giovedì 11 novembre 2021

Ripples of Life /永安镇故事集 ( Wei Shujun / 魏书钧 , 2021 )

 




Ripples of Life (2021) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Con il suo ultimo lavoro, opera seconda tra i lungometraggi, Wei Shujun, si conferma autore tra i più interessanti nel panorama del cinema indipendente cinese, nonché ormai affezionato frequentatore del Festival di Cannes dove già aveva presentato  la sua opera prima , Striding into the wind, oltre che il suo cortometraggio On the Border meritevole anche di un riconoscimento.

Autore da festival dunque, perché Wei è personaggio molto sui generis essendo conosciuto anche come rapper molto attivo nel variegato panorama musicale cinese; con Ripples of Life , il regista affronta in un solo colpo una bella quantità di tematiche  con uno stile che sa essere quasi camaleontico per la capacità di passare da atmosfere tipiche di Jia Zhangke a quelle ironiche e sferzanti di Ning Hao per finire ad una serie di divertite citazioni , compresa una indiretta su Hong Sangsoo, altro autore che sembra fungere da ispirazione e riferimento.




In effetti Ripples of Life a prima vista appare come il tipico film metacinematografico, cinema nel cinema , come meno aulicamente si suol definire, un racconto sulla creazione dell’opera (d’arte? ) , sui tormenti e dubbi dell’autore  , sul ruolo della settima arte.

Ma quello che permette all’opera di Wei di uscire dalla semplice didascalica definizione cinematografica è lo sguardo acuto ed intenso con cui il regista racconta la profonda dicotomia tra ambiente rurale di provincia e quello metropolitano e di conseguenza la profonda spaccatura che esiste nel paese.

Una troupe cinematografica giunge in un piccolo centro della provincia per iniziare le riprese di un film la cui sceneggiatura è però ancora work in progress: la storia si articola in tre capitoli tra loro connessi e che si incentrano ognuno su un personaggio della storia.

La troupe si insedia presso un albergo dove conosciamo la giovane Gu , madre di un bambino di due anni e sposata ad un uomo che ci appare subito egoista e disinteressato alle problematiche della donna che è sottomessa, ma questa è una legge della Cina rurale, alle regole dei suoceri che gestiscono l’albergo e il ristorante. Gu vorrebbe affrancarsi da quella vita “dove non accade mai nulla” , come sentiremo ripeter spesso nel film, si rende conto che l’unico modo sarebbe andarsene in qualche metropoli dove la vita scorre a ben altri ritmi e dove invece di cose ne accadono anche troppe. Gu viene notata da qualcuno della troupe che vorrebbe introdurla nel cast ( “somigli a Kim Minhee” le dice il direttore della fotografia in una trasversale citazione di Hong Sangsoo l’autore principe del cinema nel cinema) ; il solo fatto di provare abiti e trucchi sembrano dare un impulso vitale all’esistenza della donna, ma quando improvvisamente piomba sul set la guest star del film, Gu inevitabilmente scivola nelle retrovie , il posto che le è sempre appartenuto.

Il secondo segmento si incentra quindi su Chen Chen la star del cinema che da quel villaggio è venuta via da giovane e che vi ritorna per la prima volta con la sincera volontà di esplorare il suo passato e le sue radici: troverà ad aspettarla un presente cui risulta difficile connettersi, i suoi vecchi amici la usano come pubblicità per i loro piccoli scopi affaristici, le amiche di un tempo la evitano e la guardano con sospetto, come una che abbandonato il suo passato ed è riuscita nel salto che loro invece non sono stare capaci di fare, persino la famiglia di un suo amico le mostra un astio ed una grettezza che Chen Chen non immaginava e che però le fa capire cosa sarebbe diventata se fosse rimasta lì invece di fuggire. “ Quando pensi al passato vuoi tornare alle tue radici, incontrare i tuoi amici e rivivere quell’atmosfera per la quale hai nostalgia, ma quando torni nell’ambiente in cui sei nata ti accorgi che nulla è come prima e che riagganciarsi ad esso è praticamente impossibile , troppe cose sono cambiate “ è la riflessione finale di Chen Chen, il filo conduttore del racconto di Ripples of Life.

giovedì 10 giugno 2021

Mater [aka Matriarch] ( Jure Pavlović , 2019 )

 




Matriarch (2019) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Jasna ha lasciato la natia Croazia da molti anni, ha una bella famiglia in Germania dove si è ricostruita una vita soddisfacente, ma le condizioni di salute della madre le impongono di tornare a casa per la prima volta dopo tanti anni.
E' chiaro sin da subito che tra le due donne c'è un attrito sopito, una contrapposizione violenta che ha visto Jasna sin da bambina succube degli atteggiamenti materni e che l'ha portata come le è stato possibile ad abbandonare la casa per non tornare più.
Essendo la  madre ammalata di cancro ad uno stato ormai terminale, quello che doveva essere una permanenza di una settimana si tramuta in una lunga attesa della morte della anziana donna e per Jasna un modo per riportare a galla i sentimenti del passato, i traumi e i dolori.



Si capisce che la Jasna giovane ha subito pesantemente la tradizione propria di molti paesi balcanici in cui la madre è la assoluta padrona dell'educazione dei figli e della gestione famigliare, mentre l'uomo è il privilegiato cui è concessa la libertà, e soprattutto la protagonista si rende conto , toccando con mano, come la durezza matriarcale della madre sia ancora viva, nonostante le forze e la vita la stiano abbandonando.
Jasna capisce di essere legata ancora indissolubilmente al suo passato, a quella casa e a quella terra che aveva abbandonato, legata a quella madre dura, autoritaria che privilegiava il figlio maschio ,anche esso allontanatosi da casa appena gli era stato possibile per poi morire prematuramente; il peso dei ricordi, quello del fratello e del padre morti, l'avvicinarsi della fine anche per la madre, portano la protagonista a rivisitare quelli che sono i suoi legami famigliari, il suo passato e l'indissolubilità di quel rapporto all'apparenza così aspro e conflittuale.
Ricordare il passato , guardare con gli occhi il presente , drammaticamente rappresentato dal lento avvicinamento della madre alla morte serve alla donna per rielaborare il valore della famiglia e comprendere forse quelle che sono state delle dinamiche pesanti che hanno segnato la sua vita.

lunedì 7 giugno 2021

The Day I Died : Unclosed Case ( Park Jiwan , 2020 )

 




The Day I Died: Unclosed Case (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Per la detective Kim la vita sembra riservare uno di quei momenti in cui tutto viene messo pericolosamente  in gioco : infatti è in procinto di separarsi dal marito e sul lavoro sta per subire un indagine disciplinare per aver causato un incidente in servizio a causa del quale ha riportato anche danni importanti che la hanno tenuta lontano per un certo tempo; appena rientrata al lavoro la superiore la incarica inaspettatamente di chiudere un cold case che si trascina da tempo; facendo ciò assicura alla detective il suo appoggio durante la prossima udienza del processo disciplinare che subirà a breve.
Il caso è di quelli apparentemente semplici se non fosse che manca il cadavere: il presunto suicidio di una giovane avvenuto su una remota isola situata di fronte alle coste coreane.



