Il 2018 segna l’anno di svolta nel percorso cinematografico di Koreeda Hirokazu , regista che fino a quella data si era dimostrato come il cineasta che maggiormente richiamava alla mente i grandi autori del cinema classico nipponico; in quell’anno Cannes lo incorona con la Palma d’Oro per Un affare di famigli (Shoplifters) , sdoganandolo da quel ruolo di regista di nicchia molto connotato col suo paese d’origine ma inevitabilmente tagliato fuori dal percorso cinematografico occidentale al di fuori dei festival.
Con i lavori seguenti Koreeda perde progressivamente quella sua magnifica unicità, non perdendo comunque la capacità di costruire un Cinema di altissima qualità e di grande sensibilità, fino a intraprendere, come molti cineasti asiatici negli ultimi anni, la sua sfida con l’occidente e il suo sistema cinematografico: dapprima Le Verità, presentato sempre a Cannes e non poteva essere altrimenti considerato lo sforzo fatto dai transalpini per promuovere e produrre il film, e ora Broker (tralascerei per pudore l’incomprensibile titolo italiano…), girato in Corea del Sud, mostrano un regista che pur cercando di mantenersi fedele a se stesso, affronta la prova del confronto con altri mondi cinematografici, l’Europa da una parte, la Corea dall’altra, forse la cinematografia asiatica più sui generis riguardo al suo sistema generale.
La premessa appare indispensabile, perché costituisce un momento importante per la valutazione e il giudizio dell’ultima opera del regista giapponese, anche perché , tanto per rimanere fedele alle tematiche a lui più care, la storia si occupa di un problema sociale in evoluzione quale quello dell’abbandono dei neonati da parte delle madri.
La storia infatti inizia con l’immagine di una giovane che lascia sui gradini di una chiesa un infante, proprio di fronte ad una baby box, versione moderna della ruota degli esposti utilizzata nel passato per abbandonare i figli indesiderati; una mano più pietosa infilerà il neonato nella scatola al caldo e con la musichetta di una ninna nanna e dall’altra parte due imbroglioni, uno dei quali vestito da prete, si appropriano del bambino: sono infatti due soci che si occupano del traffico di neonati cercando di piazzarli presso famiglie che non hanno figli.
Sin dall’inizio abbiamo davanti i protagonisti di questa storia: Soyoung è la giovane madre che ha deciso di liberarsi del figlio ma che vuole assicurarsi che gli venga trovata una buona sistemazione, Sanghyeon e Dongsoo sono i due compari, Soojin è la mano pietosa che infila il neonato nella box, una poliziotta che è sulle tracce dei trafficanti.
La storia diventa ben presto una variante della caccia in stile guardie e ladri, road movie scalcagnato all’interno del quale si crea una famiglia surrogata e fittizia unita dal comune senso di sconfitta nella vita e carica di un passato duro che ogni tanto torna a galla: la madre snaturata, i due compari imbroglioni ma ricchi di una umanità quasi commovente, la poliziotta che poi tanto nemica e cattiva non è e il marmocchio aggregato di straforo alla comitiva, sembrano in certi momenti usciti fuori da una di quelle commedie all’italiana in stile I soliti ignoti, il tutto perché Koreeda riesce in una impresa mirabolante a ben pensarci, e cioè mettere in piedi una storia su una tematica così dura e pregnante e svilupparla come una commedia agrodolce che spesso strappa un sorriso di compiacimento nel vedere una umanità e una compassione così debordante senza essere stucchevole.
Questa è indubbiamente una delle doti di Koreeda che maggiormente conosciamo: la sua prospettiva in cui al centro c’è sempre spazio per l’infanzia, per la famiglia (quella distrutta e quella fittizia), per i legami che si creano sull’affinità della propria condizione , per lo scollamento della società con la realtà famigliare e per la critica sociale (qui meno accentuata a dire il vero).
Il viaggio a bordo del furgoncino catorcio alterna momenti brillanti a situazioni più intime nelle quali scopriamo progressivamente il passato dei protagonisti, la loro sconfitta continua nella vita, la problematica dell’adozione senza mai però appesantirsi, perché al centro del racconto Koreeda pone sempre l’umanità dei suoi personaggi che appaiono degli emarginati e degli sconfitti ma che però trovano la rivincita nel loro sentirsi una famiglia, nel ricostruire le loro vite anche a costo di dover delinquere perché nel fondo del loro animo semplice c’è una regola morale che indirizza le loro vite e che apre anche alla riflessione sul concetto di abbandono e di salvezza intimamente legata alla nascita e alla vita.
“Grazie per essere nato” sentiamo ripetere a turno dai personaggi in un tenero momento di intimità collettiva , anche quando alla basa delle scelte c’è il rifiuto della maternità e la frase , dal potente valore catartico, unisce i personaggi in un vincolo “famigliare” che si ricostruisce sulle macerie della famiglia tradizionale disintegrata. Per il regista, sin dall’inizio della sua esperienza cinematografica, la famiglia e i legami che la surrogano quando assente o distrutta, sono il nodo cruciale sul quale si sviluppano le riflessioni e di conseguenza le storie raccontate: la famiglia quindi non come una istituzione sociale “de facto” bensì come una comunione di stati di animo e di necessità, di affinità e di legami che travalica il tradizionale concetto di famiglia che anzi, quasi sempre nei lavori di Koreeda è sinonimo di rovina e di dramma.
La costruzione dei personaggi in Broker assume una importanza ancora più grande rispetto a quanto solitamente avviene nei lavori del regista giapponese: solo tratteggiando con la sua consueta bravura personaggi come i due imbroglioni, che lungi dall’incutere disprezzo e biasimo, mostrano il loro lato più umano e semplice, si può creare quel magico legame che li lega allo spettatore.
Nel complesso quindi Broker è un film in cui la mano di un regista bravo, sensibile e dal tratto leggero come Koreeda Hirokazu, è chiaramente presente, quello che invece lo distanzia un po’ dal passato è una maggiore apertura ad un linguaggio cinematografico più universalmente intellegibile, forse meno rigoroso, in lento allontanamento da Nobody Knows e Still Walking, ma ancora carico di una umanità e di uno sguardo delicato: prendiamolo come un processo evolutivo che sta approdando ad un nuovo linguaggio cinematografico che non perde però i suoi capisaldi.
Come abbiamo detto tutta la crew del film è coreana, compresi gli attori, sui quali Koreeda è andato a botta sicura, senza timore di di passi falsi: un monumentale Song Kangho (premiato migliore attore a Cannes) regala una prova che strappa le lacrime per quanto è intensa , bella e ricolma di umanità, Gang Dongwon è un magnifico compare e spalla di Song, Bae Doona , intensa e bravissima, nella parte della poliziotta e Lee Jieun, alias IU, notissima star musicale , che interpreta una madre cui non riusciamo proprio a voler del male nonostante quello che ha fatto.
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