La tradizione riscoperta nella memoria
Il grande patriarca del cinema coreano, uno tra i più grandi registi viventi giunto al suo 101° film, dopo avere raccontato con occhi poetici e commossi il pansori, prosegue nella sua opera di affermazione della cultura coreana rivolgendo il suo acutissimo occhio narrativo all'Hanji, antichissimo metodo tradizionale di produzione della carta, attività peculiare della Corea e che affonda le sue radici indietro nei secoli.
Se il pansori era il canto dello spirito malinconico, l'Hanji è il trionfo della tradizione e della disciplina manifatturiera, il tramite col quale tramandare nei secoli la memoria; Im Kwon-taek , mostrando la sua consueta grandezza stilistica, costruisce un racconto intorno a questa tradizione centenaria col quale, lungi dal cadere nel formalismo di stampo storico documentaristico, riesce ancora una volta a coniugare perfettamente la memoria e il presente, la Corea di ieri, da riscoprire nei suoi valori, e quella di oggi troppo spesso in preda ad una dilagante spersonalizzazione.
Il racconto si incentra su un funzionario comunale, Pil-Yong che riceve l'incarico di dirigere il restauro di preziosissimi libri che risalgono alla dinastia Joseon, utilizzando appunto la carta prodotta col metodo Hanji.
Per l'uomo è un occasione per progredire nel competitivo ambiente lavorativo e al tempo stesso, nonostante affronti l'incarico non pienamente convinto, diventa una sorta di viaggio introspettivo, alla radice della sua esistenza, segnata dal rimorso per la malattia che ha colpito la moglie in seguito ad un suo tradimento, portando l'infelicità all'interno della famiglia.
Sono vari i filoni narrativi che percorrono il film: il tentativo di Pil-Yong di convincere gli artigiani della carta ad aderire al progetto, nonostante i guadagni siano praticamente nulli, il suo incontro con una documentarista che sembra spingerlo verso un nuovo tradimento, lo sforzo di aiutare la moglie a ritrovare la sua casa natale, dopo che il padre, anche egli artigiano produttore di Hanji, la abbandonò da piccola volando in Giappone e la madre morì subito dopo , l'influsso buddhista che si insinua in tutte le pieghe della pellicola, il crescente convincimento dell'uomo a proseguire nel suo lavoro, quasi fosse una missione, convinto che la riscoperta dei metodi tradizionali di produzione della carta, sia anzitutto un processo di recupero della memoria.
Senza alcun accenno di pedanteria scientifica Im ci racconta , attraverso momenti che sembrano quasi un documentario, le tecniche di fabbricazione della carta e di pari passo procede nel suo percorso narrativo ricco di allegorie e metafore; e quando ogni obiettivo prefissato dal protagonista viene raggiunto , compresa la scoperta che il paese natale della moglie è semplicemente scomparso perchè nella valle è stata costruita una diga, l'armonia narrativa raggiunge vette poetiche che il regista già ci aveva mostrato in numerosi suoi lavori.
Il finale stupendo tra le immacolate cascate dove al chiaro di luna si inizia a produrre la carta Hanji e dove il significato allegorico raggiunge il suo acme, è senz'altro uno dei momenti più alti della poetica di Im Kwon-taek.
Tutto il lavoro è permeato di poesia pura, priva di ogni formalismo, arricchito dalla consueta regia elegante e asciutta ed il suo anelito pedagogico che spinge all'introspezione attraverso la riscoperta delle radici, del valore della famiglia e delle tradizioni si affianca a quello che già il regista narrò con lirismo inarrivato in Seopyeonje e in Beyond the years , in cui era l'antica arte del pansori a fungere da catalizzatore del viaggio a ritroso nella storia della cultura coreana.
Dall'alto della sua poderosa grandezza e della sua inarrivata forza poetica espressa in ormai cento film, Im si conferma uno dei più grandi maestri del Cinema moderno,l'emblema di una cultura profondamente radicata nelle sue tradizioni cui il regista guarda come unico mezzo per la riscoperta di una coscienza individuale e di popolo.
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