Trovandosi con le mani legate, impossibilitata a rifiutare una simile proposta, che sa tanto di ricatto, la detective Kim accetta di buon grado, mostrandosi sin da subito poco propensa ad accettare la versione ufficiale passivamente.
La ragazza presunta suicida è la figlia di un uomo d'affari importante verso il quale la ragazza ha testimoniato inguaiando lui e i suoi compari, motivo per cui le autorità la hanno esiliata sull'isola sotto il controllo di due agenti e di un fitta rete di telecamere a circuito chiuso per proteggerla.
Un giorno di tempesta la ragazza  scrive un biglietto scarno d'addio e si getta dalla scogliera nel mare livido: questa è la versione ufficiale di fronte la quale la detective si pone con grandi dubbi e per cercare di capire bene quello che è successo si trasferisce per qualche giorno sull'isola dove raccoglie testimonianze sulla ragazza da parte dei curiosi abitanti del luogo.
In effetti le cose non sono così semplici e la detective Kim, sempre più sotto pressione per il divorzio imminente e per la sua situazione lavorativa, si trova a fare chiarezza su un caso che appare intricato ben più di quanto credesse.
Opera prima della regista coreana Park Jiwan , The Day I Died è un thriller che ben presto abbandona i sentieri tradizionali per addentrarsi maggiormente nell'aspetto psicologico, al punto che le figure della detective e quella della ragazza scomparsa , di cui conosciamo la storia attraverso dei ben congegnati flashback, diventano il cardine centrale di una analisi psicologica approfondita che porta alla luce la loro personalità e la loro storia intima che appare per larghi tratti quasi sovrapporsi.

martedì 1 giugno 2021

Intruder ( Son Wonpyung , 2020 )

 





Intruder (2020) on IMDb
Giudizio: 6.5/10

L'opera prima del regista coreano Son Wonpyung, presentata al Korean Film Festival di Firenze è un classico thriller dalla forte impronta psicologica che trova nella descrizione delle dinamiche famigliari e dei traumi trascorsi il suo aspetto più interessante.
Il protagonista, Seojin è un brillante architetto , rimasto vedovo precocemente a causa della morte della moglie in un incidente cui ha assistito e che continua dopo mesi a creare turbamenti psicologici nell'uomo; dopo la morte della donna è tornato a vivere insieme alla figlioletta dai genitori, nella grande casa di famiglia con la speranza che il tempo possa portare un po' di serenità nella sua vita. 
L'uomo , visto che i guai non vengono mai da soli, ha anche subito il trauma, anch'esso ben lungi dall'essere stato risolto, della scomparsa della sorella quando era ragazzini e della quale si sente responsabile, schiacciato dai sensi di colpa.



Dopo 25 anni una l'agenzia cui si erano rivolti per la ricerca delle persone scomparse comunica a Seojin che il test sul DNA ha appurato che una giovane donna è la sorella scomparsa; giunta a casa dove la famiglia la accoglie con felicità incredula, il protagonista vede sorgere invece tutta una serie di situazioni che invece sembrerebbero mettere in dubbio la reale identità della donna.
La situazione si ingarbuglia sempre più con la ragazza che  è adorata in famiglia e Seojin che invece vede crescere la sua diffidenza verso di essa fino alla ostilità vera e propria. 
Una serie di colpi di scena più o meno funzionali, tiene in vita il racconto fino al finale che sembra risolvere ogni dubbio.
Il regista coreano Son sembra ben conoscere il genere del thriller psicologico, costruendo prima atmosfere che sembrano richiamare addirittura Hitchcock e poi altre con influssi quasi soprannaturali, ma il vero tessuto connettivo del film, che va detto soffre di una certa qual prevedibilità sin dall'inizio, soprattutto riguardo ai presunti colpi di scena fin troppo telefonati a volte, oltre che di una certa streotipizzazione dei personaggi ( il volto della sorella non potrà mai essere che quello di un personaggio perlomeno inquietante), è costituito dall'analisi dei rapporti famigliari, al passato che si riaffaccia, ai traumi non risolti messi da parte e che ogni tanto affiorano, alle tensioni vere e proprie tra i membri della famiglia. 

giovedì 13 maggio 2021

Dissolve [aka Din] ( Kim Kiduk , 2019 )

 




Dissolve (2019) on IMDb
Giudizio: 6/10

Parlare dell'ultimo lavoro di Kim Kiduk, tragico epilogo della sua straordinaria parabola di vita e cinematografica, non è facile: la sua morta avvenuta in Lettonia a causa del Covid-19 appare come il suggello ad una esistenza tribolata che ha visto il suo atto finale quasi da esule, nel suo eterno tentativo di inseguire qualcuno che potesse finanziare le sue opere come avveniva ormai da qualche anno, con in più il peso addosso dell'ignominia derivata dalle accuse derivate dal MeToo che lo avrebbero visto protagonista.
A ben guardare l'ultimo capitolo della sua vita e l'ultimo ( ma forse non sarà esattamente così, come vedremo) foglio della sua attività cinematografica qualcosa in comune ce lo hanno e cioè la necessità primordiale di fare cinema, di raccontare per immagini il mondo che lo circondava , il bisogno di tornare ad affrontare gli aspetti di una umanità nella quale l'amore e la violenza, il dualismo innato che risiede in ogni essere vivente e la ribellione sono solo alcuni degli aspetti.



Kim muore in Lettonia dove era approdato per stabilirsi e continuare nella sua vita di narratore cinematografico tra i più spigolosi e scomodi che negli ultimi tempi però aveva subito una sterzata in negativo sia dal punto di vista dell'ispirazione che da quello personale, dopo essere transitato per il Kazakistan all'inizio di una peregrinazione che nasce da una sorta di autoesilio volontario dove comunque lascia il suo testamento cinematografico con Dissolve, ultima opera prodotta che se da un lato conferma la scarsa vena del Kim degli ultimi anni , dall'altro acquista , alla luce del triste epilogo della sua esistenza, una importanza diversa, proprio perchè è quasi l'impronta che il regista ha voluto lasciare per riportare in auge il suo pensiero cinematografico.
Dissolve è infatti una pellicola nella quale Kim cerca di riportare a galla alcune delle tematiche che hanno fatto delle sue opere iniziali degli autentici gioielli: la storia , semplice come plot, ma alquanto complessa se vogliamo leggerne tutte le sfumature che contiene, vede protagoniste due giovani donne che hanno in comune una straordinaria somiglianza fisica ma  sono però all'opposto nel loro modi di affrontare la vita: una vive in un famiglia tradizionalista dove ogni suo movimento è controllato da un fratello tirannico e una madre arpia , con il solo padre che cerca di difenderla dalle prepotenze che subisce, l'altra invece è una donna opportunista, che si fa mantenere da un riccone e che vive la sua vita in assoluta libertà di costumi; una volta incrociate le loro strade le due donne si cambieranno spesso i ruoli; la timorata Din sostituirà l'altra nei suoi incontri con l'amante in attesa che arrivi lei per l'atto sessuale, viceversa la esuberante Din sconvolgerà le regole di famiglia  mostrandosi non più remissiva ma ben intenzionata ad acquisire la sua libertà.

mercoledì 12 maggio 2021

Volevo nascondermi ( Giorgio Diritti , 2020 )

 




Hidden Away (2020) on IMDb
Giudizio: 8/10

Fresco vincitore del David di Donatello ( miglior film , miglior regia, miglior attore protagonista ) che seppur inseguendo la politica dello spalmamento dei premi abituale se non altro premia il film nettamente migliore dei selezionati, il lavoro biografico di Giorgio Diritti riceve un seppur parziale compenso alla catastrofe della pandemia che ne ha impedito il sicuro successo anche di botteghino.
Seguendo il suo abituale percorso cinematografico ormai ben tracciato da anni, il regista bolognese disegna un solido e sentito ritratto del grande pittore Antonio Ligabue, senza cadere nel biopic vero e proprio, privilegiando invece alcuni aspetti della sofferta vita personale e artistica del pittore.
Diritti infatti tralascia tutta la prima parte della vita di Ligabue, incentrandosi principalmente sull'epoca del suo ritorno in Italia e del suo stabilirsi nella Bassa Padana da dove ebbe inizio la sua parabola stupefacente di artista.



