgeranno compito pericolosi che spesso si concludono con la morte che sarà però solo un passaggio da un corpo ad un altro, una volta morto il soggetto, perfettamente clonato  e caricato con il suo feedback e memoria di emozioni e conoscenze. Per Mickey sappiamo che siamo giunti alla sedicesima copia di se stesso e questa diciassettesima andrà incontro ad uno strano destino visto che qualcosa non funziona alla perfezione nelle tempistiche della sua morte e clonazione, evento che possiamo dire sia un po’ l’innesco sui molti interrogativi riguardanti  l’identità, il valore della vita umana e i limiti della scienza che il film porta con sé.
Bong Joonho sfrutta la premessa fantascientifica per indagare uno dei dilemmi più urgenti e pregnanti della modernità: il rapporto tra progresso scientifico ed etica. Il concetto di replicazione umana diventa un'allegoria della disumanizzazione imposta da un sistema che riduce l’individuo a mera risorsa sacrificabile, evocando riflessioni che spaziano dalla bioetica al transumanesimo. 
Mickey non è solo un ingranaggio in un meccanismo produttivo, ma rappresenta il paradigma dell’uomo contemporaneo, sempre più vincolato da logiche di efficienza e prestazione, dove l’identità individuale diviene un elemento secondario rispetto alla funzionalità. La tecnologia, anziché liberare, imprigiona Mickey in un ciclo senza fine in cui il valore della sua esistenza è determinato solo dalla sua utilità.
Dietro alla missione spaziale, alla clonazione, al controllo delle esistenze e al predominio dell’utilitarismo c’è a presiedere il tutto una losca cricca grottescamente capitanata  da un clone neppure troppo mimetizzato composto da un Trump incrociato con Musk, il che lascia facilmente immaginare il livello di idiozia e di spregevolezza che esso trasmette: Mr Kenneth Marshall impersonifica alla perfezione ( anche grazie ad un prova superlativa di Mark Ruffalo) il politicante opportunista, buzzurro, tecnocrate, pieno di soldi  e del suo poterucolo  ma privo della seppur minima dignità , visto che oltre tutto è anche un burattino nelle mani della folle e agghiacciante moglie. 



Sarà quindi anche per questo riferimento, mai così tempestivo al presente e agli eventi che accadono oltreoceano, che il film sembra riflettere su dinamiche reali, dalle politiche aziendali di sfruttamento del lavoro – in cui il singolo è sacrificabile per il bene della produzione – fino alle decisioni di leader politici e tecnocrati privi di scrupoli, pronti a giustificare scelte disumanizzanti in nome del progresso. 
La figura di Mickey può ricordare le situazioni di lavoratori sottoposti a condizioni estreme, come nei centri di produzione altamente automatizzati o nei laboratori di ricerca che trattano il progresso scientifico come fine assoluto, senza considerare le implicazioni etiche. 
In un’epoca in cui l'intelligenza artificiale e la manipolazione genetica pongono interrogativi sempre più pressanti, Mickey 17 si inserisce con forza nel dibattito sulla responsabilità morale di chi guida l’innovazione e sul pericolo di una società che antepone l’efficienza alla dignità umana.  Il film interroga lo spettatore su una questione cruciale: fino a che punto possiamo giustificare il sacrificio dell’individualità in nome dell’efficienza e del progresso? E cosa accade quando l’essere umano smette di essere considerato un fine e diventa solo un mezzo per un obiettivo più grande? Questi interrogativi emergono con forza nella narrazione, ponendo Mickey 17 in una posizione di assoluta rilevanza nel panorama della fantascienza contemporanea.
Uno dei tratti distintivi di Bong Joonho è la sua capacità di intrecciare critica sociale e intrattenimento. In Mickey 17, il regista sudcoreano costruisce una metafora della società moderna, dominata dal lavoro alienante e dalla perdita di significato dell’individuo. Il protagonista diventa simbolo di una classe operaia sfruttata e costretta a ripetere azioni meccaniche senza possibilità di fuga. La sua lotta per l’autodeterminazione è una riflessione sulla condizione umana in un mondo governato da logiche aziendali e dalla mercificazione della vita; se in Snowpiercer la lotta di classe era una metafora carica di violenza e in Parasite invece era presentata sotto la forma subdola della immedesimazione, in Mickey 17 siamo ad un livello superiore nella scala della condizione umana, la lotta di classe è infatti lo specchio di una società in cui pochi decidono e condizionano la vita e il ruolo della maggioranza a cui rimane solo il gesto violento per tentare di riconquistare la dignità calpestata. Questa è una tematica sulla quale Bing insiste molto perchè considera proprio le diseguaglianza sociali come il vero cardine della differenza tra i ceti oppressi e quelli dominanti divenuti ormai una oligarchia che possiede tutte i mezzi  con cui condizionare l’esistenza umana.

