sabato 25 ottobre 2025

April ( Dea Kulumbegashvili , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

April di Dea Kulumbegashvili è un secondo lungometraggio che conferma, con una nettezza quasi spietata, la forza di una regista già pienamente formata: un cinema di inquadrature-architetture, di silenzi carichi e di fuori campo che pesano come colpe collettive. 
Presentato in Concorso a Venezia 81, il film ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria cui ha fatto seguito una notevole scia di altri riconoscimenti: una serie di premi che fotografano bene la particolarità di un’opera radicale ma lucidissima, capace di unire forma rigorosa e urgenza etica.
La protagonista è Nina (una intensissima Ia Sukhitashvili), ginecologa in una provincia georgiana. Un neonato muore dopo un parto apparentemente di routine: da quel momento la donna finisce sotto indagine, mentre in paese circola la voce — più o meno sussurrata — che Nina pratichi aborti clandestini. Il racconto non procede per colpi di scena ma per pressioni: indagini, domande insinuanti, corridoi d’ospedale, cucine domestiche dove la medicina diventa gesto di sopravvivenza.
Kulumbegashvili inserisce questa storia in un contesto che non ha bisogno di proclami: in Georgia l’aborto è “tecnicamente” legale entro certi limiti, ma una cultura del silenzio e dello stigma lo rende spesso inaccessibile, spingendo molte donne verso la clandestinità. È la regista stessa a parlarne apertamente, e il film ne restituisce la tensione quotidiana senza trattati didascalici.
Lo stile, già ammirato in Beginning, qui si fa ancora più ascetico e sensoriale: campi fissi, lunghi piani, dialoghi ridotti al necessario, una regia che “trattiene” più che mostrare, lasciando agli spazi il compito di raccontare la paura e l’isolamento. È un cinema che instilla inquietudine in ogni fotogramma, come hanno notato molte letture internazionali: non spettacolarizza, ascolta.
Una delle scene cardine dell’opera    un aborto domestico — è girata in tempo reale e senza elisioni, con una compostezza quasi documentaria che rifiuta la pornografia del dolore: lo sguardo resta fisso, i suoni (respiri, fruscii, piccole frasi) compongono la colonna emotiva. Non c’è catarsi: c’è la responsabilità di chi guarda.
Il fuori campo è la vera arma della regista: dietro le porte dell’ospedale, nelle stanze d’attesa, nei cortili serali si addensa la comunità — i mormorii, i giudizi, la misoginia ordinaria che si traduce in protocolli e verbali. È cinema che crede alla potenza del non visto, alla possibilità che un’inquadratura ferma contenga un mondo di forze invisibili: istituzioni, religione, morale, paura. La fotografia di Arseni Khachaturan, su 35mm, accentua la matericità degli spazi, la grana che sembra scorticare i volti e far affiorare la fatica del vivere.
A incrinare il realismo, facendo quasi approdare al surrealismo, interviene, qua e là, un’immagine perturbante: una figura senza volto, cascante, quasi una creatura che attraversa il film come simulacro della paura (o del senso di colpa) che la comunità proietta sul corpo femminile;  un gesto che produce sconcerto e disorientamento, ma , strano a dirsi, sembra quasi coerente col racconto e con l’atmosfera.
Nina non è martire né santa: è una professionista competente, testarda, stremata da un lavoro che la espone e la isola. Il rapporto con l’ex compagno David, coinvolto nell’indagine, e con il primario serve alla regista per mappare un ecosistema maschile capace di compassione a ore e di giudizio a tempo pieno. Sukhitashvili costruisce una presenza scavata e opaca: i suoi silenzi non sono retorici, sono strategie di sopravvivenza.



