Giudizio: 8/10
Secondo la leggenda , la città di Napoli fu fondata da una sirena, essere mitologico dalle fattezze per metà umane e per metà da pesce ,di nome Partenope, approdata sull’isolotto di Megaride dopo essersi gettata in mare per la disperazione di non essere riuscita ad ammaliare Ulisse; come tutti i miti , anche quello della sirena Partenope possiede varie versioni che differiscono tra loro, ma questa è di certo quella più consona al film di Paolo Sorrentino.
Il film si apre infatti, siamo negli anni 50, con una donna che partorisce in mare una femmina cui viene dato il nome di Partenope e che sin dall’inizio diventa il polo centrale del racconto, a metà tra la trasfigurazione umana della città e una versione napoletana del Virgilio dantesco, nostra guida nel ventre molle della città, dagli anni 50 appunto fino ai giorni nostri.
Paolo Sorrentino, con Parthenope, sembra ripercorrere l'approccio de La Grande Bellezza in una versione più intima, radicata nella sua Napoli.
Mentre La Grande Bellezza esplorava la decadenza della mondanità romana, Parthenope porta lo sguardo del regista verso un'analisi più profonda e personale, legata all'identità e alla memoria. La città di Napoli non è solo uno sfondo: diventa un personaggio a sé, evocativo, complesso, con le sue contraddizioni, luci e ombre, che rispecchiano l'anima tormentata e insieme vivace del protagonista, il regista stesso, che qui sembra rispecchiarsi nelle sue radici.
Sorrentino si avvicina alla sua città natale con un affetto misto a malinconia, come fosse una madre imperfetta che si ama nonostante le ferite. Napoli, in Parthenope, si offre nelle sue strade strette, negli antichi palazzi e nei volti delle persone che riflettono la bellezza senza tempo, ma anche la fatica e la rassegnazione. È un luogo di memorie perdute e di dolori familiari irrisolti, elementi che rimandano all’esperienza personale del regista, traendo linfa dalla sua storia familiare e dalla perdita prematura dei genitori.
Sorrentino costruisce Parthenope in continuità con lo stile felliniano, autore al quale spesso rimanda, volutamente o no non ci è dato di sapere, ricalcando quelle atmosfere sospese tra sogno e realtà, tra sacro e profano, come già aveva fatto in La Grande Bellezza. Le sequenze barocche e visivamente opulente ricordano il tocco di Fellini, specialmente in film come La Dolce Vita o Roma , dove l’eccesso e il grottesco sono allo stesso tempo una celebrazione e una critica di un mondo in decadenza. In Parthenope, gli eccessi visivi si manifestano attraverso il gusto di Sorrentino per i dettagli stravaganti, le feste surreali e i personaggi sopra le righe, quasi caricaturali, che danno vita a un mondo distorto e fiabesco, specchio della Napoli interiore del regista.
C’ è insomma una impronta felliniana ancor più marcata ed una autoreferenzialità che non appare fastidiosa e anzi tende quasi a creare un legame invisibile con La Grande Bellezza, opera con la quale condivide il gusto romanticamente dissacratorio e sarcastico della visione di Roma e Napoli
A differenza de La Grande Bellezza, però, qui il barocchismo sembra trovare un equilibrio più intimo e personale: la fotografia indugia sulle texture della città, i colori caldi e contrastanti, creando un’esperienza visiva meno patinata e più vissuta.
Il regista gioca con i contrasti tra modernità e antichità, tra il chiasso vitale dei vicoli napoletani e il silenzio carico di memorie delle stanze abitate un tempo dai suoi cari.
Parthenope è sì una versione “napoletana” de La Grande Bellezza, ma con una prospettiva più raccolta e autobiografica. Sorrentino celebra Napoli come un simbolo della memoria e dell'identità, trasformando la città in un teatro dell’anima dove si svolge il dramma umano e personale del protagonista.
In quest’opera, l'omaggio a Fellini non è solo stilistico: Sorrentino sembra rivivere in sé il tema felliniano della ricerca di senso, della fuga e del ritorno, mettendo in scena non solo Napoli ma il suo stesso rapporto irrisolto con essa. Parthenope diventa quindi non solo un film su una città, ma un viaggio interiore nei labirinti dell'esistenza e della memoria, dove Sorrentino, come i protagonisti felliniani, si perde e si ritrova.
Il personaggio di Parthenope nel film assume una funzione mitica e simbolica, Sorrentino utilizza Parthenope come incarnazione dell’essenza napoletana: è una figura ambigua, misteriosa, affascinante e malinconica, proprio come la città.
Parthenope incarna l’ambivalenza di Napoli, sospesa tra bellezza e sofferenza, tra la vitalità dei suoi abitanti e un senso di tragico destino che la accompagna da sempre. Sorrentino sembra costruire questo personaggio come una “musa ferita”: la protagonista è parte madre, parte amante, una guida invisibile e presente, che appare e scompare, animata da un edonismo romantico e illusorio, oggetto di desideri inespressi e al tempo stesso venata da quella malinconia che le deriva dall’essere l’emblema di una città vitale e decadente; attraverso di lei, il regista esplora i temi della nostalgia e della fatalità che permeano la città, rendendo Parthenope una sorta di spirito guida che rappresenta la coscienza del protagonista e della stessa Napoli.