lunedì 24 marzo 2025

Shadow of Fire [aka Hokage - Ombra di fuoco] ( Tsukamoto Shinya , 2023 )

 




Shadow of Fire (2023) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Che sia giunto finalmente il momento che anche nei cinema italiani si renda il giusto omaggio a Shinya Tsukamoto, ufficialmente per il suo 65° compleanno, più verosimilmente per non finire col rimanere ad essere tra i pochi paesi che non abbiano reso omaggio ad uno dei più grandi cineasti giapponesi del cinema moderno ?
Preceduta dalla proiezione del suo ultimo lavoro Shadow of Fire nei cinema dalla metà di marzo, seppure con colpevole ritardo di due anni, ma meglio tardi che mai… da aprile sarà possibile vedere sul grande schermo una rassegna con alcuni dei suoi più importanti lavori fin dall’inizio della sua carriera.
Il regista giapponese  oltre ad essere rimasto tra i pochissimi veri artigiani del cinema , intesi come amanti dell’arte cinematografica in ogni suo aspetto, con gli ultimi tre lavori, sotto forme diverse e con storie non sempre sovrapponibili, ha intrapreso una lunga riflessione sulla guerra e sugli effetti che essa produce sull’essere umano, intesi non solo come danni fisici, ma anche e soprattutto danni alla psiche proprio per chi è riuscito a sopravvivere alla morte in guerra.
Shinya Tsukamoto continua la sua esplorazione del trauma e della violenza con Shadow of Fire, un'opera che si inserisce nel filone del cinema bellico ma lo affronta da una prospettiva intima e post-bellica. Il film, ambientato nel Giappone devastato della Seconda Guerra Mondiale, segue alcune figure inquiete che cercano di sopravvivere tra le macerie fisiche e psicologiche del conflitto.
La storia si sviluppa attorno a quattro personaggi principali: una giovane donna, proprietaria di un locale ridotto ormai a bettola in mezzo alle macerie che si prostituisce per poter sopravvivere, un bambino orfano che si aggira tra le rovine cercando di sbarcare il lunario e che stringe un legame affettuoso con la donna  e un ex soldato di passaggio che tenta di ricostruire un'esistenza in un mondo sconvolto; per un attimo i tre sembrano quasi convergere in una nuova famiglia surrogata , ma presto le devastazioni interiori della guerra sin presenteranno a chiedere il conto; ed infine un altro soldato che si accompagna col ragazzino , nel frattempo allontanatosi dalla donna , che va alla ricerca di una illusoria e vendetta di redenzione. 
Il film non si limita a raccontare le loro vite, ma si immerge nelle loro emozioni più profonde, mostrando il dolore, la paura e la speranza che li muovono, ci mostra i postumi degli orrori che emergono durante la notte che non abbandonano nessuno dei protagonisti.



