giovedì 1 settembre 2022

Memoria ( Apichatpong Weerasethakul , 2021 )

 




Memoria (2021) on IMDb
Giudizio 8/10


Come tutti i figliocci di Cannes che si rispettino, anche Apichatpong Weerasethakul, ogni anno che si presenta sulla Croisette si porta a casa un premio prestigioso: dopo la Palma d’Oro per Zio Boonmee nel 2010 , nel 2021 bissa il Premio della Giuria già conseguito nel 2004 con Tropical Malady, grazie a Memoria, nuova elegantissima e per molti versi arcana meditazione sull’interconnessione che regola i rapporti del mondo.

L’ultima opera del regista thailandese, di certo uno tra i più enigmatici e per tale motivo più interessanti autori indipendenti contemporanei, si caratterizza anche per esser la prima diretta dal regista al di fuori del suo paese natale, interpretata in inglese e spagnolo ed ambientata in Colombia: tutto ciò però sorprende meno rispetto a tanti autori asiatici che sempre più di frequente negli ultimi anni hanno intrapreso il confronto con cinematografie di altri paesi, sostanzialmente perché Weerasethakul fa della sperimentazione del linguaggio uno dei cardini della sua arte cinematografica ed il porsi di fronte a lingue straniere oltre che a culture differenti sicuramente è stato uno stimolo nel proseguire la sua poetica della sperimentazione intrapresa sin dall’inizio della sua carriera.




La trama di Memoria è esilissima, come sempre nei film del regista thailandese: un donna scozzese trapiantata in Colombia durante un viaggio in visita alla sorella affetta da una strana malattia letargica ( il rimando ai militari di Cemetery of Splendour è fin troppo ovvio) inizia ad essere perseguitata da uno strano rumore simile ad un boato che si presenta in maniera ricorrente; convinta che quel suono nasconda qualcosa, cerca con l’aiuto di un musicista tecnico del suono di riprodurlo sperando di comprenderne l’origine.

Accompagnata da questo suono la donna inizia un onirico viaggio che somiglia sempre più ad una meditazione sulla vita, sulle sue origini, sulle interconnessioni che regolano la vita nel mondo e che la porta ad esperienze sensoriali che solo nel finale , un po’ a sorpresa, e non sappiamo bene quanto “veritiero”, sembrano trovare una parziale giustificazione.

Per chi conosce la cinematografia del regista non avrà problemi a carpire le giuste informazioni seppure in una sinossi così stringata, perché il cinema di Apichatpong Weerasethakul, tutto è tranne che un cinema di “storie” o di “racconti”; la narrazione per il regista è puro orpello, sostituita invece dalla percezione , dalla forma , dall’astrattismo dell’arte, dalla spiritualità che si muove tra il buddhismo e lo sciamanesimo, da un afflato che avvolge lo spettatore e lo trascina in una esperienza come fosse un sogno.

Il sogno è infatti uno dei momenti fondamentali dell’arte cinematografica del regista, il sogno che diventa sonno e viceversa, ed entrambi aprono  la mente e i sensi verso il concetto di armonia universale  nella quale i nostri ricordi riescono a raggiungere l’origine ancestrale di noi stessi come piccole particelle che vivono nell’armonia del mondo.

Nel corso del film , attraverso la figura della protagonista , assistiamo ad una progressiva dissociazione spazio-temporale che si fortifica nella dicotomia tra realtà e immaginazione in costante fluire di una nell’altra.

Inevitabilmente qualcuno potrà domandarsi: “ cosa sono allora quei sinistri boati che svegliano nella notte la protagonista, che si odono in strada, accompagnati da strani fenomeni collaterali (luci che lampeggiano, cani che sembrano conoscere lo stato d’animo della protagonista)?”; naturalmente il regista non ce lo dice, perché fondamentalmente per la sua idea di cinema quei suoni sono solo l’inizio di un viaggio nei propri ricordi , profondamente nella propria mente, fino all’essenza dello spirito prima che esso diventi carne, l’anima che cerca il corpo in cui soggiornare in attesa di nascere.

La Memoria di Weerasethakul è quella con m maiuscola, lo scrigno dei nostri ricordi, anche quelli che ignoriamo, la culla della nostra essenza e del suo rapporto con il mondo che ci circonda come ci ricorda il regista con la tematica legata agli scavi archeologici e ai reperti ritrovati.

Pur immerso in una cultura estranea e girato in una lingua per lui desueta, il regista focalizza subito la grande differenza che contrappone la cultura asiatica dalle altre attraverso il concetto di morte che per noi occidentali è fine della vita senza appello, angosciante e trapasso (eventualmente per chi crede) in una altra forma, mentre per gli asiatici vita e morte sono due fasi della vita stessa , separate da un sottile diaframma; il misticismo evocativo e contemplativo del regista va a coniugarsi in un abbraccio spirituale con il soprannaturale sacro e pagano che permea le culture dell’America Latina.

Girato con la consueta bravura ed eleganza formale, Memoria è opera che idealmente si inserisce in maniera armonica nella cinematografia di Apichatpong Weerasethakul e trova nella sua enigmaticità la vera fonte del fascino che produce ogni film del regista thailandese, perché è chiaro che la sua opera non è solo arte visiva semplice, bensì esperienza spirituale alla quale ci si deve avvicinare con grande forza d’animo, pena il disinteresse totale, la comparsa della noia e di conseguenza il giudizio negativo; è indubbio che Memoria come tutti gli altri film del regista richiede il famoso patto di sangue che deve unire autore e spettatore: farsi troppe domande, banalizzare la storia e non lasciarsi sopraffare da quella deriva onirica  che apre le porte della coscienza, portano inevitabilmente al fallimento dell’incontro con uno degli autori più singolari della cinematografia contemporanea.

Il ruolo di Tilda Swindon nel ruolo della protagonista, va ben oltre quello puramente attoriale: è evidente una simbiosi spirituale tra regista e attrice che va ben oltre la collaborazione , quasi che il viaggio nella memoria sia in primis quello dell’attrice stessa.

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