La figura di Parthenope, come impersonificazione della città, porta con sé il mistero delle acque e la sensualità, ma anche un destino tragico. È una sirena che canta e incanta, ma anche una figura che porta il peso delle generazioni, dei ricordi, delle sofferenze passate.
Sorrentino la tratteggia come un personaggio poetico e sfuggente, attraverso il quale si esprime quella tensione tra bellezza e dolore, tra il desiderio di fuggire e la necessità di restare, che caratterizza chi è legato a Napoli e che Sorrentino aveva lasciato già in sospeso nel suo lavoro precedente E’ stata la mano di Dio, con cui quest’ultimo lavoro ha molto più in comune di quanto possa emergere al primo impatto.
E’ proprio nel viaggio dentro Napoli, la sue contraddizioni, i suoi lati oscuri, il suo sottobosco , la sua sacralità e il suo paganesimo, quasi un animismo sacro , che Paolo Sorrentino disegna i momenti più belli del film, soprattutto dal punto di vista formale e stilistico: e se è vero che gran parte di questi momenti, probabilmente tutti, si radicano profondamente nei più classici e stantii luoghi comuni su Napoli e i napoletani ( grandiosa la scena dello sproloquio della star in declino che si atteggia a Sophia Loren magnificamente interpretata da una Luisa Ranieri quasi irriconoscibile), la bravura di Sorrentino nel dipingere dei quadri vividissimi degni di un artista sospeso tra il barocco ed il futurismo mettono in secondo piano l’aspetto del calcare la mano su ovvietà e luoghi comuni scontati.
Legato a quanto appena detto e sua diretta conseguenza, va data la giusta importanza ai dialoghi iperbolici e ridondanti ai quali il regista si affida : come ne La Grande Bellezza, anche qui Sorrentino si affida a dialoghi incisivi, spesso poetici e surreali, che diventano la voce della Napoli esagerata e teatrale. Ogni battuta, spesso cesellata con una precisione quasi letteraria, evoca un mondo di significati che supera il mero contenuto: sono frasi lapidarie, a volte ironiche, che incarnano la saggezza popolare e la vivacità dei napoletani. Questi dialoghi contribuiscono a trasmettere l’essenza teatrale di Napoli, una città in cui ogni parola può racchiudere un universo di storie, di sofferenze e di esperienze.
La religiosità napoletana viene rappresentata da Sorrentino come un intreccio inseparabile tra fede e superstizione. Napoli è una città devota ma anche fatalista, in cui il sacro convive con il profano: le edicole votive agli angoli delle strade, le processioni, il culto dei santi (come San Gennaro) convivono con riti antichi, simboli e amuleti. Sorrentino cattura questa dimensione, mostrando come la religiosità sia, per molti napoletani, una forma di resistenza alla durezza della vita quotidiana, un modo per trovare speranza o almeno un rifugio in un destino che spesso appare segnato.
Per rendere incisiva la sua riflessione sulla religiosità napoletana, attraverso la devozione per San Gennaro, Sorrentino giunge persino al limite ( forse anche oltre) della blasfemia, così come nel quadro rappresentativo della camorra oltrepassa la realtà calandosi in una divagazione quasi onirica che immagino farà storcere il naso a molti spettatori , vuoi per i nudi e gli atti sessuali, vuoi per l’aura di nero misticismo che aleggia intorno ai personaggi.
Ma che il regista napoletano avesse intenzione di calcare la mano lo si capisce dall’inizio , dove sul palcoscenico della narrazione salgono personaggi che richiamano l’armatore Achille Lauro, la già citata aspirante Sophia Loren, una conturbante donna velata resa sfregiata dalle plastiche facciali, un disperato intellettuale macerato dall’amore non corrisposto, un rapporto che sfiora l’incesto tra Parthenope ed il fragilissimo fratello; tutte situazioni che hanno proprio nell’eccesso, nel pletorico e nel ridondante le loro caratteristiche più salienti.
Parthenope insomma a tratti appare più come un insieme di quadri, alcuni dei quali magnifici e geniali, ma che hanno poca organicità non riuscendo a costruire sempre una continuità narrativa; nonostante questo che potrebbe apparire come un difetto non indifferente, il film di Sorrentino ha il suo valore proprio in quelli che paradossalmente appaiono come le pecche principali; anche il ruolo della protagonista a volte risulta sfuggente, poco inserito nel contesto della storia, sebbene appare chiaro il tentativo del regista di fare di lei il collante di tutto ciò che vediamo e che possiamo far risalire all’essenza della città.
Il finale trasportato ai giorni nostri sembra un po’ attaccato per la coda anche perché lascia molte cose inespresse a parte una: il ruolo catartico , e ne avevamo avuto già alcune prove, che il Napoli calcio, fresco campione d’Italia nell’anno in cui termina il film, ha su Paolo Sorrentino e sulla sua città.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.