Giudizio: 8/10
April di Dea Kulumbegashvili è un secondo lungometraggio che conferma, con una nettezza quasi spietata, la forza di una regista già pienamente formata: un cinema di inquadrature-architetture, di silenzi carichi e di fuori campo che pesano come colpe collettive.
Presentato in Concorso a Venezia 81, il film ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria cui ha fatto seguito una notevole scia di altri riconoscimenti: una serie di premi che fotografano bene la particolarità di un’opera radicale ma lucidissima, capace di unire forma rigorosa e urgenza etica.
La protagonista è Nina (una intensissima Ia Sukhitashvili), ginecologa in una provincia georgiana. Un neonato muore dopo un parto apparentemente di routine: da quel momento la donna finisce sotto indagine, mentre in paese circola la voce — più o meno sussurrata — che Nina pratichi aborti clandestini. Il racconto non procede per colpi di scena ma per pressioni: indagini, domande insinuanti, corridoi d’ospedale, cucine domestiche dove la medicina diventa gesto di sopravvivenza.
Kulumbegashvili inserisce questa storia in un contesto che non ha bisogno di proclami: in Georgia l’aborto è “tecnicamente” legale entro certi limiti, ma una cultura del silenzio e dello stigma lo rende spesso inaccessibile, spingendo molte donne verso la clandestinità. È la regista stessa a parlarne apertamente, e il film ne restituisce la tensione quotidiana senza trattati didascalici.
Lo stile, già ammirato in Beginning, qui si fa ancora più ascetico e sensoriale: campi fissi, lunghi piani, dialoghi ridotti al necessario, una regia che “trattiene” più che mostrare, lasciando agli spazi il compito di raccontare la paura e l’isolamento. È un cinema che instilla inquietudine in ogni fotogramma, come hanno notato molte letture internazionali: non spettacolarizza, ascolta.
Una delle scene cardine dell’opera — un aborto domestico — è girata in tempo reale e senza elisioni, con una compostezza quasi documentaria che rifiuta la pornografia del dolore: lo sguardo resta fisso, i suoni (respiri, fruscii, piccole frasi) compongono la colonna emotiva. Non c’è catarsi: c’è la responsabilità di chi guarda.
Il fuori campo è la vera arma della regista: dietro le porte dell’ospedale, nelle stanze d’attesa, nei cortili serali si addensa la comunità — i mormorii, i giudizi, la misoginia ordinaria che si traduce in protocolli e verbali. È cinema che crede alla potenza del non visto, alla possibilità che un’inquadratura ferma contenga un mondo di forze invisibili: istituzioni, religione, morale, paura. La fotografia di Arseni Khachaturan, su 35mm, accentua la matericità degli spazi, la grana che sembra scorticare i volti e far affiorare la fatica del vivere.
A incrinare il realismo, facendo quasi approdare al surrealismo, interviene, qua e là, un’immagine perturbante: una figura senza volto, cascante, quasi una creatura che attraversa il film come simulacro della paura (o del senso di colpa) che la comunità proietta sul corpo femminile; un gesto che produce sconcerto e disorientamento, ma , strano a dirsi, sembra quasi coerente col racconto e con l’atmosfera.
Nina non è martire né santa: è una professionista competente, testarda, stremata da un lavoro che la espone e la isola. Il rapporto con l’ex compagno David, coinvolto nell’indagine, e con il primario serve alla regista per mappare un ecosistema maschile capace di compassione a ore e di giudizio a tempo pieno. Sukhitashvili costruisce una presenza scavata e opaca: i suoi silenzi non sono retorici, sono strategie di sopravvivenza.
La forza di April è nell’etica dello sguardo: non esibisce, accompagna. Nel parto iniziale, l’assenza di tagli ci costringe a condividere il tempo dell’evento; nell’aborto in cucina, la macchina da presa rifiuta la morbosità e si affida all’ascolto.
È un cinema che non spiega ma espone, che rifiuta slogan e preferisce mettere il pubblico alla prova. In questo senso April è politico senza diventare pamphlet: fa vedere cosa accade quando il diritto (o la sua apparenza) si scontra con il costume, e quando la cura medica viene criminalizzata dalla paura.
Come in Beginning, la terra — cortili, strade, cucine, corsie — non è sfondo ma personaggio: la Georgia non è mai cartolina, è ecosistema morale e materiale. Kulumbegashvili parla del proprio Paese senza sconti né esotismi, e proprio per questo April parla a tutti. È un film che trova risonanza nel dibattito globale su corpi, diritti, bioetica, ma che resta attaccato ai microgesti di una donna che continua a fare il suo lavoro, nonostante tutto.
La produzione internazionale (tra gli altri, Frenesy di Luca Guadagnino) non addomestica la voce dell’autrice, semmai la amplifica, garantendo un apparato tecnico che rimane discreto e funzionale : Kulumbegashvili affida la drammaturgia soprattutto a silenzio e rumori, in coerenza con un cinema che crede nel potere acustico degli spazi.
April è un’opera esigente e necessaria: non cerca l’adesione emotiva facile né lo scandalo, ma la verità del processo — la pressione sociale, la burocrazia, il pregiudizio che si sedimenta nei gesti. Con il suo secondo film, Kulumbegashvili consolida una voce personale: georgiana fino al midollo e, proprio per questo, universale. Il Premio Speciale della Giuria a Venezia non premia solo un tema “forte”, premia un’idea di cinema come responsabilità: guardare, farci guardare, e resistere.
Nel 2020 con Beginning, Dea Kulumbegashvili aveva già attirato l’attenzione internazionale con un’opera dirompente: la storia di una donna legata a una comunità religiosa di Testimoni di Geova, costretta in una realtà soffocante e intrappolata in un ciclo di violenza e sottomissione. Quel film colpiva per l’uso radicale dei piani fissi e per un’estetica quasi glaciale, capace di trasmettere la rigidità di un mondo oppressivo.