Non che il regista dimentichi o tralascia l'infanzia o la giovinezza del pittore, tutt'altro, solo che pereferisce usare una prospettiva molto secca fatta di rapidissimi flashback sul passato di Ligabue  che lasciano però un segno indelebile nel racconto e  ben dimostrano il background di malattia e di disagio sociale in cui il giovane crebbe, privato di una famiglia , affidato a nuclei famigliari svizzeri che mal sopportavano il suo essere strambo e problematico; è proprio in quei frammenti di cinema rapido, sincopato che Diritti mostra tutto il suo sguardo umano e sensibile che si estende, tradizionalmente ormai, alla vita contadina che costituisce il contesto in cui Ligabue visse per tanti anni sulle rive del Po.
Dal momento in cui il pittore torna in Italia, espulso dalla Svizzera, dopo essere stato rifiutato anche dai manicomi , il racconto si concentra principalmente sul tribolato e a tratti drammatico rapporto del pittore con l'arte, che si esplica in uno sguardo ricco di forza bruta ancestrale con la quale rappresenta la realtà fatta di animali e di una natura colorata di fronte alla quale il pittore si pone come un elemento egli stesso, sulla violenza con cui Ligabue reagisce ai giudizi sul suo operato come se il giudizio artistico , o peggio il dileggio che subì soprattutto all'inizio, fossero degli elementi che andavano a strappare la sua stessa essenza.

martedì 11 maggio 2021

Take Me Somewhere Nice ( Ena Sendijarevic , 2019 )

 




Take Me Somewhere Nice (2019) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Alma ha 16 anni, è nata in Olanda ma la sua famiglia è di origini bosniache ed ha abbandonato il paese a seguito della guerra; per l'estate che si avvicina Alma ha deciso di recarsi proprio nella sua terra d'origine a trovare il padre che già molti anni prima aveva percorso la strada al contrario per tornare nella sua patria lasciando la famiglia senza che la ragazza potesse più vederlo; ora è ricoverato in ospedale e come se fosse attratta da una forza misteriosa la ragazza sente di dover tornare a fargli visita e a conoscere il suo paese d'origine.
Il viaggio di Alma assume ben presto caratteristiche ora tragicomiche, ora divertenti, ma soprattutto è un percorso all'interno di un suo passato che non ha mai vissuto e di una maturazione personale; in compagnia di un cugino scostante e del suo amico del cuore Alma affronta un viaggio dando l'impronta del road movie alla pellicola che la porta a conoscere la Bosnia, il suo passato, il suo presente mutevole  e in fondo se stessa, attraverso la scoperta delle pulsioni amorose e sessuali  e della sua personalità a cavallo tra l'adolescente irrequieta e la donna che sta sbocciando in lei; Alma è qualcosa in divenire, un essere che ancora non è totalmente uscito dal guscio ma che al contempo è capace di affrontare da sola i primi passi nella vita adulta; ma soprattutto tocca con mano quello che è forse il tema principale che la giovane regista Ena Sendijarevic, nata in Bosnia e trapiantata in Olanda, sembra volere affrontare con forza: la confusione , il disagio e le insicurezze che la condizione di emigrante , straniera in entrambe le sue patrie, quindi quasi una apolide, si tira dietro e che fanno di Alma un soggetto in bilico tra un occidente che l'ha adottata ma del quale sente la freddezza e un oriente che non la riconosce come propria figlia a causa del gap culturale e di costume che divide le due parti dell'Europa.



Il racconto che procede sempre più seguendo i canoni, seppur molto peculiari ,del road movie, porta Alma a scoprire molto di quello che ribolle dentro se stessa, concludendosi , attraverso una metafora forse un po' scontata ma di sicura efficacia, in un epilogo poetico ricco di romanticismo.
La regista naturalizzata olandese ci tiene a precisare che il film è molto personale ma non autobiografico anche se tutti tasselli farebbero pensare a questo, ribadendo che la sua vuole essere una prospettiva di una generazione del dopoguerra, di adolescenti che non hanno conosciuto quegli orrori ma che oggi sono confusi e privi di riferimenti nello stesso modo in cui lo sono quelli del resto del continente, e attraverso un racconto che si muove con molta armonia tra il road movie, il buddy movie, il coming of age, ci mostra la metamorfosi di una giovane che alla fine del film è ormai diventata una donna , non perdendo però quella triste consapevolezza di confusione  che regna nel mondo circostante.

lunedì 3 maggio 2021

Nomadland ( Chloe Zhao, 2020 )

 




Nomadland (2020) on IMDb
Giudizio: 6.5/10

Se è vero che ogni annata cinematografica viene indelebilmente segnata da un film, quest'ultima trascorsa, la più strana e probabilmente irripetibile di tutte, ha visto Nomadland fregiarsi del titolo di film dell'anno; la marcia trionfale dell'opera della regista sino-americana Chloe Zhao ha inizio alla Mostra Cinematografica di Venezia dove, con una certa sorpresa ,vince il Leone d'Oro come miglior film, proseguendo poi con la vittoria a Toronto e in numerosi altri festival oltre ai premi ricevuti dalle associazioni di critici di mezzo mondo, fino all'apoteosi finale con l'Oscar  al film , alla regia e alla attrice protagonista.
Per chiarire subito, meglio dire sin dal principio, che cotanta gloria appare non solo  eccessiva ma addirittura fuori luogo, perchè Nomadland è lavoro nel quale vivono numerose contraddizioni che lo rendono ciondolante tra il capolavoro e la carrellata di ovvietà.



Protagonista è Fern, una donna di mezza età che in seguito alla chiusura della fabbrica dove lavorava insieme al marito situata nel bel mezzo del deserto del Nevada, inaridita la città-dormitorio costruita intorno all'insediamento industriale e rimasta sola per la dipartita del marito stesso, con le difficoltà economiche sovrastanti si trasforma in una dei tanti homeless che finiscono a vivere in roulotte, camper , caravan e furgoni vari, girando gli Staes inseguendo qualche lavoro occasionale che le permetta di sopravvivere.
Nomadland di Chloe Zhao è tutto qui, articolato sul mondo dei moderni nomadi per necessità ma che lo diventano poi per scelta; girato coinvolgendo numerosi di questi personaggi reali il film ha senza dubbio un buon incipit che vede Fern ( una Frances McDormand che appare uscita dai fotogrammi di Fargo...) prepararsi alla partenza dopo aver svuotato il magazzino in cui tiene le sue cose: questo è uno di quei frangenti della pellicola che riesce a dare di più, in cui, come avverrà per tutta la sua durata, i momenti migliori sono quelli dell'intimità personale, del ricordo, della scelta di vita da difendere a tutti i costi anche quando il furgone è ormai un rudere da buttare via.
Il percorso di Fern parte dalle montagne innevate  del Neveda , dove tutto ha inizio e dove, completando una circolarità mirabile tutto si chiude, in un altro dei momenti più belli dell'intero racconto, e approda al deserto dell'Arizona per partecipare ad un raduno di camperisti nomadi con tanto di santone teoreta della scelta di vita, chitarre intorno al fuoco, balli e chiacchiere in libertà; manca solo una canna e lo scenario è perfetto nella sua elegia veterofricchettona.