La narrazione di Tsukamoto è volutamente frammentaria e immersiva. Il regista utilizza lunghi silenzi, sguardi prolungati e una messa in scena minimale per costruire un'atmosfera sospesa, in cui la violenza della guerra è sempre presente, pur restando fuori campo. Non ci sono scene di battaglia, solo qualche isolato colpo di arma da fuoco sufficiente però a stravolgere i protagonisti, ma l'eco del conflitto risuona in ogni inquadratura, persino nei sogni o nelle immagine quasi allucinate in cui  un tappeto si trasforma nella veduta di una città rasa al suolo dalla quale emerge solo qualche rovina 
Uno degli elementi centrali del film è il modo in cui Tsukamoto affronta il trauma e la memoria. Shadow of Fire non parla della guerra in sé, ma delle sue conseguenze, dell’incapacità di lasciarsi alle spalle il passato e della difficoltà di costruire un futuro. Il titolo stesso suggerisce un mondo in cui la distruzione ha lasciato un segno indelebile, un’ombra che avvolge i personaggi e li condanna a una perpetua lotta interiore.
Visivamente, il film alterna momenti di crudo realismo a sequenze quasi oniriche, in cui la luce e l’oscurità si mescolano per rappresentare il conflitto interiore dei protagonisti. La fotografia cupa e granulosa richiama l’estetica del neorealismo e dei film di guerra giapponesi del dopoguerra, ma con un tocco moderno che esalta la sensibilità autoriale di Tsukamoto.
L’uso del sonoro è un altro aspetto cruciale: rumori di passi nella polvere, il vento che soffia tra le rovine, i suoni della natura che cercano di riaffermarsi tra le macerie creano un paesaggio sonoro che avvolge lo spettatore e lo immerge in una dimensione quasi sensoriale.
A differenza di molti film di guerra che si concentrano sugli eventi bellici e sull’eroismo, Shadow of Fire si avvicina a opere come L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij , che esplorano la devastazione psicologica lasciata dal conflitto. Tsukamoto riprende il suo interesse per i corpi segnati dalla violenza (già evidente in Tetsuo-The Iron Man e Fires on the Plain) ma qui lo fa con una delicatezza inedita, mettendo in scena personaggi fragili e feriti, lontani dalle figure tipiche dei film di guerra.

lunedì 10 marzo 2025

Misericordia [aka L'uomo nel bosco aka Misericorde] ( Alain Guiraudie , 2024 )

 




Misericordia (2024) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Alain Guiraudie, regista noto per la sua capacità di esplorare le tensioni del desiderio e le loro implicazioni politiche e sociali e con il quale non è sempre facile riuscire a rapportarsi se non proprio a sintetizzarsi, torna con Misericordia (L'uomo nel bosco), un'opera che si colloca perfettamente nel solco della sua filmografia, caratterizzata da un uso ipnotico della narrazione e da un'indagine spietata delle pulsioni umane. 
Se con Lo sconosciuto del lago  aveva costruito un thriller erotico rarefatto e perturbante ma che peccava di un profondo equivoco di partenza, insito tra l’altro fortemente nel suo cinema, e con Rester vertical  aveva sfidato con non troppo successo le convenzioni del realismo narrativo con un viaggio allucinato nel desiderio e nella perdizione, con Misericordia porta il suo cinema in una dimensione quasi metafisica, in cui il desiderio si scontra con le sue stesse ombre.
Ambientato in una regione rurale segnata dalla presenza pervasiva del bosco ( ricordate il bosco lacustre de Lo sconosciuto del Lago?), Misericordia segue il protagonista Jérémie  che torna nel suo villaggio di origine per il funerale del suo ex datore di lavoro presso cui cui aveva prestato servizio per tanti anni sin da ragazzo; un uomo che appare subito carico di ambiguità che si manifesta sia nell’incontro con la moglie del defunto che con il figlio e anche con un vecchio amico; da subito è chiaro che c’è qualcosa di detto e non detto che cova sotto le ceneri e che l’occasione del funerale possa diventare il momento di tirare i conti dopo tanti anni. Ben presto il protagonista si trova coinvolto in una storia torbida di eros ossessivo e di violenza. 
La narrazione si sviluppa attraverso un intreccio di incontri ambigui e situazioni che sfumano continuamente tra il reale e l'onirico, senza mai concedere punti fermi allo spettatore. 
Guiraudie, come sempre, costruisce un racconto in cui il paesaggio diventa un'estensione delle tensioni psicologiche e sociali dei personaggi: il bosco non è solo lo sfondo, ma una sorta di labirinto simbolico in cui il desiderio prende forma e si scontra con le sue conseguenze, insomma mette in scena il consueto teatro delle maschere della ambiguità del finto perbenismo, scivolando nel più classico dei thriller alla francese, che poi thriller in senso stretto non è perché dopo poco dall’inizio sappiamo già tutto e quello che dovremo seguire è come le pulsioni dei vari personaggi si confrontano tra di loro.
Misericordia si inscrive nella tradizione del thriller esistenziale, un genere che in Francia ha trovato esponenti di rilievo come Claude Chabrol, da cui Guiraudie sembra ereditare la capacità di costruire tensione attraverso dettagli minimi e situazioni apparentemente quotidiane, che nascondono un sottotesto di inquietudine e pericolo. Tuttavia, a differenza del maestro della Nouvelle Vague, che spesso giocava con il meccanismo del whodunit, Guiraudie svuota il thriller della sua componente investigativa per concentrarsi sulla dimensione psicologica ed esistenziale dei personaggi. 
Il film assume così una struttura minimalista ( in certi momenti sembra di assistere ad una versione noir di Eric Rohmer), in cui la narrazione procede per ellissi e sospensioni, lasciando che il paesaggio e le interazioni tra i personaggi sostituiscano l’azione esplicita. Il bosco diventa una sorta di teatro primordiale, un crogiolo ribollente  dove le dinamiche del desiderio e della paura si manifestano in forma archetipica, mentre l’intreccio si sviluppa in modo ellittico, senza mai fornire una chiara direzione o una risoluzione definitiva. 



