giovedì 20 ottobre 2011

11 Flowers ( Wang Xiao-shuai , 2011 )

Giudizio: 8/10
I ricordi e il dramma di un popolo

L'ultimo lavoro di Wang Xiao-shuai, esponente di punta della Sesta Generazione dei cineasti cinesi, è stato presentato in anteprima nazionale alla 12° edizione di Asiatica a Roma, alla presenza dell'autore stesso, dopo aver raccolto riconoscimenti e plauso sia al Festival di Toronto che a quello di San Sebastian.
Per stessa ammissione del regista è questo il suo lavoro con la più forte impronta autobiografica tra quelli fin qui da lui diretti, al punto che in larghi tratti la storia raccontata si sovrappone totalmente a quella personale del regista.
Dopo un paio di digressioni nell'epoca contemporanea, Wang ritorna sulle tematiche che erano la spina dorsale di Shanghai Dreams, ambientando il suo lavoro nelle stesse regioni e nella stessa epoca storica.

Le lancette della storia si posizionano in questo caso nell'ultimo anno della Rivoluzione Culturale, a metà degli anni 70, in quel sudovest della Cina divenuto, a partire da quindici anni prima , il cuore pulsante della produzione industriale cinese, grazie allo spostamento forzato di fabbriche, lavoratori e famiglie in una zona più facilmente difendibile in caso di invasione sovietica, ipotesi bellica che toglieva il sonno alla classe dirigente cinese, Mao in testa.
Il racconto, come è consuetudine nei lavori di Wang , si incentra sulle vicende di un ragazzino undicenne e della sua famiglia, andando ad esplorare un mondo piccolo, intimo , ma fortemente caratterizzato dalla Storia in cui le vicende personali si incastonano a costituire una proiezione ideale di un universo più grande.
E' una storia di dolorosa formazione, una iniziazione alla vita, vista con gli occhi di un ragazzino e inevitabilmente venata di un senso di nostalgia che però, soprattutto nel finale, non tiene celato il senso di tragedia che accompagna quel periodo storico con famiglie praticamente deportate, duramente sottomesse alla legge del lavoro, annichilite nelle loro aspirazioni, strappate alle loro radici e desiderose di tornare nei propri luoghi di origine.
Non a caso il piccolo Wang Han viene avviato alla pittura dal padre, amante della musica e delle arti,ma per necessità operaio in fabbrica, che cerca di strapparlo ai giochi cercando di instillare un senso artistico e culturale che possa in qualche modo renderlo libero almeno nella mente.
La scena in cui , alla luce di una candela, il padre mostra delle stampe impressioniste al figlio, tenute come cimeli proibiti, e spiega , metafora splendida, come guardare da vicino e apprezzare la luce in un quadro e nella vita, è senz'altro la più bella ed emozionante del film e sta lì ad indicare la strada del cinema di Wang: l'osservazione della realtà in ogni sua piccola piega come forza generatrice di quella curiosità che deve spingere l'animo umano in ogni sua attività.
Wang Han passa le sue giornate giocando coi coetanei, cantando canzoni popolari nazionalistiche sotto gigantografie del Grande Timoniere, frequentando la scuola dove si afferma come il ginnasta più bravo, osservando la vita dei grandi, iniziando a provare le prime pulsioni che lo attraggono verso l'altro sesso, desiderando una nuova camicia da indossare a scuola e incappando in un assassino che gli ruba la camicia imbrattandola di sangue.
Questo incontro sembra svelare al ragazzino un altro mondo nascosto dietro ai giochi, un mondo di sopraffazione, di sofferenze e di senso di rivalsa, che si concretizza nell'omicidio effettuato dal giovane che gli ruba la camicia, omicidio commesso per salvare l'onore della famiglia.
Dietro questo fatto che caratterizza il film si affacciano problematiche politiche e sociali che la Rivoluzione Culturale portò tragicamente a galla, fino all'epilogo, per molti aspetti simili a quello di Shanghai Dreams in cui l'altoparlante che accompagna i carcerati alla fucilazione snocciola impietoso i nomi e i reati commessi, accompagnato dalla folla in processione, ansiosa di assistere alla fucilazione come si trattasse di una festa patronale. Ma qui, sulle ultimissime e splendide sequenze, si consuma il processo di formazione del ragazzo: la presa di coscienza che anche a 11 anni la vita non è necessariamente un gioco.
Il film , e non poteva essere diversamente, è pervaso di una genuina sincerità che si estrinseca nell'occhio del regista che scruta con grande precisione un mondo piccolo, fatto di gesti quotidiani, uno scorrere lento, fortemente venato di quella nostalgia che accompagna i ricordi della fanciullezza, soverchiato però , come un macigno insopportabile, da una realtà storica drammatica, senza però mai cadere nella trappola della facile denuncia fine a se stessa.
Parlare di neorealismo anche in questo lavoro di Wang è forse eccessivo, perchè quello che emerge con più prepotenza è lo sguardo carico di ricordi rivissuti alla luce di un percorso storico e personale che ha segnato in maniera indelebile l'esistenza di numerose persone, ed il regista non manca di offrire questa chiave di lettura, dedicando il suo lavoro a tutti coloro che quell'epoca e quegli eventi vissero sotto il peso della tragedia personale che diventa tragedia di un intero popolo. 


Pubblicata anche su AsianWorld.it



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