sabato 24 aprile 2021

One Second / 一秒钟 ( Zhang Yimou / 张艺谋 , 2020 )

 




One Second (2020) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

La curiosa odissea dell'ultimo lavoro di Zhang Yimou si è conclusa con la sua uscita sugli schermi cinesi alla fine dello scorso novembre con un buon risultato al botteghino; pronto per vedere la luce alla Berlinale del 2019 il film era stato improvvisamente ritirato poche ora prima della premiere a causa di non meglio precisati problemi tecnici, che nel gergo della cinematografia cinese equivale a problema con la censura, cosa che aveva molto stupito visto i rapporti eccellenti che ormai dai tempi dall'inaugurazione dei giochi Olimpici di Pechino, intercorrevano tra il grande regista e le autorità.
Tentata in extremis l'uscita in altri festival senza successo la pellicola sembrava pronta per i Golden Roster, ma anche in quel caso all'ultimo i soliti problemi ne impedirono l'uscita.
Ora finalmente dopo due anni e una completa manipolazione del film partendo sin dalle riprese effettuate nuovamente, One Second non solo esce in Cina , ma con la prossima riapertura dei cinema verrà distribuito anche in Italia oltre che nel resto dell'Occidente.
Cosa abbia condotto un regista che anche in Cina gode ormai di una fama e di una considerazione altissima a doversi cimentare nuovamente con la censura dopo i burrascosi rapporti avuti con essa nei primi anni della sua carriera non risulta chiaro e tale rimarrà la situazione a meno che non esista una director's cut che un giorno potrà far luce su quanto accaduto.



Una cosa però è certa: nonostante le difficoltà causate dalla censura il settantenne Zhang Yimou ci regala un'opera che torna a ripercorrere i sentieri cinematografici dei suoi inizi dopo aver affrontato il wuxia nei suoi vari aspetti, il blockbuster con la coproduzione sino-americana di The Great Wall , il film storico con The Flowers of War; un racconto dalla forte impronta autobiografica che si sviluppa durante la Rivoluzione Culturale e nel quale il regista infonde una grossa dose di nostalgia e di memoria.
One Second  quindi , nonostante tutto, è un film bello, che veicola una serie di riflessioni e di messaggi che non sembrano mai avere ,almeno in questa versione , toni critici verso il regime , proprio perchè l'occhio di Zhang si posa maggiormente sull'importanza della memoria.
La storia racconta di un uomo fuggito da un campo di rieducazione nel Guansu, una delle provincie dove la civiltà cinese è nata , zona lambita dal deserto del Gobi attraverso cui vediamo l'uomo camminare nelle immagini iniziali; lo scopo della sua fuga è quello di potere vedere un filmato di propaganda che precede la proiezioni cinematografiche in cui per un attimo compare la figlia di cui non ha più notizie e che non vede da molto tempo. 
Per tutti altri motivi, ma non certo meno nobili come vedremo, anche una giovane orfana deve recuperare una bobina di un film, per cui tra l'uomo e la ragazzina, assisteremo ad agguati, botte, schiaffi e bastonate in nome di una bobina cinematografica; tutta la parte iniziale si regge su questo inseguimento tra l'uomo e la ragazzina , sulle trappole e sugli agguati che si tendono e sulle assurde bugie che inventano davanti al camionista inebetito che li ha salvati dal deserto.
Finalmente la strana coppia raggiunge il villaggio dove è prevista la prossima proiezione e dove il proiezionista Mr Film, così chiamato, aiutato da tutto il paese deve restaurare in fretta la bobina del cinegiornale di propaganda; quando scopre che l'uomo è fuggito da un campo per rivedere in un fotogramma fuggente la figlia , Mr Film si comporta da vero personaggio retto e generoso: aiuterà il padre ma farà arrestare nello stesso tempo il fuggiasco.
Il finale proiettato nel tempo un paio di anni in avanti, quando il protagonista sarà di nuovo un uomo libero è forse un minimo forzato, ma non manca di sottolineare l'importanza del messaggio del film: può un secondo solo, un attimo del Tempo, essere sufficiente a sanare un dolore enorme? Può un secondo trasformarsi nello scrigno prezioso della memoria?

martedì 13 aprile 2021

Coven of Sisters [aka Akelarre aka Il sabba] ( Pablo Agüero , 2020 )

 




Coven (2020) on IMDb
Giudizio: 8/10

"Non c'è niente di più pericoloso di una donna che balla" viene sentenziato durante il film, ed in effetti il pericolo reale lo corrono le cinque ragazze di un piccolo villaggio costiero dei Paesi Baschi che , essendo assenti gli uomini partiti per mare, ingannano il tempo in una festa dentro il bosco nel quale si lasciano andare a balli e canti gioiosi e tradizionali; peccato per loro che siamo nei primi anni del XVII secolo, epoca in cui l'oscurantismo raggiungeva il massimo della sua grettezza in Europa mediante la caccia alle streghe e ai roghi che ne conseguivano e che un po' dappertutto illuminavano sinistramente ogni angolo del continente.
La corona spagnola, da sempre invisa e sprezzante verso i Paesi Baschi , considerati un covo di gentaglia , invia con mandato inquisitorio il giudice Rostegui a estirpare il demonio e le sue ancelle da quelle terre; per tale motivo le ragazza vengono imprigionate con l'accusa di stregoneria e torturate per estorcere una confessione.



Di fronte alla inutilità di negare il fatto, Ana, la più spigliata delle ragazze del gruppo escogita un piano per tirare il sommario processo alle lunghe contando sul ritorno degli uomini del villaggio dal mare durante la luna piena prossima: vogliono sapere come abbiamo svolto il sabba? bene glielo raccontiamo inventandoci tutto, ammettendo di essere streghe e di avere stretto il laido patto col demonio, catturiamo la loro ipocrita morbosità pruriginosa  e prendiamo tempo, così li avremo in mano fino a quando qualcuno arriverà a liberarci; questo il progetto delle ragazze guidate da Ana, al quale in effetti il giudice, chiaramente attratto dal perverso e dal demoniaco , si presta ormai rapito dal fascino della giovane e ancor più dall'attrazione demoniaca, chiaramente intesa come attrazione sessuale.
Il ballo finale nel bosco che trascina violentemente in un vortice di oscure passioni e di diabolica frenesia e la scena finale sembrano fatti apposta per porre un dubbio che durante tutto il film non si era mai presentato e che potrebbe elevarsi a scintillante coupe de theatre.

domenica 11 aprile 2021

Undine [aka Undine-Un amore per sempre] ( Christian Petzold , 2020 )

 




Undine (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Le Ondine ( o Undine seguendo la terminologia latina) sono personaggi mitologici di cui parla già Parcelso e che popolano le leggende soprattutto nei paesi mittle europei, compaiono in poemi mitologici tra cui il celeberrimo Nibelunghi, in favole e racconti giunti fino ai giorni nostri, furono così chiamate anche le "formidabili" nuotatrici della DDR imbattibili nelle gare acquatiche, le quali però di mitologico avevano poco per spiegare la loro invincibilità; insomma la figura delle Ondine è molto radicata nella cultura popolare europea come una sorta di corrispondente fluviale delle sirene marine.
Intorno a questo mito si muove il film di Christian Petzold dal titolo italiano Undine-Un amore per sempre, con la consueta postilla che serve a spiegare in qualche modo il film stesso.
Undine è una giovane donna, che si occupa di storia dell'urbanistica e che lavora come guida all'interno di un museo che illustra lo sviluppo urbanistico di Berlino attraverso dei giganteschi e bellissimi plastici; prima di iniziare il suo turno di lavoro la vediamo in un confronto col suo fidanzato che vuole mettere fine alla loro relazione; " se  mi lasci lo sai che dovrò ucciderti" gli comunica alla fine della discussione , dopo la quale l'uomo scompare, sebbene Undine fantastichi che sia là seduto al bar ad aspettarla; ma nel più spettacolare e classico chiodo scaccia chiodo che il cinema abbia mai messo in scena, in quello stesso bar e in una situazione quasi grottesca Undine incontra Cristoph e tra l'acqua che cade da un acquario mandato in frantumi tra i due scocca la scintilla.



