
Giudizio: 7/10
Con Sons, Gustav Möller, regista svedese di nascita ma danese cinematograficamente, compie un passo rischioso e necessario: si allontana dal thriller claustrofobico e sperimentale di The Guilty, la sua interessante opera prima, per abbracciare una narrazione più classica, fisica, che si nutre del corpo e dello spazio tanto quanto della tensione interiore.
Ambientato quasi interamente tra le mura di un carcere danese, il film racconta una storia apparentemente semplice: Eva, agente penitenziaria integerrima e rispettata, si trova a dover gestire il nuovo arrivato, Mikkel, giovane detenuto con un passato di violenza e sofferenza. Che l'agente abbia qualcosa a che fare col detenuto lo si capisce subito da quando osserva dalla finestra il suo arrivo al carcere e poi chiede di essere trasferita nella sezione per delinquenti incalliti e considerati irrecuperabili dove appunto è indirizzato il nuovo arrivato.
Tra i due si instaura da subito un rapporto ambiguo tra carnefice e vittima carico di tensione in cui i ruoli tendono a ribaltarsi , un rapporto che progressivamente porta a galla colpe rimosse, ferite non rimarginate, bisogni di vendetta mascherati da aneliti di redenzione.
Möller costruisce il suo film come un duello silenzioso, dove ogni scambio, ogni gesto di vicinanza o di sfida, ogni sguardo trattenuto diventa un movimento nel gioco complesso del dominio psicologico.
Non c'è mai, in Sons, una netta distinzione tra vittima e carnefice: Eva e Mikkel si osservano, si manipolano, si feriscono, in un ribaltamento continuo dei ruoli che smantella qualsiasi certezza morale. E proprio su questo crinale ambiguo si gioca la potenza del film: Möller non offre punti di vista privilegiati, non chiede allo spettatore di schierarsi, ma lo trascina in una zona grigia dove redenzione e vendetta si intrecciano fino a diventare indistinguibili.
La prima parte del film è un esempio magistrale di costruzione della tensione. Senza ricorrere a colpi di scena o a facili espedienti, Möller lavora sulla compressione degli spazi, sulla ripetitività dei gesti quotidiani, sulla sottile violenza che si insinua nei silenzi. Il carcere non è solo il luogo fisico della reclusione, ma diventa il simbolo della prigionia emotiva che lega i due protagonisti: Eva è intrappolata nel suo bisogno di espiazione attraverso la vendetta, Mikkel nella sua furia impotente contro un mondo che lo ha tradito molto prima del suo ingresso in carcere. Entrambi cercano nell'altro una forma di liberazione che non potrà mai arrivare.
La redenzione in Sons è una chimera: Eva tenta disperatamente di redimere Mikkel non tanto per salvarlo, quanto per liberare sé stessa dal peso della propria colpa. Ma ogni tentativo di salvezza si rivela un atto egoistico, un gesto di appropriazione che non rispetta l'altro come essere autonomo.
Allo stesso modo, la vendetta di Mikkel, più sottile e psicologica che fisica, è una risposta al tradimento del mondo adulto, un tentativo di riaffermare una dignità negata, anche a costo di distruggere chi tenta di aiutarlo.
In questa dinamica implacabile, Möller si dimostra spietato e rigoroso: non concede sconti emotivi, non offre facili redenzioni né redenzioni spettacolari. I personaggi si muovono in un limbo morale dove ogni scelta sembra condannata al fallimento. Il film evita il melodramma ma ne conserva l'intensità emotiva, dosando con sapienza momenti di apparente stasi a esplosioni improvvise di violenza contenuta.
Dal punto di vista formale, Sons conferma la maturità di Möller: la regia è asciutta, precisa, capace di trasformare i corridoi anonimi del carcere in spazi carichi di minaccia latente. La macchina da presa segue i personaggi con discrezione, senza virtuosismi inutili, ma anche senza mai perdere di tensione. L'uso degli spazi chiusi, la fotografia fredda e priva di concessioni estetiche, la scelta di evitare musiche invasive, tutto contribuisce a creare un'atmosfera claustrofobica, tornando quindi per altre vie a quelle atnmosfere che dominavano The Guilty, che rende palpabile il conflitto interno dei protagonisti.
Fondamentale è il lavoro degli attori: Sidse Babett Knudsen offre un'interpretazione intensa e controllata, restituendo con grande finezza la complessità di Eva, il suo oscillare tra forza apparente e fragilità profonda.
Sebastian Bull, dal canto suo, riesce a evitare ogni cliché del giovane delinquente problematico, costruendo un Mikkel che è al tempo stesso minaccioso e vulnerabile, crudele e disperato.
Se il film mantiene un equilibrio quasi perfetto per buona parte della sua durata, è nella sezione finale che qualcosa si incrina. Dopo aver accumulato una tensione emotiva altissima, Sons non riesce a trovare un'esplosione all'altezza ( in tal senso il segmento, l'unico, al di fuori del carcere, contribuisce non poco ad un calo della tensione e della carica emotiva).
La risoluzione della vicenda, pur coerente sul piano tematico, si consuma con una certa rapidità, senza la deflagrazione emotiva che ci si sarebbe potuti attendere. È come se, nel momento decisivo, il film scegliesse la rapida ritirata invece dello scontro frontale. Non un vero e proprio tradimento dello spirito dell'opera, ma una chiusura che lascia un certo retrogusto di incompiutezza.
Nonostante questo limite, Sons resta un film di buon valore, una conferma della lucidità e del coraggio di Gustav Möller. È un'opera che interroga senza offrire risposte, che scava nelle pieghe più oscure della colpa e della vendetta senza mai perdere la dignità dello sguardo. Un cinema necessario, oggi più che mai, perché capace di raccontare la fragilità umana senza concessioni, senza moralismi, senza scorciatoie, con un carico notevole di durezza e di crudezza.
Gustav Möller, con Sons, seppure non totalmente riuscito, si conferma come uno dei registi più interessanti della scena europea contemporanea. Non perché rassicuri, ma perché continua a disturbare.
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