Giudizio: 7.5/10
C'è voluto un evento unico e drammaticamente globale come la pandemia da Sars-Covid per impedire la rituale prima sulla Croisette per un film di Kawase Naomi, che da anni ormai è stata adottata dalla rassegna francese anche per il costante contributo produttivo che riceve la regista giapponese dai nostri cugini d'oltralpe; è stato quindi il Festival di Toronto prima e quello di San Sebastian subito dopo a fare da palcoscenico per la prima di True Mothers, l'ultimo lavoro della regista nativa di Nara, opera di quasi due ore e mezzo di durata , centrata sui temi della maternità, quella biologica e quella acquisita, e dell'adozione, argomenti che rimandano inevitabilmente alla esperienza personale della regista che fu abbandonata dai genitori in tenera età.
Per affrontare un tema così vasto, così carico di angolature e prospettive e soprattutto così scivoloso, la regista ripiega su una narrazione molto più convenzionale, quasi un racconto lineare, per riservare solo piccoli momenti al suo cinema a volte astratto , altre etereo, sempre comunque raccontato con delicatezza e con grazia, privilegiando la scelta di affrontare da un punto di vista prettamente femminile le tematiche contenute nel film.
Satoko e Kiyokazu sono una coppia che dopo averle tentate tutte, a causa della infertilità di lui, decidono di adottare un bambino, il figlio di una quindicenne i cui genitori non hanno intenzione di far rimanere con la giovane madre.
Il piccolo Asato cresce circondato dall'amore dei genitori che cercano di proteggerlo in ogni modo soprattutto da quella forma di strisciante discriminazione, oltrechè di pura cattiveria, cui i figli adottati a volte vengono sottoposti, come dimostra la scena iniziale dell'incidente scolastico.
Improvvisamente, quando il piccolo ha ormai cinque anni, ricompare dal nulla Hikari la madre biologica , reclamando a sè il figlio o in alternativa il pagamento di una somma per impedire che il ragazzino venga a sapere le sue origini.
Il film vive per larghissima parte su questo dualismo che appare tra l'altro quasi naturale, perchè secondo la regista entrambe le donne possono legittimamente considerarsi madri alla stessa stregua.
Con l'utilizzo di lunghi flashback veniamo a conoscere quindi il modo in cui Hikari rimane incinta , conseguenza del primo rapporto amoroso adolescenziale con un compagno di scuola, la reazione della famiglia e il suo isolamento su un'isola dove sorge una struttura in cui trovano ospitalità le giovani nella sua stessa condizione, per poi ritrovarla in un altro salto temporale qualche tempo dopo quando se ne va di casa e inizia una vita difficile priva di stabilità e fatta di amicizie estemporanee.
Grazie a questo procedere non lineare fatto di balzi temporali si arriva al presente e all'epilogo in cui il confronto tra le due madri è inevitabile, sebbene se un difetto True Mothers possiede è quello di scegliere un finale un po' troppo forzato.
Se come detto la tematica della "doppia madre" e della legittimità del ruolo è quella che possiede la forza maggiore, Kawase, con la grazia e la delicatezza che le sono proprie, porta in primo piano anche il problema delle adozioni e quello delle madri adolescenti per le quali , secondo il pensare comune, il figlio è semplicemente un errore di gioventù che come tale deve essere nascosto, corretto e possibilmente eliminato definitivamente.
Pur immerso in queste tematiche dolorose e pesanti, True Mothers possiede quella luminosità che Kawase Naomi non fa mai mancare nelle sue opere, e se in questo frangente sembra rivolgersi ad una narrazione molto lineare, quasi scolastica seppur con una cifra stilistica di riguardo, non mancano i presagi e i segni della natura, stormire di fronde come fossero canti, rumore del mare, fiori, uccelli, raggi di sole che tagliano l'aria; tutto però visto con quella radiosità che la regista non a caso ci ricorda nel nome della giovane ragazza madre (Hikari -Luce-, a sua volta titolo del suo lavoro del 2017), una sorta di magia luminosa che emana dai personaggi di questa storia riflesso dell'animo umano.
La circolarità del racconto compie la traccia geometrica perfetta, un percorso fatto di dolore e di grazia, di vita e di silenzio, di sguardi e di timori sui quali la luce dello sguardo umanistico di Kawase si posa con leggiadria e con profonda empatia intrisa di pietas e che culmina con un finale che se cinematograficamente può lasciare qualche dubbio, dal punto di vista del percorso personale delle due madri trova la sua pacificazione più naturale.
Convincenti le due madri, ognuna col suo carico di sentimenti, interpretate con bravura da Nagasaku Hiromi ( la madre adottiva) e Makita Aju ( quella naturale) che ben si prestano ad un confronto che è prima di tutto generazionale e poi di ruolo.
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