Cristoph è un subacqueo industriale di quelli che eseguono riparazioni nella profondità di laghi, ed un giorno porta con sè Undine in una immersione per farle vedere il suo nome scritto su antico muro che giace in fondo al lago; qui la donna dimostrerà all'uomo la sua natura acquatica liberandosi di pinne boccaglio e maschera.
Verso il finale la storia assume tinte drammatiche dove l'essenza di Undine viene svelata e il suo sacrificio appare come un ultimo tentativo di salvezza  per il suo amato.
Il film di Petzold è essenzialmente una fiaba contemporanea imbastita intorno al mito dell'Undina e bastano poche battute all'inizio per capire, e non è facile farlo se non si conosce bene l'essenza del mito stesso: se mi lasci ti dovrò uccidere dice infatti la donna al suo fidanzato che la sta lasciando; secondo la mitologia le Undine sono infatti esseri eterei senza anima , quindi senza la capacità di vivere i sentimenti in maniera completa, possono farlo solo se amate da un uomo che le renda quindi più umane; ecco perchè se tradite e abbandonate lanciano la maledizione che immancabilmente si concretizzerà.
Per Undine quindi l'amore è un mezzo per (soprav)vivere, è il legame che la tiene in contatto col mondo fallibile e imperfetto dell'essere umano; in questo il film di Petzold rimanda spesso a quei lavori soprattutto cinesi in cui il tema centrale è l'amore impossibile tra l'uomo e l'essere mitologico, un amore che quasi sempre finisce col travalicare tutto il racconto e attraverso il quale , come una favola morale, si descrive quello che è il sentimento umano che più di ogni altro muove le esistenze.

venerdì 2 aprile 2021

Bad Luck Banging or Loony Porn ( Radu Jude , 2021 )

 




Bad Luck Banging or Loony Porn (2021) on IMDb
Giudizio: 9/10

Un prologo esplosivo in perfetto stile homemade porn, un primo atto in stile documentario voyeuristico tra le strade caotiche di Bucarest a pedinare la protagonista, un secondo atto di pensieri, parole ed immagini, spesso aforismi per fotografare il grado di degenerazione della società rumena ( e , mutatis mutandi, di tutto l’universo europeo e occidentalizzato) , un terzo atto parossistico e sarcasticamente grottesco ed un finale a scelta fra tre possibilità: con questa struttura narrativa originale ed ovvia al tempo stesso Radu Jude, tra i più interessanti autori del vitalissimo e per tanti versi sorprendente  cinema romeno, non solo sbaraglia il campo alla Berlinale aggiudicandosi l’Orso d’Oro per il miglior film, ma costruisce una delle opere più belle , divertenti e tragicamente dissacranti degli ultimi anni.

Il filmino che funge da prologo è il frutto di una fantasia erotica di una insegnante scolastica: la ripresa esplicita dell’atto sessuale con il marito, con tanto di parrucche e di riprese degne del miglior film amatoriale di genere; il filmato però finisce , non si sa come, ben presto in rete e la donna si trova costretta ad affrontare il giudizio dei funzionari della scuola e dei genitori dei ragazzi suoi allievi.




Nel primo atto vediamo la donna muoversi a piedi per le strade di Bucarest , ripresa sempre da una certa distanza, con la telecamera che si posa sulle insegne pubblicitarie che invitano al fitness, alla cura del corpo, al consumismo più sfrenato, ma anche sulle risse verbali nei mercati, per strada, sulla inciviltà degli automobilisti che con macchine gigantesche non si preoccupano minimamente di come esse siano parcheggiate: uno spaccato di una società degradata, racchiusa in se stessa e che , soprattutto, e forse è la prima volta che lo vediamo sul grande schermo, alle prese con la pandemia da Covid-19 che imperversa nel mondo ( le riprese sono dell’estate del 2020). Tutto questo frammento di cinema, che appare più un reportage socio-antropologico-voyeuristico, è girato all’insaputa degli ignavi passanti , alcuni dei quali non si fanno problema a rivolgersi alla macchina con improperi ed insulti; questa è la civiltà odierna, compressa da una pandemia che ne sgretola i contorni e che la porta vicina al punto di rottura: un propedeutico quadro di insieme che fa da sottofondo al racconto e che al tempo stesso è alla base dei comportamenti delle persone.

Il secondo segmento è ancora più raggelante, per molti versi: una carrellata di immagini, a volte senza commento, altre con brevi didascalie , quasi un intervallo stile rai anni 60-70 in cui ce n’è per tutti: fascisti, nazisti, comunisti, post-comunisti, razzisti, complottisti, Ceausescu, Rivoluzione del 1989, storia della Romania, divagazioni su sesso orale, su organi genitali, violenza sulle donne e sui bambini; come si vede tutti aspetti che fanno parte sì della storia recente della Romania, ma che possono facilmente essere trasportati in qualsiasi altra realtà, perché secondo Jude è il mondo intero che ha perso la bussola lasciando una umanità priva di qualsiasi indirizzo.

Unendo la prima sezione e la seconda abbiamo quindi uno spaccato completo su una società che nel terzo si prepara ad imbastire un grottesco processo alla povera insegnante Emi, colpevole di avere avuto un comportamento indecente agli occhi dei ragazzini ma soprattutto dei genitori ipocriti e finto perbenisti.

Ed è proprio con questo terzo capitolo che Radu Jude coagula in maniera magnifica la sua riflessione storico-antropologica, con una ricchezza di dialoghi e di citazioni , sempre in bilico tra il ridicolo e il sarcastico.

giovedì 1 aprile 2021

Collective ( Alexander Nanau , 2019 )

 




Collective (2019) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Candidato a due premi Oscar nelle categorie miglior film in lingua straniera ( per la Romania) e miglior documentario e forte di una trentina di riconoscimenti assegnati da festival e da associazioni di critici cinematografici di ogni angolo del pianeta, Collective del regista Alexander Nanau rischia seriamente di risultare una di quelle opere che segnano una stagione cinematografica, seppur zoppa , monca e disgraziata come è stata quest'ultima pesantemente condizionata dai ben noti problemi derivati dalla pandemia.
Sul perchè Collective abbia riscosso tutto questo successo parleremo poi, perchè la motivazione va cercata probabilmente in settori che almeno in parte esulano dalla semplice valutazione dell'opera e dallo sdegno e dall'emotività che la storia raccontata quasi in presa diretta evoca.
Il documentario, che non fa nulla per sembrare qualche altra cosa che non sia il più classico dei documentari, verte su un fatto di cronaca accaduto a Bucarest nell'ottobre del 2015: l'incendio di un locale , ritrovo di giovani in cui si tenevano dei concerti, che causò la morte di 27 persone, anche a causa delle scarsissime misure di sicurezza riguardanti le uscite; come se non bastasse nei mesi seguenti altre 37 persone tra i feriti ustionati persero la vita prevalentemente negli ospedali di Bucarest.



