Giudizio: 7.5/10
Con The Last Dance, il regista e sceneggiatore Anselm Chan (al suo secondo lungometraggio dietro la macchina da presa) compone una raffinata partitura che intreccia il lutto e il riso, la tradizione rituale e la modernità urbana, la morte e – inevitabilmente – la vita. Un film profondamente radicato nel tessuto sociale e spirituale di Hong Kong, capace di raccontare un tema universale come il distacco dai propri cari attraverso uno sguardo fortemente localizzato e allo stesso tempo accessibile a un pubblico globale, elevandosi inoltre a metafora dello status dell'ex colonia britannica ancora in forte crisi di identità dopo il ritorno alla Cina mainlander
Dominic (interpretato con misura e humour dall'eccellente Dayo Wong, conosciuto soprattutto per i suoi ruoli brillanti) è un wedding planner sulla via del fallimento. Dopo la pandemia, il mercato dei matrimoni è in crisi, e lui si ritrova per necessità ( e in un certo senso anche per fortuna) a gestire un’agenzia funebre cedutagli da uno zio della fidanzata , prossimo alla pensione. È un uomo pragmatico, moderno, sdrucito nei sogni, esattamente l'opposto del suo nuovo partner, Master Ben Man ( interpretato dalla leggenda del cinema brillante dell'epoca d'oro di Hong Kong Michael Hui), un sacerdote taoista, socio del precedente proprietario dell'agenzia funebre, che incarna l’antico sapere, il rigore del rituale, la sacralità dell’aldilà. Tra i due si instaura una tensione che è prima di tutto culturale e simbolica: tradizione contro innovazione, passato contro presente, spiritualità contro economia.
Ma Chan non indugia nella contrapposizione dicotomica di facile presa; il film si costruisce proprio sulla lenta contaminazione tra questi due mondi: da un lato Dominic che pensa che tutto sommato gestire un funerale non è poi tanto diverso da organizzare un matrimonio ( con le inevitabili situazioni grottesche che questa convinzione produrrà) , dall'altro Man che vive il suo ruolo nella rigorosa osservanza dei principi taoisti immutabili da secoli. Non c’è vittoria di uno sull’altro, ma una crescita reciproca. È qui che The Last Dance trova il suo tono originale: non una commedia slapstick, non un dramma metafisico, ma un ibrido curioso, capace di attraversare i registri con intelligenza e sensibilità.
Il titolo originale del film – letteralmente "Rompere l'inferno" – richiama direttamente uno dei riti più affascinanti e complessi della tradizione funebre taoista: il Po Dei Juk , un rituale in cui il sacerdote, armato di una spada cerimoniale al culmine di una danza sfrenata rompe simbolicamente le barriere infernali per liberare le anime erranti dei defunti. È un rituale profondamente teatrale, fatto di maschere, danze, fuoco e musica, e proprio in questo carattere spettacolare Chan trova un parallelo con l’arte scenica del cinema e con la vita stessa.
Il regista filma questi momenti con rispetto antropologico ma anche con consapevolezza estetica: i riti non sono solo testimonianze etnografiche, ma diventano azioni drammatiche che coinvolgono i personaggi e lo spettatore. Non sono semplici “usanze locali”, ma vere e proprie narrazioni incarnate, capaci di dare senso e dignità alla morte, e soprattutto di creare una comunione tra vivi e morti.
Uno dei meriti maggiori del film è la sua capacità di interrogarsi sul ruolo della morte nella società contemporanea, e in particolare nella Hong Kong post-coloniale e post-pandemica. In una città sempre più globalizzata, dove l'efficienza ha soppiantato la riflessione e il culto degli antenati rischia di ridursi a formalità, The Last Dance rivendica la centralità del lutto come pratica viva.
Attraverso il contrasto tra Dominic e Master Ben, Chan ci chiede: come onorare i morti oggi? Come trasmettere un sapere antico ai giovani che ne hanno perso il linguaggio? La risposta non è nostalgica, ma attiva: il film suggerisce che il rito non deve essere abbandonato, ma reinventato, non nel senso di “semplificarlo” o “adattarlo al mercato”, ma nel trovare nuove vie per mantenerne viva la potenza simbolica.
La linea narrativa che coinvolge Yuet (Michelle Wai, pluripremiata per questo ruolo), la figlia di Master Ben, introduce un ulteriore livello tematico. Infermiera che opera sulle ambulanze di soccorso, razionale e concreta, Yuet è cresciuta tra canti rituali e offerte di carta, ma ha scelto di vivere lontana da tutto questo, anche perchè i rigidi principi taoisti vietano alle donne , esseri impuri, di poter presenziare i9n prima persona nel ruolo di sacerdotessa. La sua distanza dal padre è anche una metafora della rottura generazionale oltre che parabola sulla contrapposizione di genere; tuttavia, il riavvicinamento dei due – mediato proprio da Dominic, outsider profano – mostra come il trauma e la cura possano convivere.
Il tema della trasmissione intergenerazionale diventa così uno dei cardini del film: non si tratta solo di passare un’eredità materiale, ma una grammatica del dolore e della consolazione. La danza finale (che dà il titolo al film) non è solo un numero coreografico, ma un atto di riconciliazione, un gesto fisico di continuità.