Giudizio: 6.5/10
Il genere cinematografico rabbia giovanile-disagio-guai trova in May We Chat un personale e solo a tratti riuscito tentativo di modernizzazione e contestualizzazione grazie all'idea di Philip Yung di raccontare una storia per molti versi ovvia e ben poco originale ma che si impone come una indagine sulla generazione-smartphone, quella cioè di post-adolescenziali che usano il telefonino e le tecnologie annesse come un prolungamento sensoriale ed esecutivo corporeo.
La storia si impernia intorno a tre ragazze, che di questa generazione del social imperante sono il tipico esempio, aggiungendo però il carico da novanta nel loro background personale: Wai-Wai vive con la madre tossica e la sorellina, va a scuola quando capita e frequenta teppistelli e delinquenti di mezza tacca; Ying è muta, gira con una parrucca rosa, si prostituisce (via chat ovvio...) e vive con la vecchia nonna che raccatta cartoni in un bassofondo squallido; Yan invece è sì di buona famiglia, ma delusa perennemente negli affetti, trascurata da madre e patrigno e dedita all'uso di droghe.
Le tre si conoscono solo virtualmente tramite WeChat e si considerano amiche pur non sapendo ognuna come sono fatte le altre due.
Quando Yan dopo un tentativo di suicidio andato male sparisce le altre due amiche decidono di mettersi sulle sue tracce, cadendo in pericoloso terreno paludoso dove regnano drogati, patetici boss malavitosi, violenti, stupratori e gentaglia varia.
Partendo da questi presupposti il film ondeggia sempre un po' troppo pericolosamente tra indagine sociale, spesso fatta di troppe ovvietà, e racconto realista infarcito di venature melodrammatiche con al centro sempre il mondo del disagio giovanile acuito dalla freddezza dei rapporti personali basati sulla social-tecnologia.
Philip Yung , inoltre, in un eccesso di citazionismo decide di creare un link con una opera del passato , Lonely Fiftheen del 1982, che ha in comune oltre al tema del disagio giovanile la presenza di Irene Wan, premiata allora come miglior newcomer HKese e Peter Mak, che figurano in entrambi i film; con una acrobazia un po' smaccatamente retorica il legame tra i due lavori sembra voler assolvere quanto succede ai giovani dell'era social perchè anche i genitori non furono esenti da comportamenti asociali e di ribellione: insomma ogni generazione ha i suoi scheletri nell'armadio.
Proprio grazie a questo legame e non solo May We Chat gioca con i piani temporali in maniera piuttosto ardimentosa e confusa avvalendosi in tal senso dello sfumare tra il bianco e nero e il colore per evidenziare le epoche diverse del racconto.
Ma il lavoro di Yung ha anche diversi aspetti positivi: anzitutto è un ormai raro esempio di cinema indipendente, molto sofferente al momento ad Hong Kong, la glaciale vacuità dei diciottenni è ben descritta così come il cambiamento del tessuto sociale dell'ex colonia, ed in tal senso la scelta di privilegiare freaks,emarginati e comunque ambienti squallidi ha il suo valore, i momenti di violenza al limite del disturbante sono efficaci e la storia nel complesso ha un suo senso sebbene , alla fine di tutto, aggiunge poco a quanto già visto e rivisto sul tema.
Infine May We Chat è una bella vetrina per nuovi talenti emergenti: soprattutto Heidi Li è convincente nel ruolo di Wai Wai ed offre la prova migliore, mentre Rainky Wai ( Ying) e Kabby Hui ( Yan) si fanno notare più per i loro freschi corpi esposti con grande naturalezza che per le reali capacità di recitazione , ma sono giovani e sicuramente si faranno.
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