Questo approccio radicale, che richiama anche certe sperimentazioni di Bresson e la tensione latente del cinema di Maurice Pialat, amplifica il senso di smarrimento e di angoscia, trasformando il film in un’esperienza sensoriale più che narrativa.
Tema cardine del film è il desiderio e la sua capacità di sovvertire l’ordine delle cose. In Misericordia, il desiderio si manifesta come un'energia anarchica e imprevedibile, che spinge i personaggi verso l'ignoto, esponendoli al pericolo e alla trasformazione. Guiraudie continua a interrogarsi su una domanda centrale della sua poetica: fino a che punto siamo disposti a seguire i nostri impulsi? E quale prezzo siamo disposti a pagare per questa libertà? Jérémie è un uomo in fuga, non solo da qualcosa di esterno, ma da sé stesso, e il film lo accompagna in una discesa in un territorio in cui il confine tra attrazione e paura, tra vita e morte, diventa sempre più sfumato.
L’elemento erotico, sempre presente nel cinema di Guiraudie, è qui declinato in una chiave più sottilmente inquietante. I corpi si attraggono e si respingono, il sesso è un atto che può essere liberatorio o predatorio, e la tensione tra desiderio e colpa attraversa tutta la narrazione. 
Tuttavia, ciò che rende Misericordia particolarmente incisivo è l'ambiguità che permea tutti i personaggi. Nessuno è esente da contraddizioni: Jérémie è un protagonista che oscilla tra vittima e carnefice, gli incontri che fa lungo il suo cammino sono segnati da un'ambivalenza che non permette mai di classificare nettamente buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. 
In questo contesto, anche la figura del prete, apparentemente guida morale della comunità, si rivela sfaccettata e carica di tensioni latenti. I suoi comportamenti, che si muovono tra un'apparente accoglienza e un coinvolgimento sempre più ambiguo con le tensioni della comunità, suggeriscono una riflessione sulla fragilità del ruolo spirituale in una società dove il desiderio non può essere facilmente incasellato in categorie morali definite.

domenica 9 marzo 2025

Oh , Canada - I tradimenti [aka Oh , Canada] (Paul Schrader , 2024 )

 




