domenica 19 ottobre 2025

The Phoenician Scheme [aka La trama fenicia] ( Wes Anderson , 2025 )


 


IMDB

Giudizio: 5/10

Wes Anderson è da anni uno dei registi più riconoscibili del cinema contemporaneo, amato e ignorato in egual misura proprio per quella sua ossessione stilistica che lo rende immediatamente riconoscibile. 
Con The Phoenician Scheme (La trama fenicia), presentato a Cannes nel 2025, Anderson sembra voler compiere un passo diverso, quasi a smentire chi lo accusa di essere prigioniero della propria maniera. L’intenzione, almeno sulla carta, è quella di costruire un film dalla trama più corposa e con un respiro più ampio, capace di affrontare temi di carattere politico ed economico oltre alle consuete dinamiche familiari che popolano il suo cinema. Ma il risultato, a conti fatti, conferma in larga parte le difficoltà di un autore che sembra non riuscire ad abbandonare il suo “marchingegno visivo”, anche quando la storia lo richiederebbe.
La vicenda è ambientata in una Phoenicia immaginaria del dopoguerra, una cornice volutamente indefinita che permette a Anderson di mescolare suggestioni storiche e invenzioni estetiche. Il protagonista è Anatole Korda, interpretato da un magnetico Benicio del Toro, un industriale e mercante d’armi che sopravvive a un attentato e si trova costretto a fare i conti con la propria vita, i suoi affari corrotti e soprattutto con il rapporto interrotto con la figlia Liesl (Mia Threapleton), novizia in convento. 
Attorno a loro si sviluppa una grande operazione economica che coinvolge cartelli finanziari, trame di potere e inganni, mentre sullo sfondo fanno capolino apparizioni ultraterrene, come se l’aldilà fosse pronto a giudicare il peso morale di ciascun personaggio. La presenza, come sempre, di un cast corale – Michael Cera, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, e molti altri – completa il quadro, ma spesso queste figure funzionano più come elementi decorativi che come reali motori narrativi.
Il tentativo di Anderson è chiaro: abbandonare il bozzetto per abbracciare un racconto più ambizioso, quasi epico, che metta insieme la critica al capitalismo sfrenato e un nucleo intimista di riconciliazione familiare. Ma nel passaggio dal progetto alla realizzazione si percepisce lo scarto. 
Il capitalismo viene raccontato attraverso simboli e schermate – cartelli contabili, elenchi, capitoli scanditi da aggiornamenti finanziari – che rendono l’ingiustizia sociale un fenomeno osservabile a distanza, quasi un modellino da esporre sotto vetro. 



Non si sente mai davvero il peso delle conseguenze sui corpi o sulle vite, perché la satira resta elegante e ben confezionata, ma senza graffiare. Il rapporto padre-figlia, che dovrebbe essere il cuore emotivo della pellicola, si affida più alla bravura degli interpreti che a una vera costruzione drammatica: Del Toro incarna alla perfezione l’ambiguità di un uomo diviso tra cinismo e superstizione, mentre Threapleton sorprende per delicatezza e misura, ma il loro legame rimane un concetto più che un’esperienza tangibile.
La struttura del film accentua questa impressione. Divisa in capitoli, punteggiata da inserti che oscillano tra il metafisico e il burocratico, appare come un meccanismo perfettamente, ma altrettanto freddamente, disegnato ma incapace di generare emozione. 
Ogni elemento sembra pensato per rimarcare il controllo assoluto del regista: le simmetrie ossessive, i dolly laterali, i tableau dai colori controllatissimi, la recitazione in sottrazione che sfiora il grottesco. È lo stile andersoniano al massimo della sua purezza, ed è proprio qui che emergono i limiti: invece di sostenere la storia, finisce per soffocarla.
Collocare The Phoenician Scheme nella filmografia di Anderson significa riconoscere sia la sua ambizione sia la sua incapacità di superare davvero sé stesso. 
Nei primi film, da I Tenenbaum a Moonrise Kingdom, lo stile raffinato era sempre al servizio di personaggi feriti e riconoscibili, e le geometrie visive non impedivano alla vulnerabilità di trapelare. Grand Budapest Hotel quella formula si è trasformata in un gioco più compiuto e calligrafico, ma era sorretta da una vena tragica che le dava profondità. 
Negli ultimi lavori, invece, Anderson si è ripiegato su un cinema che parla soprattutto di sé stesso: The French Dispatch come antologia di racconti giornalistici, Asteroid City come riflessione meta-teatrale. The Phoenician Scheme sembra voler reagire a questa autoreferenzialità, scegliendo una trama più ampia, più politica, e cercando di dare sostanza al suo universo. Ma anche qui, il dispositivo stilistico non si apre: ogni volta che la storia potrebbe vibrare, interviene la griglia estetica a ricondurre tutto entro schemi rassicuranti.
Si rimane così in una zona ambigua. Da una parte, il film è sicuramente più ambizioso dei precedenti, e la scelta di affrontare l’oligarchia economica e la corruzione come temi centrali segna un tentativo di scarto. Dall’altra, la promessa non viene mantenuta fino in fondo: la critica al capitalismo si riduce a un’esposizione raffinata, mentre il nucleo emotivo padre-figlia resta un’intuizione appena abbozzata. 
Ne deriva un film che dialoga con l’intera filmografia del regista più come un’autocritica incompiuta che come un vero rinnovamento.
Per chi ama Wes Anderson, The Phoenician Scheme offre nuovi dettagli da osservare, nuove miniature da contemplare, nuove raffinatezze da cogliere. Per chi invece non è mai entrato nel suo universo, il film rischia di confermare le perplessità: un apparato visivo affascinante ma autoreferenziale, una storia che promette molto e mantiene poco, personaggi che restano figure in posa più che esseri umani. 
Quello che rimane, alla fine, sono soprattutto la bella interpretazione di Del Toro, la misura sorprendente di Threapleton, e qualche lampo in cui si intravede un cinema che avrebbe potuto davvero liberarsi dalla sua gabbia estetica. Ma si tratta di sprazzi isolati, più che di un vero cambio di passo.
In definitiva, The Phoenician Scheme è un film che avrebbe potuto segnare una svolta nella carriera di Anderson, e che invece si ferma un passo prima. Un’opera sterilmente sontuosa e raffinata, che affascina nella forma e delude nella sostanza, confermando ancora una volta quanto il regista sembri più interessato alla perfezione del suo universo visivo che alla possibilità di sporcarlo con la vita. Per alcuni è abbastanza, per altri – soprattutto per chi non ha mai amato il suo stile – resta troppo poco.
È un film che promette molto e mantiene meno, una pellicola apparentemente sontuosa che conferma più i limiti che i pregi del suo autore. Per i fan di Anderson sarà un nuovo capitolo da contemplare; per chi non è mai entrato nel suo mondo, resterà la conferma di un cinema autoreferenziale e manieristicamente affascinante nella forma ma terribilmente sterile  nella sostanza, confermando ancora una volta quanto il regista sembri più interessato alla perfezione solipsistica del suo universo visivo che alla possibilità di sporcarlo con la vita.





Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.

Condividi