Giudizio: 7.5/10
Alemania della regista argentina María Zanetti è un esordio che si impone per delicatezza e misura: la storia di Lola, una sedicenne che sogna un semestre di studi in Germania mentre la sua famiglia si trova a fare i conti con i gravi problemi psichici della sorella maggiore, si sviluppa come un racconto di formazione intimista, misurato e spesso riservato. La regia di Zanetti privilegia i dettagli del quotidiano e il lento montare delle tensioni familiari piuttosto che il colpo di scena, costruendo un piccolo universo di frustrazioni, silenzi e desideri di fuga.
Quello che colpisce subito è la natura autobiografica - dichiarata e indagata dalla regista stessa - che informa il film di un tono sempre personale: non è la cronaca sensazionalistica dell’evento patologico, ma la scansione soggettiva di chi cresce in una casa dove la cura di un familiare assorbe tempo, risorse e affetti.
L’ambientazione negli anni Novanta e la scelta di un registro quasi “domestico” contribuiscono a rendere palpabili gli odori e i ritmi di una provincia argentina di classe media, che richiama ambientazioni che sembrano derivare direttamente da certa provincia italiana, fatta di sale d’attesa, di discussioni alla cucina e di promesse di un’Europa libera e distante.
Strutturalmente Alemania si inscrive pienamente nel modello del coming-of-age, ma lo fa per sottrazione. La narrazione non punta su grandi avvenimenti esterni, bensì su piccole scelte che, messe insieme, disegnano il passaggio dall’adolescenza a una prima forma di autonomia.
Zanetti concentra l’azione in un arco di tempo ristretto: come spesso accade nei film di formazione davvero efficaci, è l’intensità delle scene quotidiane (una lite, una partenza sospesa, un esame da recuperare) a costituire la progressione psicologica della protagonista.
Il viaggio programmato — e poi messo in discussione — verso la Germania diventa così metafora: non solo fuga fisica, ma atto simbolico di una volontà di separazione che segna la soglia tra dipendenza e autonomia. L’orizzonte tedesco è, nel film, contemporaneamente promessa di modernità e simbolo di una possibilità di riorientamento personale.
Il tema del disagio psichico è trattato con pudore e responsabilità: Julieta (Miranda de la Serna) non è mai spettacolarizzata: la sua presenza è vissuta principalmente attraverso l’impatto che genera sugli altri personaggi — la fatica dei genitori, la rabbia e il senso di invisibilità di Lola — e non come un oggetto di curiosità. Questa scelta etica di campo evita il sensazionalismo e rinuncia a soluzioni facili: la malattia agisce come una forza economica ed emotiva che ridefinisce i ruoli in famiglia, fa vacillare progetti e produce una doppia frattura — dentro la famiglia e dentro il soggetto adolescente che vuole costruirsi un sé altrove.
La macchina da presa, spesso vicina e discreta, privilegia i piani medi e i silenzi, facendo sentire il peso della quotidianità e la stanchezza che pervade il nucleo familiare; gli approcci sonori e la misura della colonna musicale accompagnano questi momenti senza manipolarli.
Le interpretazioni sono il cuore sensibile dell’opera; Maite Aguilar costruisce una Lola non urlata ma intensa: il suo lavoro attoriale gioca sulla sottrazione, sulla modulazione dei piccoli gesti — lo sguardo che si sposta, un’esitazione, un sorriso che non arriva fino in fondo. Miranda de la Serna offre una presenza complessa e sfaccettata come Julieta; il film trova nella relazione fra le due sorelle il centro emotivo più riuscito. Maria Ucedo, nei panni della madre, rende credibile la stanchezza e il carico di cura senza mai cadere nella caricatura.
Dal punto di vista tecnico, il film mostra una mano sicura seppure non esuberante: la fotografia di Agustín Barrutia e la colonna sonora di Sergio de la Puente contribuiscono a creare quell’atmosfera di sospensione che è la cifra del film.
Il lavoro di art-direction e costumi restituisce con efficacia l’ambientazione novecentesca senza nostalgia né forzature vistose; il montaggio mantiene il racconto asciutto, senza dilatazioni inutili (d’altra parte la durata contenuta aiuta a conservare tensione e coerenza).
Non è un film che cerca l’effetto cromatico o la svolta registico-sperimentale: la scelta stilistica è quella di un’intensità sottile e contenuta, che a volte però può apparire eccessivamente pacata per chi aspettasse espressioni formali più audaci. Alcune recensioni hanno evidenziato proprio questa doppia natura del film: il valore emotivo e la sensibilità della messa in scena da un lato, e l’assenza di soluzioni cinematografiche più “espansive” dall’altro.
In conclusione, Alemania è un’opera prima che convince soprattutto per la sua coerenza di sguardo e per la capacità di raccontare la fragilità con misura e rispetto. Non è un film di grandi ribaltamenti narrativi, ma cresce nella testa e nel cuore dello spettatore grazie a sequenze di verità minima e a un lavoro interpretativo di qualità.
Per chi si interessa di cinema di formazione che non semplifica il tema del disagio mentale e che privilegia l’osservazione del quotidiano come luogo di trasformazione, il film di María Zanetti rappresenta una proposta matura e misurata, un buon punto di partenza per una regista alla ricerca di una voce personale che, già qui, dimostra solide coordinate estetiche e morali che converrà tenere sott'occhio nei prossimi anni.

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