Giudizio: 9.5/10
Vincitore del Premio per la regia all’ultimo Festival di Cannes, doppiando quindi i riconoscimenti ottenuti negli ultimi 18 anni dapprima con Old Boy e quindi con Thirst, inspiegabilmente lasciato fuori dalla cinquina finale degli Oscar, nonostante sia largamente superiore a tutti quelli inseritevi, Decision to Leave , ultima fatica di Park Chanwook ,grazie alla Lucky Red, trova una distribuzione italiana stranamente tempestiva, segnale , forse, che, soprattutto per l’opera di alcune case di distribuzione un po’ più lungimiranti e meno ossessionate dal botteghino, i tempi stiano finalmente cambiando con l’idea che anche cinematografie che storicamente hanno meno penetrazione nel panorama italiano possano finalmente trovare lo spazio che meritano.
L’opera del regista coreano ci consegna una figura di cineasta definitivamente ed inequivocabilmente tra le più grandi del Cinema moderno, un autore che ha saputo percorrere sentieri variegati, a volte addirittura divergenti pur di sperimentare e di consolidare il suo concetto di cinema classico, pur partendo da opere ( si pensi alla Trilogia della vendetta) che sono state al contempo tra le più deflagranti del cinema del nuovo millennio e che hanno creato una scia di ammiratori , al limite del fanatismo, in ogni angolo del mondo.
Ma sul discorso dell’idea di Cinema di Park converrà tornare in seguito, con più attenzione , perché è uno degli argomenti più importanti che emerge da Decision to Leave in particolare, ma dall’opera omnia del regista in generale.
Il racconto del film si snoda intorno alla figura di Haejoon, stimato detective della polizia di Busan, insonne e spesso impegnato in appostamenti notturni, ossessionato dai cold case irrisolti che gli pesano sul collo come macigni, rammentati in maniera macabra da una parete di casa interamente tappezzata di foto di cadaveri di persone che cercano ancora giustizia; il detective ha anche una vita privata, a sua volta molto ordinaria ( la moglie lo accusa di avere bisogno di omicidi su cui indagare per sentirsi vitale), in cui tutto sembra ordinato e piatto ed una moglie che si preoccupa che il loro rapporto comunque non vada in crisi.
Quando si trova ad indagare sulla morte di un uomo dal passato non proprio cristallino avvenuta per una caduta durante una scalata in montagna, Haejoon si convince subito che non si è trattato di incidente, a maggior ragione quando incontra la giovane moglie dell’uomo,Seorae, una cinese immigrata da alcuni anni in Corea, che a suo dire non maneggia ancora a pieno la lingua.
L’incontro è un fulmine a ciel sereno per il detective, anche perché , oltre alla repentina attrazione per la donna , cresce altrettanto rapidamente la convinzione che questa non sia totalmente estranea alla morte del marito.
Da qui parte un racconto che si sviluppa su vari binari, tra i quali emergono quello puramente da thriller procedurale e quello più torbido di una attrazione che si trasforma immancabilmente in una storia d’amore dove disperazione e melodramma si accavallano.
Inutile dire, come hanno fatto tutti, visto che è innegabile , che il punto di partenza di Decision to Leave è il cinema di Alfred Hitchcock, sebbene Park abbia smentito qualsiasi forma di citazione o riferimento; se è vero che la tematica in effetti ha prodotto centinaia di opere cinematografiche, è anche vero che il film di Park nel suo insieme va confrontarsi coi capolavori di stampo antico, quel cinema classico, senza tempo che rimane un archetipo cui pochi possono tendere.
Se il punto di partenza è quindi Hitchcock inteso come modello ancestrale, Decision to Leave regala in alcuni momenti le stesse emozioni del miglior Wong Karwai, quello di In The Mood For Love per intenderci, capace di raccontare come pochi un amore proibito, tribolato, sussurrato quasi con pudore ma al contempo animato da una forza e da una sensualità dirompenti.
La potenza del racconto sta proprio in questo intrecciarsi continuo, fatto di avvicinamenti, di sospetti, di separazioni, di segreti, di fuga e di ritrovamenti che si insinuano nell’inchiesta di Haejoon, combattuto tra il dovere e la forza distruttiva di un amore che può portare all’annientamento (vocabolo sul quale gioca molto uno degli snodi narrativi), al punto che ben presto e fino al sottofinale , sembra quasi non saper rendersi conto se è più importante chiedersi se è lei l’assassina o se lei lo ama veramente, perché Seorae, altra mirabilia del racconto costruita da Park, è sì al primo impatto la classica femme fatale,di quelle che abbindolano poveri uomini rintronati dal loro fascino, ma con un background personale di dolore e di sofferenza che ondeggia tra la figura della profittatrice e quella della persona atterrita dalla solitudine e bisognosa di un vero rapporto amoroso.
