
Giudizio: 7/10
Oh, Canada di Paul Schrader, col solito sottotitolo italiano che serve da accalappiapubblico, segna un nuovo capitolo nella filmografia del regista, esplorando con intensità i temi della memoria, della colpa e della verità personale. Presentato al Festival di Cannes 2024, il film si distingue per il suo approccio contemplativo e la sua struttura narrativa stratificata, che si snoda tra presente, confinato nell’appartamento del protagonista ormai visibilmente malato terminale, e passato, che ci riporta fino agli anni della gioventù di Leonard, con grande raffinatezza.
Il film segue Leonard Fife (interpretato da Richard Gere), un documentarista di fama che negli anni '60 si rifugiò in Canada per evitare la chiamata alle armi durante la guerra del Vietnam. Ora, affetto da una malattia terminale, accetta di rilasciare un'ultima intervista a una troupe composta da suoi ex studenti di cinema, tra cui Malcolm e Diana .
Quella che doveva essere una sorta di summa agiografica della sua attività si trasforma sin da subito come una confessione, che avviene, per volere del protagonista, alla presenza della moglie Emma anche essa ex allieva , e che diventa il pretesto per un viaggio doloroso attraverso il suo passato, in cui emergono tradimenti, scelte discutibili e un'identità più sfaccettata di quanto la sua immagine pubblica abbia mai lasciato intendere; ecco quindi che emergono delle verità che neppure la moglie conosce, la fuga in Canada non come scelta eroica di protesta contro la guerra in Vietnam, bensì come scelta puramente opportunistica dai contorni patetici, le relazioni avute con altre donne, la presenza di un figlio praticamente disconosciuto, una lunga scia di egoismo e di scaltro (neanche tanto) funambolismo morale.
La narrazione alterna sequenze ambientate nel presente con flashback che rivelano il giovane Fife e ciò comporta anche scelte tecniche diverse a seconda dell’epoca in cui è ambientato il racconto, considerando anche che Schrader non disdegna l’espediente del protagonista che quasi come spettatore assiste al suo passato.
La fotografia distingue chiaramente le due epoche: il presente è caratterizzato da toni più freddi e realistici, mentre il passato assume una qualità più evocativa e sfumata, quasi come se fosse filtrato attraverso la lente della memoria e del rimpianto.
Uno degli aspetti più affascinanti di Oh, Canada è il modo in cui Schrader affronta il contrasto tra la percezione pubblica e la realtà privata di un individuo.
Leonard Fife è stato celebrato come un uomo di principi, un artista impegnato, un simbolo di resistenza, un difensori dei diritti civili. Tuttavia, il film svela progressivamente come molte delle sue scelte siano state dettate non tanto da una convinzione incrollabile, quanto piuttosto da paure personali, molto spesso opportunismo ed egoismo e desiderio di sopravvivenza. Schrader non giudica il suo protagonista, ma lo osserva con uno sguardo lucido e impietoso, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni.
Il film si inserisce perfettamente nella tradizione del "cinema della colpa" di Schrader, che ha spesso esplorato figure tormentate dal proprio passato (First Reformed, The Card Counter, Master Gardener), sebbene quella da espiare per il protagonista è una colpa più di tipo morale. Qui, però, la riflessione si fa ancora più intima e meno legata a un'idea di redenzione religiosa, concentrandosi piuttosto sulla relatività della verità e sulla difficoltà di convivere con le proprie scelte.
Un altro tema centrale è quello della memoria e della narrazione personale. L'intervista che Fife rilascia è un tentativo di riscrivere la propria storia, di raccontarsi per l'ultima volta prima della morte. Ma quanto di ciò che dice è davvero sincero? Quanto è manipolazione o autoassoluzione? Schrader gioca con queste ambiguità, mettendo in discussione il concetto stesso di testimonianza e lasciando che le contraddizioni emergano senza forzare risposte definitive, inserendo di diritto il personaggio di Leonard in quella ormai lunga sua carrellata di personaggi nei quali l’ambiguità è sempre una caratteristica fondamentale.
