domenica 2 novembre 2025

Toxic [aka Akiplesa] ( Saule Bliuvaite , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10

La regista lituana Saute Bliuvaite firma con Toxic (titolo originale Akiplesa), opera prima nei lungometraggi, un racconto di formazione atipico, molto al limite che rifiuta il consolatorio e il già visto: è un film che osserva il passaggio all’età adulta come un terreno minato, uno spazio di scelte fragili e di catene relazionali che si radicano nell’assenza. 
La sua forza principale sta proprio nella volontà di mostrare, senza moralismi o soluzioni facili, le derive pericolose che possono assumere percorsi di crescita lasciati al caso o alla cattiva compagnia.
Senza svelare dettagli che rovinerebbero la visione, Toxic segue la formazione di Maria una giovane tredicenne  immersa in un contesto che non offre punti di riferimento stabili: la famiglia è poco presente, la mamma l’ha affidata alla anziana nonna , o inefficace, le istituzioni appaiono tiepide e la rete di pari, pur calda e seducente, si rivela spesso tossica, la ragazza inoltre soffre di una zoppia esito di una malattia infantile che la usa essere bersaglio dei dileggi delle compagne di scuola. Nel cercare una rapida emancipazione Marija si troverà a dovere far fronte a situazioni più grandi di lei , spesso al limite con azioni pericolosissime. 
Il film scandaglia i piccoli gesti, le scelte quotidiane e i momenti di rottura che compongono il passo dall’adolescenza alla vita adulta,  e mostra come, in assenza di sostegno, quei passaggi possano degenerare in meccanismi autodistruttivi.
Bliuvaite spinge il genere verso territori in cui la formazione non è avventura liberatoria ma campo di battaglia. Qui la maturazione non coincide con una progressiva emancipazione ottimista: è ambigua, spesso involutiva. L’originalità del film sta proprio nello smontare il mito della crescita come miglioramento lineare; Toxic preferisce mostrarne aspetti regressivi, ripetuti e contaminanti, più che un percorso di formazione sembra una discesa verso luoghi oscuri e carichi di pericolo.
La famiglia non è solo sfondo, ma una forza negativa per omissione: la mancanza di cura e di guida non è raccontata come semplice dolore privato, ma come elemento strutturante che lascia vuoti pronti a essere occupati da modelli tossici. Bliuvaite mostra quanto l’assenza strutturata produca bisogno  e come quel bisogno venga spesso soddisfatto da relazioni che offrono affetto condizionato e manipolazione.



Il film tratteggia le micro-gerarchie dei coetanei con grande acutezza: l’appartenenza non è mai neutra, è valuta emotiva che può comprare protezione ma anche vendere identità. Qui la «toxicity» è contagio affettivo: atteggiamenti, linguaggi, piccoli rituali che, ripetuti, modellano scelte e limitano la libertà. Bliuvaite si concentra sui gesti ripetuti più che sugli eventi straordinari — ed è proprio nel quotidiano che il film individua il veleno più efficace.
A differenza di molte parabole morali, Toxic non assegna colpe nette: chi soccombe al contesto non è solo vittima né del tutto responsabile. 
La regista mantiene una distanza empatica e insieme lucida: osserva come persone ben intenzionate possano agire male, e come le intenzioni stesse si trasformino in giustificazioni. È una visione psicologicamente ricca, disposta a tollerare contraddizioni etiche senza cercare facile redenzione anche se il finale tutto sommato lascia intravedere una via d’uscita, che è prima di tutto filosofica e sociologica: lasciamo che i ragazzini facciano i ragazzini e non mettiamogli sulle spalle pesi che non sono in grado di sopportare e che spesso li portano alla rovina.
Bliuvaite predilige una progressione a piccoli blocchi: frammenti di vita che, accumulandosi, producono il senso di deriva. L’editing è spesso asciutto,  suggerendo piuttosto che spiegare con dialoghi espliciti. Questo ritmo lento e insistente crea una tensione costante: lo spettatore avverte l’imminenza della crisi prima ancora che si manifesti.
La regia utilizza la luce e l’inquadratura per dare corpo allo stato interiore dei personaggi. Interni freddi o scarsamente illuminati diventano spazi di isolamento; i campi lunghi, invece, restituiscono la piccolezza dell’individuo in ambienti che paiono indifferenti. La macchina da presa è spesso vicina, quasi invasiva, quando la regista vuole mostrare la pressione sociale; si allontana invece per segnare il senso di smarrimento e abbandono.
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