Oh, Canada (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Oh, Canada di Paul Schrader, col solito sottotitolo italiano che serve da accalappiapubblico, segna un nuovo capitolo nella filmografia del regista, esplorando con intensità i temi della memoria, della colpa e della verità personale. Presentato al Festival di Cannes 2024, il film si distingue per il suo approccio contemplativo e la sua struttura narrativa stratificata, che si snoda tra presente, confinato nell’appartamento del protagonista ormai visibilmente malato terminale,  e passato, che ci riporta fino agli anni della gioventù di Leonard, con grande raffinatezza.
Il film segue Leonard Fife (interpretato da Richard Gere), un documentarista di fama che negli anni '60 si rifugiò in Canada per evitare la chiamata alle armi durante la guerra del Vietnam. Ora, affetto da una malattia terminale, accetta di rilasciare un'ultima intervista a una troupe composta da suoi ex studenti di cinema, tra cui Malcolm  e Diana . 
Quella che doveva essere una sorta di summa agiografica della sua attività si trasforma sin da subito come una confessione, che avviene, per volere del protagonista, alla presenza della moglie Emma anche essa ex allieva , e che  diventa il pretesto per un viaggio doloroso attraverso il suo passato, in cui emergono tradimenti, scelte discutibili e un'identità più sfaccettata di quanto la sua immagine pubblica abbia mai lasciato intendere; ecco quindi che emergono delle verità che neppure la moglie conosce, la fuga in Canada non come scelta eroica di protesta contro la guerra in Vietnam, bensì come scelta puramente opportunistica dai contorni patetici, le relazioni avute con altre donne, la presenza di un figlio praticamente disconosciuto, una lunga scia di egoismo e di scaltro (neanche tanto) funambolismo morale.
La narrazione alterna sequenze ambientate nel presente con flashback che rivelano il giovane Fife e ciò comporta anche scelte tecniche diverse a seconda dell’epoca in cui è ambientato il racconto, considerando anche che Schrader non disdegna l’espediente del protagonista  che quasi come spettatore assiste al suo passato. 
La fotografia distingue chiaramente le due epoche: il presente è caratterizzato da toni più freddi e realistici, mentre il passato assume una qualità più evocativa e sfumata, quasi come se fosse filtrato attraverso la lente della memoria e del rimpianto.
Uno degli aspetti più affascinanti di Oh, Canada è il modo in cui Schrader affronta il contrasto tra la percezione pubblica e la realtà privata di un individuo. 
Leonard Fife è stato celebrato come un uomo di principi, un artista impegnato, un simbolo di resistenza, un difensori dei diritti civili. Tuttavia, il film svela progressivamente come molte delle sue scelte siano state dettate non tanto da una convinzione incrollabile, quanto piuttosto da paure personali, molto spesso opportunismo ed egoismo e desiderio di sopravvivenza. Schrader non giudica il suo protagonista, ma lo osserva con uno sguardo lucido e impietoso, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni.