L'episodio scatenò delle proteste furiose tra la popolazione che portarono ad una crisi politica con le dimissioni del governo, ma quello che un manipolo di cronisti d'assalto ,di un giornale sportivo tra l'altro, scoprirono fu addirittura di portata superiore: la morte dei giovani ricoverati non solo fu favorita dall'atteggiamento delle autorità che millantarono una capacità di far fronte alla situazione clinica degli ustionati pur non essendolo e rifiutando le offerte di aiuto che provenivano da Austria e Germania, ma, ciliegina sulla torta di uno scandalo assurdo e ignobile, la scoperta che i materiali utilizzati per la disinfezione all'interno degli ospedali erano tutti contraffatti e privi di una reale azione antisettica, cosa che favorì la moria per infezioni all'interno degli ospedali.
L'inchiesta dei giornalisti sportivi, riciclati per l'occorrenza a reporter d'assalto dal forte senso civico è quindi il tema del film , raccontato nel suo divenire quasi quotidiano, con i protagonisti che recitano se stessi, con la macchina da presa che immortala ogni momento nell'attimo stesso in cui avviene; una inchiesta quesi "live" con la quale è stato scoperchiato un vaso di Pandora maleodorante fatto di corruzione multistratificata ( nel fattaccio sono coinvolti politici, delinquenti di professione, medici, amministratori), ancora più sconvolgente per il fatto che riguarda la sanità e quindi la salute pubblica.

domenica 28 marzo 2021

Zana ( Antoneta Kastrati , 2019 )

 




Zana (2019) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

L'opera prima della regista kosovara Antoneta Kastrati, presentata al Festival di Toronto, possiede una forte impronta autobiografica, sebbene , come ci tiene a precisare la regista stessa, la storia sia di pura fantasia; ma la regista , allora adolescente, perse nella Guerra del Kossovo sia la madre che la sorella e quindi ben conosce il trauma che sta al centro del racconto di Zana e della sua protagonista Lume.
Ambientato nella campagna kosovara, in un quadro bucolico che ben esprime la forte impronta agricola del paese, le pellicola vede Lume al centro della narrazione: da ormai molti anni ha perso la figlia di quattro anni durante la guerra, le leggi arcaiche del villaggio e della società tradizionale patriarcale impongono alla donna di svolgere come unico ruolo quello di procreare per tramandare la stirpe cosa che a Lume e al marito Ilir non riesce nonostante dal punto di vista medico nulla sembra poter ostacolare la gravidanza. 
Essendo la società kosovara rurale molto legata a misticismi e stregonerie varie Lume viene sottoposta al vaglio di fattucchiere e guaritori vari, ognuno dei quali ha la sua ricetta per risolvere il problema cui la donna pur di assecondare i voleri della suocera e del marito si sottopone, spinta anche dalla subdola minaccia di venire ripudiata.



Nessuno sembra voler comprendere che il malessere di Lume ha radici troppo profonde, una sindrome da stress post traumatico che la attanaglia da troppo tempo e che le fa vivere incubi notturni e visioni orrorifiche sempre legate al trauma della perdita della figlia.
Quando poi , dopo tanto, e da parte di Lume neppure troppo convinto, provarci , la gravidanza si presenta, i disagi della donna , prossima da una nuova maternità diventano ancora più profondi e si sublimano in un finale agghiacciante per molti versi ma ricchissimo di tragica poesia.
In Zana si vede solo un frammento brevissimo, qualche secondo forse, di guerra, ma raramente abbiamo visto un'opera così tragicamente di denuncia dei danni psicologici che un conflitto bellico induce sulle persone, a conferma che per potere trattare il tema della guerra in maniera profonda ed efficace , non servono necessariamente cannonate e bombe; anzi Antoneta Kastrati crea due livelli distinti su cui il racconto si muove: uno superficiale , rassicurante, rappresentato da una campagna bellissima, da animali al pascolo, prati in fiore, anche grazie all'eccellente fotografia della sorella Sevdije Kastrati, una vita tranquilla insomma ed uno più profondo rappresentato in maniera esemplare dal proiettile, residuato bellico, che Lume trova sotto terra, nel quale si muove il territorio oscuro dell'anima della protagonista, ma in effetti di tutte le vittime della guerra e del paese stesso, popolato da fantasmi e da incubi pronti ad accanirsi sulle carni e nella psiche martoriata di chi ha subito il trauma; questi due livelli si alternano , si intersecano e sono osservati attraverso la prospettiva della protagonista , l'unico che la regista sceglie per raccontare una storia che va ad indagare sul senso profondo della maternità sul legame tra madre e figlio e sulle conseguenze della rottura traumatica di questo legame.

sabato 27 marzo 2021

Never Gonna Snow Again [aka Non ci sarà mai più la neve] ( Malgorzata Szumowska , Michal Englert , 2020 )

 




Never Gonna Snow Again (2020) on IMDb
Giudizio: 8/10

C'è un universo freddo e impersonale che vive racchiuso in una cittadella fortificata alla periferia di Varsavia: case tutte uguali, strade pulite, giardini curati, vigilanti all'entrata e ronde a tutte le ore, una grottesca omologazione che ha distrutto quella comunista ma che di fatto è semplicemente l'altra faccia della medaglia, il conformismo borghese e perbenista che anima la ripresa sprint economica di tanta parte dell'ex impero sovietico.
In questo ambiente asettico, percorso solo dalle misere vite dei suoi abitanti, dove tra qualche anno, come in tutta la Polonia, non nevicherà più, quasi un anticipo di una apocalisse, si presenta un giorno Zhenia, un aitante giovane ucraino che viene da un altro angolo dell'ex impero spazzato via, dove però il destino è stato più malvagio: l'uomo infatti è nato nelle vicinanze di Chernobyl e tutto lascia pensare a lui quasi come ad un essere mitologico sorto dalla catastrofe ma che possiede delle doti stupefacenti: non solo conosce tutte le lingue, anche se parla preferibilmente il russo, ma la sue doti di massaggiatore e pranoterapeuta lo rendono indispensabile a molti , quasi tutti , gli abitanti di quell'universo: le sue mani, i suoi massaggi, la sua semplice presenza riesce ad alleggerire il peso della vita alle persone, riesce quasi ad assorbire la negatività che essi racchiudono per trasformarla in benessere ed in positività e , in taluni casi, in forza sensuale ed erotica.



L'uomo che viene da lontano, che nessuno sa bene chi sia , che solo una ragazzina dice di sapere da dove viene, che un giorno, dopo aver stretto intorno a sè un cerchio di persone tutte infelici a modo loro, scompare, così come era arrivato, senza sapere se davvero non ci sarà più la neve, irrompe in quell'universo, metafora di un paese che si racchiude in se stesso ma anche, estrapolando, di una umanità che vive trascinandosi dietro i malanni dello spirito sperando che qualcuno venga magicamente a liberarla, e quasi come una divinità porta nelle case della casalinga annoiata, del malato di cancro e della moglie,  della signora e dei suoi cani umanizzati, del soldato in pensione, della donna alcolista e del ragazzino che produce droghe, tutti esempi di un conformismo che sguazza nelle metafore dei problemi annosi di un paese che ha creato esseri solitari e privi di qualsiasi calore umano ed empatia, la sua capacità di liberare dagli affanni.
Qualcuno ha parlato di una rivisitazione del pasoliniano Terorema di cui però Never Gonna Snow Again condivide forse solo le premesse narrative: qui Zhenia si insedia nella comunità con una finalità salvifica, anche se basata su un surreale imbroglio, diventa una sorta di eroe senza tempo, per metà santo e per l'altra metà mago, forse anche imbroglione ma con l'intento  di curare il fisico e lenire i malesseri dello spirito.

