Giudizio: 5/10
Wes Anderson è da anni uno dei registi più riconoscibili del cinema contemporaneo, amato e ignorato in egual misura proprio per quella sua ossessione stilistica che lo rende immediatamente riconoscibile.
Con The Phoenician Scheme (La trama fenicia), presentato a Cannes nel 2025, Anderson sembra voler compiere un passo diverso, quasi a smentire chi lo accusa di essere prigioniero della propria maniera. L’intenzione, almeno sulla carta, è quella di costruire un film dalla trama più corposa e con un respiro più ampio, capace di affrontare temi di carattere politico ed economico oltre alle consuete dinamiche familiari che popolano il suo cinema. Ma il risultato, a conti fatti, conferma in larga parte le difficoltà di un autore che sembra non riuscire ad abbandonare il suo “marchingegno visivo”, anche quando la storia lo richiederebbe.
La vicenda è ambientata in una Phoenicia immaginaria del dopoguerra, una cornice volutamente indefinita che permette a Anderson di mescolare suggestioni storiche e invenzioni estetiche. Il protagonista è Anatole Korda, interpretato da un magnetico Benicio del Toro, un industriale e mercante d’armi che sopravvive a un attentato e si trova costretto a fare i conti con la propria vita, i suoi affari corrotti e soprattutto con il rapporto interrotto con la figlia Liesl (Mia Threapleton), novizia in convento.
Attorno a loro si sviluppa una grande operazione economica che coinvolge cartelli finanziari, trame di potere e inganni, mentre sullo sfondo fanno capolino apparizioni ultraterrene, come se l’aldilà fosse pronto a giudicare il peso morale di ciascun personaggio. La presenza, come sempre, di un cast corale – Michael Cera, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, e molti altri – completa il quadro, ma spesso queste figure funzionano più come elementi decorativi che come reali motori narrativi.
Il tentativo di Anderson è chiaro: abbandonare il bozzetto per abbracciare un racconto più ambizioso, quasi epico, che metta insieme la critica al capitalismo sfrenato e un nucleo intimista di riconciliazione familiare. Ma nel passaggio dal progetto alla realizzazione si percepisce lo scarto.
Il capitalismo viene raccontato attraverso simboli e schermate – cartelli contabili, elenchi, capitoli scanditi da aggiornamenti finanziari – che rendono l’ingiustizia sociale un fenomeno osservabile a distanza, quasi un modellino da esporre sotto vetro.
Non si sente mai davvero il peso delle conseguenze sui corpi o sulle vite, perché la satira resta elegante e ben confezionata, ma senza graffiare. Il rapporto padre-figlia, che dovrebbe essere il cuore emotivo della pellicola, si affida più alla bravura degli interpreti che a una vera costruzione drammatica: Del Toro incarna alla perfezione l’ambiguità di un uomo diviso tra cinismo e superstizione, mentre Threapleton sorprende per delicatezza e misura, ma il loro legame rimane un concetto più che un’esperienza tangibile.
La struttura del film accentua questa impressione. Divisa in capitoli, punteggiata da inserti che oscillano tra il metafisico e il burocratico, appare come un meccanismo perfettamente, ma altrettanto freddamente, disegnato ma incapace di generare emozione.
Ogni elemento sembra pensato per rimarcare il controllo assoluto del regista: le simmetrie ossessive, i dolly laterali, i tableau dai colori controllatissimi, la recitazione in sottrazione che sfiora il grottesco. È lo stile andersoniano al massimo della sua purezza, ed è proprio qui che emergono i limiti: invece di sostenere la storia, finisce per soffocarla.
Collocare The Phoenician Scheme nella filmografia di Anderson significa riconoscere sia la sua ambizione sia la sua incapacità di superare davvero sé stesso.
Nei primi film, da I Tenenbaum a Moonrise Kingdom, lo stile raffinato era sempre al servizio di personaggi feriti e riconoscibili, e le geometrie visive non impedivano alla vulnerabilità di trapelare. Grand Budapest Hotel quella formula si è trasformata in un gioco più compiuto e calligrafico, ma era sorretta da una vena tragica che le dava profondità.
Negli ultimi lavori, invece, Anderson si è ripiegato su un cinema che parla soprattutto di sé stesso: The French Dispatch come antologia di racconti giornalistici, Asteroid City come riflessione meta-teatrale. The Phoenician Scheme sembra voler reagire a questa autoreferenzialità, scegliendo una trama più ampia, più politica, e cercando di dare sostanza al suo universo. Ma anche qui, il dispositivo stilistico non si apre: ogni volta che la storia potrebbe vibrare, interviene la griglia estetica a ricondurre tutto entro schemi rassicuranti.