venerdì 17 novembre 2017

And Then There Was Light [aka Hikari] ( Omori Tatsushi , 2017 )



Giudizio: 7/10

Un lungo prologo apre il racconto di Hikari, ultimo lavoro di Omori Tatsushi, presentato alla Festa del Cinema di Roma: in una piccola isola dell'arcipelago giapponese vivono quelli che sono i tre giovani protagonisti del film, Noboyuki, il più giovane Tasuku che tartassato da un padre violento vede nel primo una sorta di modello e di ancora di salvezza e Mika una giovane piuttosto spigliata di cui Noboyuki è innamorato.
Un ambiente naturale che sembra permeare di una strana e a tratti conturbante spiritualità l'isola ,viene spazzato via una notte dalla violenza di uno tsunami che i tre, salvandosi , vedono arrivare dalla cima di una collina dell'isola.
Venticinque anni dopo i tre hanno intrapreso vie diverse: Noboyuki è sposato , ha un buon lavoro, una donna ( che lo tradisce) e una figlia; Mika è diventata una attrice e Tasuku vive invece nell'indigenza lavorando saltuariamente. Le loro vie si sono insomma separate da un pezzo almeno fino a quando Tasuku, rintraccia i due ricattandoli affinchè lui mantenga sepolto un segreto che li riguarda.


Questo riemergere del passato lontano ha su tutti e tre i personaggi un effetto devastante: il passato, attraverso il legame in alcuni aspetti persino ossessivo, un episodio violento del quali i tre sono stati protagonisti o spettatori diventa un abbraccio mortale di interdipendenza nel quale dovranno muoversi.
Se la Festa del Cinema di Roma non è drammaticamente naufragata sotto il peso di film piatti, convenzionali e moralmente perbenisti e consolatori, il merito va di certo ai due esponenti della cinematografia giapponese ( gli unici provenienti dall'Estremo Oriente) che se non altro hanno buttato sullo schermo della rassegna storie tutt'altro che buoniste, giocando entrambi ( l'altro ricordiamo è il bellissimo Birds Without Names di Shiraishi Kazuya ) su tematiche abbastanza simili: la forza del passato che tende sempre a tornare , i legami interpersonali, la drammatica interdipendenza che questi creano quando si instaurano su persone fragili.

Hikari inizia come un film drammatico, dominato da una natura inquietante, che lentamente ed inesorabilmente scivola verso il thriller con riflessi anche psicologici, trascinandosi dietro una durezza che si evidenzia anche in certi sprazzi violenti; sebbene tutt'altro che lineare, soprattutto per alcune scelte narrative non proprio centrate, il film comunque coinvolge, attraverso un progressivo scivolamento verso dinamiche interpersonali sempre più malsane e violente.
Alcune scelte di Omori non appaiono particolarmente felici: ad esempio il lungo segmento in cui il padre di Tasuku ricompare sembra superfluo riguardo almeno la organicità del racconto, spesso l'impressione è quella che il regista cerchi di contorcere in qualche modo il percorso della storia in maniera forzata, col rischio di appesantirla.
Nonostante ciò però Hikari risulta un buon film: forse un po' ostico, probabilmente anche difficile per certe tematiche squisitamente nipponiche, ma certamente in grado di lasciare una sottile, ma percettibilissima scia di inquietudine; inoltre il regista sembra confermare dopo il bel The Ravine of Goodbye la sua predilezione per le storie anticonvenzionali, ad impronta provocatoria, ammantate di una certa coltre oscura e morbosa che deriva da uno sguardo profondo sui rapporti umani improntati all'ossessione , persino in quelli amorosi, in fondo ai quali giace pesantemente il senso della morte.

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