La forza di April è nell’etica dello sguardo: non esibisce, accompagna. Nel parto iniziale, l’assenza di tagli ci costringe a condividere il tempo dell’evento; nell’aborto in cucina, la macchina da presa rifiuta la morbosità e si affida all’ascolto
È un cinema che non spiega ma espone, che rifiuta slogan e preferisce mettere il pubblico alla prova. In questo senso April è politico senza diventare pamphlet: fa vedere cosa accade quando il diritto (o la sua apparenza) si scontra con il costume, e quando la cura medica viene criminalizzata dalla paura.
Come in Beginning, la terra — cortili, strade, cucine, corsie — non è sfondo ma personaggio: la Georgia non è mai cartolina, è ecosistema morale e materiale. Kulumbegashvili parla del proprio Paese senza sconti né esotismi, e proprio per questo April parla a tutti. È un film che trova risonanza nel dibattito globale su corpi, diritti, bioetica, ma che resta attaccato ai microgesti di una donna che continua a fare il suo lavoro, nonostante tutto.
La produzione internazionale (tra gli altri, Frenesy di Luca Guadagnino) non addomestica la voce dell’autrice, semmai la amplifica, garantendo un apparato tecnico che rimane discreto e funzionale : Kulumbegashvili affida la drammaturgia soprattutto a silenzio e rumori, in coerenza con un cinema che crede nel potere acustico degli spazi.
April è un’opera esigente e necessaria: non cerca l’adesione emotiva facile né lo scandalo, ma la verità del processo — la pressione sociale, la burocrazia, il pregiudizio che si sedimenta nei gesti. Con il suo secondo film, Kulumbegashvili consolida una voce personale: georgiana fino al midollo e, proprio per questo, universale. Il Premio Speciale della Giuria a Venezia non premia solo un tema “forte”, premia un’idea di cinema come responsabilità: guardare, farci guardare, e resistere.
Nel 2020 con Beginning, Dea Kulumbegashvili aveva già attirato l’attenzione internazionale con un’opera dirompente: la storia di una donna legata a una comunità religiosa di Testimoni di Geova, costretta in una realtà soffocante e intrappolata in un ciclo di violenza e sottomissione. Quel film colpiva per l’uso radicale dei piani fissi e per un’estetica quasi glaciale, capace di trasmettere la rigidità di un mondo oppressivo.

giovedì 23 ottobre 2025

Hard Truths [aka Scomode verità] ( Mike Leigh , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10

Hard Truths è un film drammatico del 2024 scritto e diretto da Mike Leigh, che riprende molte delle ossessioni già presenti nella filmografia del regista britannico: il peso del passato, la difficoltà di convivere con verità non dette, la crisi interiore, il fallimento delle relazioni fondamentali. 
Protagonista è Pansy Deacon, interpretata magistralmente da Marianne Jean-Baptiste, una donna depressa, ipocondriaca, incattivita col mondo  che lotta con la vita quotidiana, con i rapporti familiari e con il proprio senso di sé. 
La vicenda si svolge essenzialmente nella Londra contemporanea, in una casa modesta, nei supermercati, nei rapporti interni in famiglia, nei momenti ordinari (anche se molto carichi emotivamente). Pansy vive con il marito Curtley, idraulico, e il figlio adulto Moses, obeso, che sembra chiuso in se stesso in maniera ermetica , passivo. La sorella Chantelle, single con due figlie adulte, è una figura contrastante: cerca di mantenere un equilibrio, di essere di sostegno e di fatto è l’unica che si adopera per cercare di sollevare lo stato della protagonista. 
Il film non ha una trama “a grandi eventi”: è piuttosto uno studio del personaggio, un racconto frammentato di tensioni quotidiane, litigi, passeggiate nell’ignoto della vita affettiva, ricordi e, soprattutto, resistenza a ciò che è inevitabile. La morte della madre di cui corre l’ anniversario e il confronto al cimitero tra le due sorelle  sono i momenti che portano alla superficie conflitti lunghi, segreti, gelosie, paure, innescando dinamiche sopite.
Il ritmo è lento, composto di piccoli scenari, quasi micro-scene, che svelano gradualmente i disagi interiori. Non c’è un “colpo di scena” straordinario; piuttosto, Leigh procede per accumulo di tensione, mostrando come il passato non risolto, le ferite non elaborate agiscano su ogni interazione quotidiana. 
Pansy è una donna che vive con ansia, ipocondria, paura di uscire, disgusto per cose “normali” – fiori, animali – e un costante senso che qualcosa non va. È una vita attraversata da un dolore che non è esplicitato subito, ma che si percepisce nella sua rabbia accumulata pronta ad esplodere in ogni momento, nella sua tensione emotiva. 
Questa condizione mentale la separa non solo da sé stessa (cioè dalla possibilità di vivere una vita meno carica di tensione), ma dagli altri: l’altro principale che la costringe a confrontarsi, sua sorella Chantelle, cerca di essere ponte, sostegno, ma anche questa relazione è fortemente squilibrata. Anche il marito e il figlio vivono di reazioni, di resistenze, e spesso subiscono.