Il film si inserisce perfettamente nella tradizione del "cinema della colpa" di Schrader, che ha spesso esplorato figure tormentate dal proprio passato (First Reformed, The Card Counter, Master Gardener), sebbene quella da espiare per il protagonista è una colpa  più di tipo morale. Qui, però, la riflessione si fa ancora più intima e meno legata a un'idea di redenzione religiosa, concentrandosi piuttosto sulla relatività della verità e sulla difficoltà di convivere con le proprie scelte.
Un altro tema centrale è quello della memoria e della narrazione personale. L'intervista che Fife rilascia è un tentativo di riscrivere la propria storia, di raccontarsi per l'ultima volta prima della morte. Ma quanto di ciò che dice è davvero sincero? Quanto è manipolazione o autoassoluzione? Schrader gioca con queste ambiguità, mettendo in discussione il concetto stesso di testimonianza e lasciando che le contraddizioni emergano senza forzare risposte definitive, inserendo di diritto il personaggio di Leonard in quella ormai lunga sua carrellata di personaggi nei quali l’ambiguità è sempre una caratteristica fondamentale.
L'ambiguità morale del protagonista è uno degli elementi più caratteristici del cinema di Schrader e trova qui una delle sue espressioni più profonde. Fife è un uomo che si è sempre visto come una persona giusta, ma che è costretto a confrontarsi con le ombre del proprio passato. Ha davvero agito per ideali o ha solo trovato una scusa per fuggire da una responsabilità scomoda? 
La sua ricerca di redenzione non è lineare: più si racconta, più emergono dettagli che rendono difficile stabilire se sia un eroe mancato o un uomo che ha sempre cercato di salvarsi prima degli altri. Schrader costruisce così un protagonista che non è mai completamente positivo né completamente negativo, ma umano nelle sue contraddizioni. 
La sua confessione finale, invece di offrire una catarsi, lascia aperti interrogativi profondi sulla natura della sua colpa e sul significato della redenzione, quasi che il tutto sia stato solo un tentativo estremo, sul filo di lana, da parte del protagonista di trovare una sua redenzione , anche fasulla e ipocrita, ma pur sempre sufficiente a farlo morire in apparente pace interiore.

sabato 8 marzo 2025

Itaca-Il ritorno [aka The Return] ( Uberto Pasolini , 2024 )

 




The Return (2024) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Uberto Pasolini, con The Return – Itaca, il ritorno, compie un’operazione cinematografica audace: svuota l’epopea di Omero della sua dimensione eroica e mitologica per restituirne un’anima profondamente umana, dolorosa e fragile. Il viaggio di Odisseo non è più il racconto di un guerriero che trionfa sugli dèi e sulle avversità, ma quello di un uomo spezzato dal tempo, dalla guerra e dall’assenza. 
In questa rilettura minimalista, il ritorno non è un trionfo, ma un faticoso processo di riconciliazione con il passato e con se stessi; Pasolini non è nuovo a racconti minimalisti che contengono però una profondità sorprendente e Itaca , il ritorno mostra questa caratteristica ormai tipica del cinema di Pasolini.
Interpretato con straordinaria intensità da Ralph Fiennes, Odisseo è qui un uomo logorato dal viaggio, appesantito dagli anni e dalle memorie che lo perseguitano. Il suo ritorno a Itaca non è un’epica rivalsa, ma un percorso intriso di esitazione e paura a cominciare dal suo risorgere dal mare come unico superstite della campagna di guerra durata molti anni e conclusa col trionfo di Troia. 
Pasolini esplora il lato intimo dell’eroe, mostrandoci un Odisseo che non è più certo di ciò che troverà, che si nasconde all’inizio nelle vesti di un mendicante che trova accoglienza presso il suo servo più fidato che non a caso sarà l’unico a sospettare subito di questo vagabondo straniero che si presenta ad Itaca reduce dalla guerra per avere conferma con il commovente incontro tra Ulisse ed  Argo il cane che lo attende , ormai vecchio, da anni. Il tempo ha trasformato non solo lui, ma anche la sua terra e le persone che ha lasciato. Questa incertezza lo rende fragile, quasi un’ombra dell’uomo che partì vent’anni prima.
Juliette Binoche interpreta una Penelope che incarna la strenua forza di volontà e la solitudine; il suo personaggio, privato di qualsiasi aura leggendaria, diventa il simbolo di un’attesa dolorosa e consapevole. La sua tela non è solo un trucco per ingannare i Proci, ma il riflesso di una donna che cerca di mantenere intatto un passato che le sta sfuggendo tra le dita. Tuttavia, il ritorno di Odisseo non porta con sé la tanto agognata serenità, bensì un’inaspettata estraneità. L’uomo che le sta di fronte non è più quello che ha sposato, ma un’ombra di ciò che era, un uomo tormentato da anni di guerre, di sangue e di perdite. Penelope osserva suo marito con una distanza che non è solo fisica, ma emotiva e simbolica.
In questa lettura, il personaggio di Penelope assume quasi un ruolo anti-bellico: il suo pacifismo è accentuato fino al punto da renderla una figura quasi idealizzata, in contrasto con l’oscurità che la guerra ha impresso su Odisseo. Lei rappresenta la casa, il rifugio, la continuità, ma anche la difficoltà di accogliere un uomo che porta dentro di sé il peso della morte e della distruzione. 
La sua diffidenza iniziale non è solo il frutto di un test di riconoscimento, come nell’epopea omerica, ma una vera e propria reazione emotiva alla trasformazione di chi un tempo amava. Questo scontro silenzioso tra la quiete e la tempesta interiore del reduce diventa uno dei nuclei emotivi più forti del film, rendendo Penelope non solo una moglie in attesa, ma un simbolo di un mondo che rifiuta la guerra e le sue conseguenze devastanti, che inorridisce di fronte alla atroce vendetta che il marito mette in atto contro i Proci.
Uno dei fili conduttori del film è il tempo come forza inarrestabile che trasforma tutto, erodendo le certezze e ridefinendo i legami. Odisseo torna, ma non torna mai veramente: ciò che ha lasciato non esiste più, e il tempo ha reso Itaca un luogo quasi estraneo. Il suo ritorno non è solo un confronto con la propria terra, ma con la propria memoria, che si scontra con la realtà presente. Ogni cosa è cambiata: gli amici sono invecchiati o scomparsi, l’armonias ha lasciato il posto al caos, le usanze si sono evolute, persino la natura sembra aver preso una forma diversa. Ma il cambiamento più doloroso è quello che riguarda la sua famiglia.



