Giudizio: 8/10
Apprezzata documentarista con lo sguardo rivolto al sociale, Alice Diop, francese di origini senegalesi , affronta per la prima volta il cinema di finzione dirigendo Saint Omer, opera che si è conquistata a Venezia sia il premio come miglior debutto alla regia che il Leone d'Argento Premio della Giuria, dando il via ad una lunghissima scia di riconoscimenti provenienti dai quattro angoli del pianeta.
L'opera , per molti versi spigolosa quando non addirittura ostica e respingente, affronta tutta una serie di problematiche universali che se ben assorbite potrebbero stordire chi guarda, nonostante lo stile scelto dalla regista risenta della sua esperienza come documentarista, interessata quindi alla rappresentazione della realtà in maniera obiettiva.
Partendo da un fatto realmente accaduto qualche anno fa che la regista stessa seguì nel suo svolgimento processuale, Saint Omer potrebbe a prima vista rappresentare , anche perchè chiaramente esplicitato nel racconto, una nuova rivisitazione del mito di Medea ( e la citazione pasoliniana con le immagini del capolavoro con Maria Callas stanno a testimoniarlo); ma in effetti lo sguardo della Diop nelle due ore di pellicola si amplia anche ad altre tematiche seppur rimanendo il tema della maternità quello basilare.
La protagonista è una giovane donna di origini senegalesi, nata in Francia , perfettamente inserita nel tessuto lavorativo e sociale, con alle spalle una famiglia di buon livello; insegna all'università ed è al lavoro per scrivere un nuovo libro che ha come spunto un fatto di cronaca avvenuto appunto a Saint Omer, cittadina del nord della Francia nel quale una giovane donna di origini africane anch'essa si è resa protagonista del reato di infanticidio uccidendo la figlioletta di 15 mesi abbandonandola sulla spiaggia durante la bassa marea , per approdare ad una personale rilettura del mito di Medea.
Rama, la protagonista , si trasferisce a Saint Omer per qualche giorno per seguire da vicino il processo, ma ben presto l'interesse di tipo letterario lascia il posto ai mille interrogativi che la figura dell'imputata ed il suo gesto inconcepibile suscitano in lei.
Laurence Coly è una giovane donna, apparentemente ben istruita, dall'eloquio quasi raffinato, la cui storia però mostra enormi problemi irrisolti con la famiglia e con se stessa , a causa di una carriera universitaria naufragata, una vita personale vissuta sempre più nell'ombra, un autoreclusione alimentata da un rapporto amoroso con un uomo ben più vecchio di lei che la tiene comunque ai margini della sua vita ed infine una gravidanza tenuta quasi segreta e una maternità vissuta sempre nell'ombra e culminata nel gesto atroce.
Rama soprattutto si rende conto come il gesto di Laurence , assurdo, inconcepibile, contrario alla natura le ponga però degli interrogativi angoscianti anche sulla sua gravidanza giunta al quarto mese e sul rapporto conflittuale ed irrisolto con una madre a volte dura e con l'assenza di un padre morto giovane: è un po' il perpetuarsi della condizione femminile nella quale ieri eri figlia e oggi sei anche madre, con tutto il carico di emotività e di impegno che ciò comporta.
Nello scrutare l'infanticida alla sbarra, nel suo incrociare lo sguardo, nell'ascoltare il racconto freddo e lacerante di un abominio Rama stabilisce una connessione emotiva che la porta a considerare non tanto il gesto, quanto la vita disperata dell'imputata e a cercarne di capire i motivi , andando oltre gli alibi prodotti da quest'ultima ( la stergoneria) e le accuse del comune pensare ( la follia, le difficoltà culturali, lo strisciante razzismo ideologico).
Alice Diop , ambientando per più di tre quarti della sua durata , il film nell'aula del tribunale dove ognuno (giudice, testimoni, avvocati) gioca il suo ruolo, costruisce un racconto fatto di immagini fisse, di parole e di racconti, quasi di quadri pittorici statici, dai quali emerge , soprattutto nell'arringa difensiva finale dell'avvocato difensore, il forte contrasto tra la follia ( intesa anche come fuoriuscita dagli schemi) e la malattia contrapposti alla colpa e al giudizio e la funzione di autoanalisi che la vicenda ha sulla protagonista riguardo al rapporto con la madre e alla maternità incombente, alla difficoltà di affrontare gli snodi cruciali della vita e alla capacità di saperne far fronte, al carico emotivo che il doppio ruolo di figlia e madre impone ma anche all'aspetto sociale di far parte di una società nella quale bisogna sempre dimostrare di esservi perfettamente aderenti.
Appare quindi chiaro che l'iniziale traino narrativo che doveva essere una rivisitazione in chiave moderna del mito di Meda ben presto si apre a scenari ben più ampi ed universali, con i quali la regista impone un carico cospicuo sullo spettatore che al contempo non può non essere attratto ed inglobato in un racconto dove l'ambiguità, il vero ed il falso riescono a tenere sulla corda la narrazione.
Saint Omer è un film potente che si tinge di tragedia greca e che vuole esplorare l'animo ferito dell'uomo e le difficoltà di saper comprendere i suoi gesti; Alice Diop mostra grande sensibilità nel trattare un tema al quale è chiaro che abbia dedicato molte energie per strutturarlo e lo fa con una regia semplice ma efficacissima, rigettando le facili tematiche (il razzismo becero ad esempio) o il genere processuale, rivolgendosi invece direttamente allo spettatore cui spesso sembra i protagonisti del film si rivolgano direttamente nei loro dialoghi.
Con un finale che per taluni aspetti sembra trovare un senso compiuto al tormento di Rama , ma per altri lascia invece la vicenda in qualche modo aperta, Alice Diop mette la firma in calce ad un'opera che nonostante le spigolosità che mostra, afferma uno stile personale ed una profonda riflessione su alcuni degli angoli oscuri della psiche umana.
Kayije Kagame , espressiva soprattutto nei suoi silenzi e negli sguardi riesce a rappresentare bene il tumulto interiore che scatena il lei la vicenda dell'infanticida, mentre Guslagie Malanda è tanto algida quanto brava nel lasciare scorgere l'abisso che abita nel suo animo.
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