Come in molti film di Leigh, la famiglia è luogo dove si accumulano aspettative non dette, preferenze percepite, ferite infantili che non sono state affrontate. Pansy crede di essere stata trascurata, non considerata, o valutata male, pensa che la madre preferisse Chantelle. Sono idee che possono essere vere, parzialmente vere, ma si mescolano a fantasmi interiori, rimpianti, ansie. 
C’è il dolore per la madre morta, i rapporti interrotti, forse la mancanza di una figura di riferimento, un’elaborazione del lutto che non è stata fatta. Queste “verità sepolte” non sono rivelate in un flashback esplicito, ma traspaiono, contaminano il presente. Leigh costruisce queste verità con precisione, senza retorica, ma lascia che emergano attraverso le azioni, le reazioni, il silenzio. 
Una delle tensioni centrali è il contrasto tra il desiderio di negare, sfuggire, e la forza della realtà, che non può essere ignorata: la morte della madre, la sofferenza interiore, il fatto che gli altri attendono qualcosa da Pansy, la vita quotidiana che preme. Pansy tenta di negare, minimizzare, difendersi, ma la realtà riemerge: il confronto al cimitero, la consapevolezza che la famiglia “la odia” o almeno la teme, la paura che non c’è amore. 
Le relazioni sono imperfette, segnate da incomprensioni. Il marito Curtley è una presenza che cerca di reggere, ma che sembra logorato; il figlio Moses è fragile, sembra non avere ambizioni ma forse ha solo paura, forse non ha mai avuto spazio per emergere; Chantelle è la sorella che prova ad amare, ma anche lei soffre, non sempre sa come agire. L’amore famigliare  è presente, ma è sporco, doloroso, spesso non ricambiato nella misura che ciascun personaggio vorrebbe. 
Una delle caratteristiche più forti del film è che Leigh non concede una soluzione facile né un epilogo consolatorio. Anche quando Pansy sembra esporsi, confessare la paura, nell’incontro col cimitero, nell’ammissione “sono così spaventata”, non c’è una guarigione repentina, né una redenzione netta. Il film lascia aperto lo spazio d’incertezza: la possibilità che le cose restino come sono, o che qualche piccolo cambiamento possa emergere ma gradualmente.
Come accennato, il film è episodico, costruito su micro-scenari che fanno emergere pezzi della personalità di Pansy, dei suoi fantasmi, della tensione con gli altri. Ogni scena ha il valore di svelamento parziale: un litigio, un’uscita, un confronto. Questo tipo di struttura riflette la concezione che Leigh ha dell’esperienza umana: la vita non è fatta di picchi narrativi classici, ma di cumuli di tensioni sotterranee, di abitudini, di dolore che ribolle sotto la superficie. I temi emergono per accumulo, per contrasto, per ripetizione, non per esibizione.
Molti dei temi di Hard Truths sono coerenti con quelli che Leigh ha esplorato in altri suoi  film: il ritratto morale e psicologico del personaggio , spesso in pesante contrasto con se stesso, e ricco di contraddizioni e di fragilità esplosive; la famiglia come nucleo nel quale si celano le memorie, le situazioni non risolte , veri e propri misteri che condizionano le esistenze; l’aspetto politico inteso come rapporto tra individuo e contesto sociale che crea pressioni , anche se in questo lavoro è un aspetto meno incisivo ed infine uno stile in cui realismo, attenzione al dettaglio, tempi dilatati e improvvisazione concorrono a creare una verità relazionale.

domenica 19 ottobre 2025

The Phoenician Scheme [aka La trama fenicia] ( Wes Anderson , 2025 )


 