Quando un anno dopo il loro primo incontro , le strade si incrociano nuovamente in una città “da dove tutti vogliono scappare perché c’è sempre la nebbia” e nella quale Haejoon si è trasferito per stare vicino alla moglie, si capisce subito uno dei significati del titolo e grazie ad un dialogo magistrale, che siamo di fronte a persone in fuga, a persone che in quella nebbia vogliono nascondersi, per mettere in atto nuovi piani o per curare le ferite dell’anima questo lo scopriremo in seguito.
Insomma Decision to Leave inizia come un thriller dai sapori antichi e termina come una grande storia d’amore, tra le più belle e terribili che il Cinema moderno ricordi che si nutre di un sentimento ridotto all’osso, purissimo, sublimata in un finale maestoso e struggente in cui si stenta a trattenere le lacrime, reso ancora più grandioso da una regia che trova l’apoteosi conclusiva dopo avere disseminato il film di tocchi di classe , di virtuosismi abbacinanti e di una eleganza formale degna di un vero maestro della settima arte.
L’intera opera potrebbe essere acquisita come un manuale di regia cinematografica nella quale i virtuosismi, pur presenti, non sono mai fini a sé stessi e tendono a sottolineare quelle che sono le tematiche di fondo complementari : la difficoltà della comunicazione, il profilo psicologico dei protagonisti, la digitalizzazione( la scena ripetuta varie volte dello sguardo mediato attraverso lo smartphone, come se la prospettiva fosse quella dell’apparecchio è semplicemente geniale), la solitudine, la riflessione sul matrimonio e sulla crisi della coppia, lo schermo sdoppiato, le riprese attraverso le immagine riflesse dagli specchi o attraverso un vetro a mostrare una ambiguità dei personaggi e al tempo stesso una costante ricerca di unione, il tempo che trascorre attraverso il mutare di uno sguardo fisso; insomma Decision to Leave può a giusta ragione considerarsi un compendio di regia di altissimo livello che ha come risultato una eleganza formale viva e non puramente estetica piatta, non un esercizio di stile sterile, nel quale trova spazio un umorismo discreto ma pungente, nonostante a questo si appelli qualche piccola frangia della critica.
Nulla nell’opera di Park è fuori posto, nessun oggetto, nessun particolare, nessuna ripresa; il regista parte della sperimentazione e da una sua visione del linguaggio cinematografico per approdare all’essenza del cinema stesso, nella sua espressione più classica; una sola cosa richiede il film, piccolo impegno a fronte della maestosità dell’opera: una attenzione particolare a tutto, parole, oggetti, gesti e immagini, perché il film è un magnifico ed emozionante puzzle da costruire con passione ed impegno. Alla fine , passati i titoli di coda e smaltita la valanga emotiva, si avrà la irrefrenabile voglia di rivederlo subito.
Decision to Leave si presenta quindi come la degna chiusura di un cerchio , percorso cinematografico personale di Park, iniziato con la Trilogia della Vendetta, passato attraverso esperienze le più varie, compresa la tv e il cinema americano, per approdare alla sublimazione dell’estetica cinematografica con The Handmaiden prima e con questo Decision to Leave poi; lungi dall’accusarlo di aver tradito la sua idea cinematografica non proseguendo sull’onda destruente della Trilogia, evitando così percorsi cinematografici come quelli di Kim Kiduk , ad esempio, incapace di districarsi da ideali, linguaggi e forme delle quali aveva ormai detto tutto e approdando a fallimenti in continuazione, Park dimostra una veduta sconfinata del Cinema e dei suoi ideali e modelli, ponendosi senza alcun dubbio nella ristrettissima cerchia di grandi Maestri del Cinema moderno.
Se Park Haeil è maestoso nella sua interpretazione del detective tormentato, esplicitando in maniera tutt’altro che manieristica le sue ossessioni, i suoi drammi interiori e soprattutto il suo dibattersi tra il dovere (di marito e di poliziotto) e la passione, Tang Wei è semplicemente divina nella sua fragilità che diventa sottile ambiguità che sfocia nel dramma più potente che possa vivere una storia d’amore: “perché io ho iniziato ad amarti nel momento in cui tu hai smesso di amarmi”
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