Il rapporto con Telemaco  è il nodo centrale di questa trasformazione: un figlio cresciuto senza padre, che ha imparato a definirsi senza la sua presenza e ora fatica a riconoscere l'uomo che si presenta come tale. Il tempo ha creato un solco tra loro, un’assenza che non può essere colmata con la semplice riapparizione di Odisseo. 
Anche Penelope non è più la donna che lo attendeva con devozione: la sua lunga attesa l’ha resa forte e indipendente, e il marito che le ritorna appare più come uno sconosciuto che come il compagno perduto. Il film ci mostra come il tempo non sia solo un testimone silenzioso, ma un vero e proprio agente di trasformazione, capace di ridefinire le identità e i rapporti umani in modo irreversibile.
L’idea dell’identità smarrita si manifesta anche nella difficoltà di Odisseo di riconoscersi nel ruolo che aveva un tempo: marito, padre, re. Il tempo e l’esperienza lo hanno trasformato in qualcosa di diverso, e ciò che un tempo definiva la sua esistenza ora gli appare distante, sbiadito. In questo senso, The Return non è solo il racconto di un ritorno fisico, ma di un’odissea interiore: il viaggio di un uomo che cerca di riconciliare il proprio passato con il presente, consapevole che nulla può mai tornare davvero com’era.
Il tempo insomma è una  forza inarrestabile che inesorabilmente trasforma tutto: Odisseo torna, ma non torna mai veramente, ciò che ha lasciato non esiste più, e il tempo ha reso Itaca un luogo quasi estraneo, egli stesso  manifesta una dolorosa difficoltà di riconoscersi nel ruolo che aveva un tempo in quella terra e cioè essere marito, padre, re.
Pasolini sceglie di eliminare gli elementi soprannaturali del mito per concentrarsi sull’aspetto umano del ritorno dalla guerra. Odisseo porta con sé le cicatrici di un passato che non può dimenticare, un passato che lo ha trasformato in un uomo profondamente segnato, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. 
Il film affronta il tema del trauma post-bellico con estrema delicatezza, restituendoci l’immagine di un uomo il cui equilibrio interiore è stato alterato per sempre dal lungo conflitto e dagli orrori vissuti. Il campo di battaglia non è solo Troia, ma l’animo stesso di Odisseo, devastato da una guerra che non si è conclusa con il ritorno a casa, ma continua a tormentarlo nei ricordi e nei silenzi.
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