L'ambiguità morale del protagonista è uno degli elementi più caratteristici del cinema di Schrader e trova qui una delle sue espressioni più profonde. Fife è un uomo che si è sempre visto come una persona giusta, ma che è costretto a confrontarsi con le ombre del proprio passato. Ha davvero agito per ideali o ha solo trovato una scusa per fuggire da una responsabilità scomoda?
La sua ricerca di redenzione non è lineare: più si racconta, più emergono dettagli che rendono difficile stabilire se sia un eroe mancato o un uomo che ha sempre cercato di salvarsi prima degli altri. Schrader costruisce così un protagonista che non è mai completamente positivo né completamente negativo, ma umano nelle sue contraddizioni.
La sua confessione finale, invece di offrire una catarsi, lascia aperti interrogativi profondi sulla natura della sua colpa e sul significato della redenzione, quasi che il tutto sia stato solo un tentativo estremo, sul filo di lana, da parte del protagonista di trovare una sua redenzione , anche fasulla e ipocrita, ma pur sempre sufficiente a farlo morire in apparente pace interiore.
Un altro tema centrale è il ruolo dell'arte come mezzo di costruzione dell'identità. Leonard Fife è un documentarista che ha sempre cercato di raccontare la realtà, ma il film suggerisce che anche il suo stesso lavoro sia stato in parte un atto di finzione, un modo per costruire una versione di sé più accettabile. Schrader mette in discussione il concetto di verità artistica, mostrando come ogni racconto, anche il più sincero, sia inevitabilmente plasmato da chi lo narra.
Richard Gere offre una delle sue interpretazioni più intense e sfumate degli ultimi anni. Il suo Leonard Fife è un uomo spezzato, consapevole del proprio declino fisico e morale, ma ancora dotato di una certa fascinazione intellettuale. Il film gli permette di esplorare un'ampia gamma emotiva, dal cinismo alla vulnerabilità più assoluta.
Jacob Elordi, nel ruolo del giovane Fife, fornisce un'interpretazione solida, sebbene in alcuni momenti appaia meno incisivo rispetto alla controparte più anziana. La sua presenza, però, aiuta a rendere tangibili le discrepanze tra il Fife del passato e quello del presente, evidenziando quanto il tempo e l'autonarrazione abbiano ridefinito la sua figura.
Uma Thurman, nei panni della moglie Emma, aggiunge ulteriore profondità emotiva. Il suo personaggio è un contraltare fondamentale a Fife: rappresenta lo sguardo di chi ha vissuto accanto a lui ( e alle sue menzogne che si svelano ) e ha sopportato le conseguenze delle sue scelte. La sua interpretazione è misurata, ma carica di tensione latente.
Dal punto di vista registico, Schrader mantiene uno stile essenziale ma incisivo. La sua regia si caratterizza per l'uso di inquadrature fisse e statiche, con una composizione dell'immagine sempre studiata per enfatizzare il conflitto interiore dei personaggi. I primi piani sono utilizzati con parsimonia ma con grande efficacia, mettendo in risalto le espressioni degli attori e il peso emotivo delle loro confessioni.
Presentato a Cannes 2024, Oh, Canada ha ricevuto un'accoglienza divisa tra entusiasmo e perplessità. Molti critici hanno elogiato la profondità tematica e la sobrietà dello stile registico, sottolineando come Schrader continui a esplorare con rigore i dilemmi morali e personali dei suoi protagonisti. Tuttavia, alcuni hanno trovato il film meno incisivo rispetto ai suoi lavori precedenti, accusandolo di un eccessivo didascalismo nella gestione della confessione del protagonista, osservazione che non è in effetti priva di qualche fondamento.
Nel panorama cinematografico attuale, Oh, Canada si colloca come un'opera che rifiuta le semplificazioni e richiede un coinvolgimento attivo dello spettatore. In un'epoca in cui il cinema d'autore lotta per trovare spazio tra blockbuster e narrazioni più immediate, Schrader continua a proporre storie che sfidano le convenzioni, dimostrando una coerenza e una lucidità rare nel cinema contemporaneo, nonostante il risultato non sia sempre di alto livello.
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