mercoledì 24 marzo 2021

The White Fortress ( Igor Drljaca , 2021 )


 



The White Fortress (2021) on IMDb
Giudizio: 8/10

Faruk è un adolescente di Sarajevo, vive con la nonna da quando la madre , stimata pianista, è morta in giovane età, sbarca il lunario aiutando lo zio rivendendo materiale di scarto e ferraglia varia, cerca di arrotondare facendo lavori loschi al servizio del criminale di quartiere; una vita insomma tutt'altro che rosea che lo mette faccia a faccia con il degrado della società e che gli fa capire che in fondo lui con quell'ambiente da delinquenti da quattro soldi che si credono grandi boss non ha nulla a che vedere, a maggior ragione quando un paio di scelte sbagliate lo portano in frizione col boss.
In un centro commerciale Faruk incontra Mona una studentessa della neo borghesia bosniaca che vive in quelle case nuove in quartieri periferici residenziali che somigliano più a dei fortini che ad abitazioni; la ragazza anche è tutt'altro che soddisfatta della sua vita a contatto con una famiglia che ha progettato per lei l'emigrazione in Canada per andare a studiare , al punto che si vergogna di dire che il padre è un politico in cerca di fortuna alle imminenti elezioni.
L'incontro è per i due un colpo decisivo alla loro vita: cercando di ribellarsi alla divaricazione che lo stato sociale impone e soprattutto di contrastare e ribaltare il destino che sembra scritto per loro, i due ragazzi iniziano una relazione , che porta Faruk ad allontanarsi da quell'ambiente violento e gretto nel quale vede solo la sopraffazione e la miseria ( l'incontro e il rapporto con la giovanissima prostituta Minela è lo specchio nel quale il ragazzo vede riflesso il marcio che percorre i settori marginali della società).



Un finale enigmatico e , per certi versi aperto, girato nei ruderi della bellissima fortezza bianca che sovrasta la città di Sarajevo, carica di un profondo senso di malinconia e di impotenza il film.
Presentato nella sezione Generation della recente Berlinale, The White Fortress ,del regista Igor Drljaca bosniaco di nascita  emigrato in Canada in seguito alla guerre balcaniche, è risultato uno dei lavori più apprezzati nella rassegna berlinese: impostato nella sua parte iniziale come un noir, vira ben presto verso un coming-of-age sui generis, al centro del quale si pongono le figure dei due giovani protagonisti che cercano di ribellarsi al destino che sembra già scritto per loro: la vita ai margini del delinquente o l'emigrazione, che sembrano le uniche due vie percorribili in una società ancora fortemente devastata dalla guerra e che stenta a ergersi a punto di riferimento per gli abitanti del paese.
Ma la pellicola è anche impregnata della tematica del rapporto del regista con la sua città: un grido di dolore, carico di sdegno per una città che era diventata uno dei nodi culturali più vivaci dell'Europa e che ora invece sembra un pachiderma ferito , ancora sventrato e incapace di ripartire, ma anche un grande atto di amore viscerale e di nostalgia dopo la partenza obbligata per salvare la pelle durante la guerra: la scena in cima alla fortezza in cui i due protagonisti citano la Golden Valley sottostante, la storia di Sarajevo , la fierezza della città e dei suoi abitanti è certamente uno dei momenti di massima poesia dell'opera.

martedì 2 marzo 2021

Mother ( Omori Tatsushi , 2020 )

 





Mother (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

E' un film  che lascia strane tracce Mother di Omori Tatsushi: lo si finisce di vedere e quello che più si prova è un misto di delusione , di rabbia e di sconcerto; poi ci si ricorda che il regista è lo stesso di The Ravine of Goodbye e del più recente , meno riuscito seppur interessante , Hikari per collegare almeno idealmente i tre lavori, cercando nelle tematiche che il regista abitualmente utilizza; ed ecco allora che Mother assume tutt'altra prospettiva: l'ossessione che permea sempre i lavori di Omori trova qui il terreno più fertile possibile perchè va a scavare in un rapporto madre-figlio basato sul marcio, sulla sopraffazione, sull'amore tossico e sul nichilismo che porta alla distruzione.
Ispirandosi ad uno dei non rarissimi fatti di cronaca esecrabili e ripugnanti che avvengono in Giappone, Omori ci inquadra sin da subito la storia  cui stiamo per assistere sin dai primi fotogrammi: una madre priva di qualsiasi moralità ed etica ed un figlio che le corre dietro a piedi mentre lei va in bicicletta; il ragazzino ha disertato la scuola perchè preso di mira dai bulli e accompagna la madre dai nonni materni per fiancheggiarla nello squallido tentativo di rimediare soldi dai suoi genitori.
Akiko, infatti, è la più classica delle poche di buono che il cinema ci mostra sovente, sebbene Omori non ci descriva il seppur minimo background personale che non sia un rapporto ormai deteriorato con i famigliari.



Distrutta da interminabili giornate passate a giocare d'azzardo al pachinko, disponibile a qualsiasi rapporto con qualsivoglia poco di buono di passaggio, abituata a mollare il figlio anche per giorni per inseguire qualche truffatore o squattrinato come lei, la donna non sembra curarsi di Shuehi se non in funzione del puro interesse che può trarre dal ragazzino, il quale da parte sua ha ormai l'esistenza segnata da questo legame tossico , totalizzante dal quale non riesce a liberarsi.
Se all'inizio tutto sembra riportare al Koreeda di Nobody Knows, dove comunque una traccia seppur flebile di sguardo poetico esisteva nell'ottica del regista quando posava il suo sguardo sui ragazzini, ben presto Mother intraprende la strada del disagio, della rabbia, del crescere e dell'affermarsi di un rapporto fatto da una parte dall'ossessione della madre per un rapporto di dominazione e di sopruso e dall'altra di plagio e di dipendenza che non riesce però a scalfire l'amore , o forse l'ideale di amore, del figlio; Shuehi in vari momenti del film , che si svolge nell'arco di sei anni, si domanda: " E' sbagliato amare la propria madre?" , domanda retorica  con risposta scontata che non prende in considerazione l'inferno che la donna ha costruito per il figlio , nel quale lo vuole tenere in eterno, frustrando ogni seppur minimo segno di ribellione, rinsaldando anzi in maniera patologica quel legame morboso ed ossessivo fino al gesto finale sconvolgente prova inconfutabile di dipendenza psicologica e non solo.

giovedì 25 febbraio 2021

Summer Blur / 汉南夏日 ( Han Shuai / 韩帅 , 2020 )

 



Giudizio: 8/10

Prodotto da Factory Gate Films e distribuito da Rediance , entrambe etichette garanzia di successo e di qualità,  Summer Blur è l'opera d'esordio nei lungometraggi di Han Shuai, giovane regista cinese che ha avuto la sua prima al Festival di Pingyao  e subito dopo un passaggio a Busan: in entrambi i casi il film ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi; con tale pedigree la pellicola approderà alla imminente Berlinale nella sezione Generation.
Il racconto si impernia su un frammento estivo di vita della tredicenne Guo, figlia di quello che è diventato uno dei fenomeni più pesanti della società cinese contemporanea, cioè l'affidamento dei ragazzini e degli adolescenti a nonni, zii e parenti vari da parte dei genitori per andare a cercare fortuna nelle grandi aree urbane; la protagonista infatti vive a Wuhan insieme ad una zia ben poco affettuosa , uno zio apatico e una cuginetta più piccola che ha la ben poco apprezzabile tendenza a bullizzare Guo, contando sulla protezione della famiglia. 



