mercoledì 2 novembre 2011

Come rain come shine ( Lee Yoon-ki , 2011 )

Giudizio: 4/10
La pioggia e poco altro

Tipico esempio di lavoro che sembra costruito apposta per dividere critica e pubblico, Come rain come shine del coreano Lee Yoon-ki , autore intorno al quale si intuisce un'aura festivaliera di quelle potenti, vorrebbe essere il racconto di un rapporto interpersonale apparentemente giunto al capolinea tra silenzi, noia e solitudine interiore, una fotografia di un disagio emozionale che sembra risolversi in una inespressività sentimentale.
Tutto ciò, è bene dirlo, è quello che il film vorrebbe essere, una lettura filtrata di quanto scrivono coloro cui il film è piaciuto.
In realtà Come rain come shine risulta essere un esercizio di vacuità assoluta, in cui  vorrebbero insinuarsi refoli di alito rohmeriano iperminimalista col risultato di assistere ad una pellicola che alla fine appare quasi irritante con quel suo giocare sulle emozioni filtrate, sui silenzi e sui gesti quotidiani.

Già l'inizio del film , in cui vediamo i due protagonisti avviarsi in macchina all'aeroporto, si regge su una conversazione di dieci minuti in cui , tra silenzi, mezze parole, monosillabi, scopriamo che lei ha intenzione di lasciare lui, il quale invece progetta di trasferire il suo studio a casa per poter stare più vicino alla moglie.
Dopo di che inizia il diluvio universale , che dura tutto il film , riempiendo i lunghi silenzi con scrosci d'acqua dal forte senso di metafora costruita a fini narrativi: i due sono in casa, lei prepara le sue cose da portare via, lui gironzola intorno nell'attesa che giunga l'ora dell'ultima cena che si sono concessi, lo sguardo quasi inebetito, i modi cortesi quasi a volere ferire lei che se ne va; e poi una scia infinita di particolari riproposti periodicamente: la cenere sul cuscino, il pupazzetto, l'acqua che entra dalle finestre lasciate aperte e che gocciola dal soffitto, ogni tanto qualche parola che vorrebbe portare in superficie ricordi.
Grande picco di vivacità quando entra in scena un gattino che si è perso e al seguito, parossismo estremo, i vicini di casi, padroni del gattino che irrompono in casa e sulla scena.
Finale volutamente ambiguo in cui si ripete che andrà tutto bene ma non si capisce se per il gattino o per i due coniugi.
Come detto, il vuoto che emerge da questo lavoro, non è il risultato di una dinamica interiore e relazionale dei due protagonisti,bensì il risultato di un atteggiamento minimalista forzato e spinto oltre gli eccessi, condito da un formalismo e da una cura per l'immagine tale da far apparire il film spesso e volentieri come un promo di uno studio di architettura uscito da qualche rivista specializzata, uno specchiarsi continuamente in se stesso come a voler dimostrare di saper costruire una storia in cui non avviene nulla e in cui anche le lacrime debbono trovare la giustificazione delle cipolle tagliate.
Saper guardare dentro le persone è esercizio cinematografico difficilissimo che pochi sono in grado di fare con efficacia, così come infarcire il film di silenzi lunghi e di piccoli gesti non significa necessariamente votarsi all'introspezione, soprattutto quando il silenzio è sterile e non una marea montante violenta come ci ha insegnato ad esempio Kim Ki-duk, connazionale del regista.
Il film riesce anche nell'ardua impresa di mutilare i due attori protagonisti, reduci tra l'altro da prove precedenti  in cui avevano mostrato una certa capacità: sia Hyun Bin che Ha Jung-woo sembrano più personaggi capitati lì per caso che protagonisti di una storia che fa acqua da tutte le parti, in tutti i sensi.

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