IMDB

Giudizio: 5/10

Wes Anderson è da anni uno dei registi più riconoscibili del cinema contemporaneo, amato e ignorato in egual misura proprio per quella sua ossessione stilistica che lo rende immediatamente riconoscibile. 
Con The Phoenician Scheme (La trama fenicia), presentato a Cannes nel 2025, Anderson sembra voler compiere un passo diverso, quasi a smentire chi lo accusa di essere prigioniero della propria maniera. L’intenzione, almeno sulla carta, è quella di costruire un film dalla trama più corposa e con un respiro più ampio, capace di affrontare temi di carattere politico ed economico oltre alle consuete dinamiche familiari che popolano il suo cinema. Ma il risultato, a conti fatti, conferma in larga parte le difficoltà di un autore che sembra non riuscire ad abbandonare il suo “marchingegno visivo”, anche quando la storia lo richiederebbe.
La vicenda è ambientata in una Phoenicia immaginaria del dopoguerra, una cornice volutamente indefinita che permette a Anderson di mescolare suggestioni storiche e invenzioni estetiche. Il protagonista è Anatole Korda, interpretato da un magnetico Benicio del Toro, un industriale e mercante d’armi che sopravvive a un attentato e si trova costretto a fare i conti con la propria vita, i suoi affari corrotti e soprattutto con il rapporto interrotto con la figlia Liesl (Mia Threapleton), novizia in convento. 
Attorno a loro si sviluppa una grande operazione economica che coinvolge cartelli finanziari, trame di potere e inganni, mentre sullo sfondo fanno capolino apparizioni ultraterrene, come se l’aldilà fosse pronto a giudicare il peso morale di ciascun personaggio. La presenza, come sempre, di un cast corale – Michael Cera, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, e molti altri – completa il quadro, ma spesso queste figure funzionano più come elementi decorativi che come reali motori narrativi.
Il tentativo di Anderson è chiaro: abbandonare il bozzetto per abbracciare un racconto più ambizioso, quasi epico, che metta insieme la critica al capitalismo sfrenato e un nucleo intimista di riconciliazione familiare. Ma nel passaggio dal progetto alla realizzazione si percepisce lo scarto. 
Il capitalismo viene raccontato attraverso simboli e schermate – cartelli contabili, elenchi, capitoli scanditi da aggiornamenti finanziari – che rendono l’ingiustizia sociale un fenomeno osservabile a distanza, quasi un modellino da esporre sotto vetro. 



Non si sente mai davvero il peso delle conseguenze sui corpi o sulle vite, perché la satira resta elegante e ben confezionata, ma senza graffiare. Il rapporto padre-figlia, che dovrebbe essere il cuore emotivo della pellicola, si affida più alla bravura degli interpreti che a una vera costruzione drammatica: Del Toro incarna alla perfezione l’ambiguità di un uomo diviso tra cinismo e superstizione, mentre Threapleton sorprende per delicatezza e misura, ma il loro legame rimane un concetto più che un’esperienza tangibile.
La struttura del film accentua questa impressione. Divisa in capitoli, punteggiata da inserti che oscillano tra il metafisico e il burocratico, appare come un meccanismo perfettamente, ma altrettanto freddamente, disegnato ma incapace di generare emozione. 
Ogni elemento sembra pensato per rimarcare il controllo assoluto del regista: le simmetrie ossessive, i dolly laterali, i tableau dai colori controllatissimi, la recitazione in sottrazione che sfiora il grottesco. È lo stile andersoniano al massimo della sua purezza, ed è proprio qui che emergono i limiti: invece di sostenere la storia, finisce per soffocarla.
Collocare The Phoenician Scheme nella filmografia di Anderson significa riconoscere sia la sua ambizione sia la sua incapacità di superare davvero sé stesso. 
Nei primi film, da I Tenenbaum a Moonrise Kingdom, lo stile raffinato era sempre al servizio di personaggi feriti e riconoscibili, e le geometrie visive non impedivano alla vulnerabilità di trapelare. Grand Budapest Hotel quella formula si è trasformata in un gioco più compiuto e calligrafico, ma era sorretta da una vena tragica che le dava profondità. 
Negli ultimi lavori, invece, Anderson si è ripiegato su un cinema che parla soprattutto di sé stesso: The French Dispatch come antologia di racconti giornalistici, Asteroid City come riflessione meta-teatrale. The Phoenician Scheme sembra voler reagire a questa autoreferenzialità, scegliendo una trama più ampia, più politica, e cercando di dare sostanza al suo universo. Ma anche qui, il dispositivo stilistico non si apre: ogni volta che la storia potrebbe vibrare, interviene la griglia estetica a ricondurre tutto entro schemi rassicuranti.
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