Il padre non si sa dove sia, la madre vive a Shanghai dove si sta creando una nuova famiglia facendo la spola con gli USA e non sa regalare altro alla figlia che promesse di un lusso e di una ricchezza di cui alla ragazzina interessa ben poco; viceversa, e ce lo spiega la metafora forse ovvia ma significativa dell'aereo, Guo sogna di volare via da quel luogo ed iniziare altrove una vita nuova.
Summer Blur è il racconto di una adolescenza vissuta in solitudine, abbandonata a se stessa, nella quale la protagonista prova  la pesantezza del suo crescere e  maturare e del prendere contatto tangibile con un mondo reale che appare fortemente ostile.
Intorno a lei tutto sembra respingerla: la madre che l'ha mollata ad una zia che mostra ben poco affetto, una cugina antipatica che la maltratta, il destino stesso che le fa toccare con mano sin da giovane il rimorso e il senso di colpa, il ricatto vile da parte del compagno di scuola.
Guo, contando solo su stessa, lotta strenuamente, cerca la forza nella sua triste solitudine di cui sente il peso per l'assenza della figura materna che lei vorrebbe raggiungere per poter vivere assieme a lei, proprio mentre , almeno fisicamente, sta diventando una donna.
E' un film sulla ostilità dell'ambiente capace di avvelenare l'esistenza di una ragazzina, relitto di una famiglia distrutta e costretta a crescere prima del tempo per sopravvivere alla tristezza e al dolore dell'abbandono che diventa sempre più forte a causa del comportamento materno e del vuoto di affetto che la circonda: in tal senso assume contorni veramente agghiaccianti la trasferta a Shanghai con la sola speranza di poter incontrare la madre che invece naturalmente è assente.

martedì 16 febbraio 2021

Preparations to Be Together for an Unknown Period of Time ( Lili Horvat , 2020 )

 




Preparations to be Together for an Unknown Period of Time (2020) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Innamorarsi perdutamente a 40 anni può essere terribilmente pericoloso: è vero amore o ossessiva infatuazione? è un imbroglio o peggio ancora una invenzione pura di una mente border line? è un modo per rimettere in gioco una vita di successo o un mezzo per conoscere finalmente l'abisso che abita in noi stessi?
Su queste premesse sembra strutturarsi la trama, semplice ed esile, ma al tempo stesso intricatissima dal punto di vista puramente narrativo di Preparations to Be Together for a Unknown Period of Time, opera seconda della regista ungherese Lili Horvat.
Marta, apprezzata e brillante neurochirurga nata a Budapest ma trasferitasi da ormai venti anni in America, conosce ad un congresso nel New Jersey Janos un collega ungherese col quale trascorre solo qualche ora sufficienti però a farla cadere in un deliquio amoroso in seguito al quale, molla tutto e ritorna a Budapest per presentarsi ad un appuntamento che i due, chissà con quale reale intenzione, si erano dati ai tempi del congresso dopo qualche tempo in un punto ben preciso della capitale ungherese; Janos non si presenta , Marta lo rintraccia facilmente presso l'ospedale universitario ma lui fa finta di non conoscerla (o non la conosce veramente...? ) lasciandola di stucco e letteralmente senza la terra sotto i piedi.



A questo punto il film prosegue su un duplice binario parallelo: da una parte una lunga confessione psicanalitica di Marta apparentemente resa alla fine della storia con la quale si indaga soprattutto la sua mente e gli eventuali disturbi ( può un desiderio essere talmente grande da far sì che si possa credere di averlo esaudito? è la domanda chiave che sta alla base del viaggio nella mente di Marta); l'altro filone narrativo invece ci mostra la donna intenta a pedinare Janos a cercare di avvicinarsi a lui e di carpire qualsiasi cosa della sua vita, riesce persino a farsi assumere dal suo vecchio mentore all'ospedale universitario senza troppe difficoltà vista la sua preparazione eccelsa( non è molto pertinente, oltre che inutilmente ovvio, il presentare l'ambiente medico di Budapest come una chiavica in confronto a quello americano, ma tant'è, la Horvat in certi passaggi sembra farne quasi un cavallo di battaglia...), ma qui diventa lei stessa oggetto di una attenzione ossessiva da parte di un giovane il cui padre ha operato al cervello salvandolo.
Alla fine tra inseguimenti, sguardi sfuggenti, vere e proprie manovre da stalker i due si incontrano aprendo una fase del film che sembra virare pericolosamente al lieto fine, ma fermiamoci qui.

lunedì 15 febbraio 2021

In the Dusk [aka Sutemose] ( Šarūnas Bartas , 2020 )

 




At Dusk (2019) on IMDb
Giudizio: 7/10

Ambientato all'epoca della resistenza lituana alla sovietizzazione del paese nell'immediato dopoguerra, il film di Šarūnas Bartas non si discosta di molto dallo stile dell'autore che lo ha reso riconoscibile universalmente; è la tematica semmai da aver destato non poche polemiche in patria per la sua lettura ben poco apologetica del movimento partigiano che si opponeva allo smembramento dell'identità lituana attraverso la penetrazione forzata da parte dei  soviet all'interno del paese baltico.
Il racconto del regista , nella prima parte, oscilla tra un gruppo di partigiani, volto scolpito e sguardo perso dall'abbrutimento di una guerra senza speranza, ed una fattoria abitata da un proprietario terriero ,Pliauga con il suo figlio adottivo , Unte e una donna spettrale , la moglie di Pliauga che però da tempo ha abdicato il suo ruolo di coniuge e che vive nel doloroso ricordo e nella sua freddezza glaciale che spaventa.
Unte simpatizza per i partigiani, il padre, in un segmento incentrato su un loro dialogo, filosofeggia sul concetto di verità e su quello di bugia che diventa verità , dando al film un tono da tragedia dostoevskiana; arrivano i soldati sovietici che intendono requisire tutto , ma a parte la fattoria di Pliauga trovano ben poco da razziare prima di accanirsi sui suoi abitanti.



Bartas fa un grosso lavoro di caratterizzazione dei suoi personaggi per far emergere l'altro caposaldo narrativo e non solo del film: il tradimento che fa parte dell'animo umano che avvolge buoni e cattivi e che non lascia vie d'uscita; il tradimento domina all'interno del film permeandolo, nel bosco dove i partigiani , fantasmi che sembrano usciti da un quadro di qualche pittore nordico, sembra che non aspettino altro che la fine o il loro destino, dove il rosario del prete si avvolge intorno al mitra, dove la legge è quella imposta da uno, nella fattoria di Pliauga dove si cerca di insinuare nei poveracci l'idea del tradimento come via d'uscita, nella sede in cui si stabiliscono i soldati sovietici dove gli interrogatori alternano la carota ed il bastone.
Per tutto ciò In the Dusk manca di tutta quella epica bellica dei combattenti, essendo invece più incline a riflettere sull'animo umano e alle sue reazioni quando sembra che non ci sia più via di fuga.
Verità e menzogna, due facce della stessa medaglia , almeno fin quando una bugia può diventare verità , e qui il regista sembra voler riferirsi alle metodologie imperialiste sovietiche basate sulla menzogna istituzionalizzata, ma anche sulle verità di Pliauga che poi sono menzogne , come implicitamente afferma al ragazzo, sempre in quel dialogo che è un po' il cuore pulsante filosofico della storia di Bartas.
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