Dietro la maschera da wrestler
Dopo avere esordito due anni prima con la black comedy The quiet family, Kim Ji-woon si conferma con questa sua opera seconda, facendo ampiamente capire di che pasta fosse fatto e di quale grande talento cinematografico possedesse, tutti ampiamente confermati nei lavori che seguirono negli anni.
Come anche nella sua opera prima Kim sceglie la commedia venata di grottesco , sotto la cui coltre si apprezza una venatura drammatica e uno sguardo sarcastico sulla società coreana, per raccontare una storia che diverte , strappa sorrisi, spesso amari,nella quale si cela una delle metafore più utilizzate nel mondo della celluloide: il trasformismo inteso come liberazione e valvola di sfogo delle frustrazioni personali.
La storia è quella di Dae-ho, impiegato vessato sul lavoro da un capo tirannico che si diverte ad umiliarlo con prese da wresting al collo da cui non sa liberarsi, anche il padre lo tratta come un bamboccione mostrando scarsissima considerazione di lui.
Dal canto suo Dae-ho, grande appassionato di wrestling, fa poco o nulla per abbattere questo clichè dietro al quale si nasconde, fino a quando , quasi per caso, si imbatte in una scuola di wrestling scalcinata, diretta da un ex lottatore.
E' l'occasione per crearsi una esistenza quasi parallela e nascosta, dove sicuramente si trova più a suo agio e che lo porta sempre più spesso a confondere i due livelli di vita.
Nascosto dietro ad una maschera, campione di imbrogli e trucchi, crede di avere trovato la sua vera collocazione nella vita, ma scindere realtà e immaginazione si dimostrerà più che arduo.
La scelta del wrestling, sport-spettacolo in cui tutto è finto e artificioso a partire dalla sua identità culturale così lontana da quella coreana, farebbe pensare a The foul king quasi come ad un antesignano del famoso The Wrestler di Aronofski: di fatto quest'ultimo è la faccia seria e drammatica di una stessa idea:l'emarginazione curata con l'appartenenza ad un mondo artificiale in cui però le ferite ed il sangue sono vere.
Ma Kim Ji-woon va a scrutare gli aspetto tipici della civiltà coreana: la competitività, l'emarginazione per chi non si adegua ai ritmi, il rigido formalismo, l'ipocrisia perbenista da cui fugge il protagonista del film e che trova la sua naturale valvola di scarico in una colossale finzione.
Come nel precedente The quiet family il regista è bravissimo a tenere sempre toni da commedia , colorati con ironia e sarcasmo, ma nel contempo ad ergersi a spietato censore di taluni aspetti sociali coreani: nel film non mancano scene di combattimento, spesso comiche, così come non viene meno uno sguardo quasi pietoso sul protagonista in fuga dalla realtà grigia e opprimente.
La dicotomia vita reale-vita artificiosa si stende su tutta la storia facendo spesso perdere di vista i confini, ma il risultato è un film divertente, bello, diretto benissimo, che possiede un bel ritmo e che offre momenti di cinema al limite del demenziale sempre contenuto però nei confini del buon gusto e che mai scivola nel volgare.
La scena finale, che nasce come un duello stile spaghetti western, è geniale nella sua disarmante semplicità e funge da epilogo di un film in fondo al quale , a ben leggere, si nasconde una certa ineluttabilità, quasi come quella che attanaglia tanti eroi del cinema orientale.
Song Kang-ho, qui già al suo settimo lavoro, il secondo con Kim Ji-woon, è semplicemente straordinario, anche nella sua fisicità, non affidandosi mai a stun man, neppure nelle scene più acrobatiche e soprattutto manifesta in maniera clamorosa le sue doti da istrione che hanno fatto di lui uno degli attori più bravi del cinema contemporaneo.
Film irresistibile ma con Kim Ji Woon si va sempre sul sicuro!
RispondiEliminaa conferma che Kim è regista veramente versatile che sa maneggiare con bravura ogni tipo di genere.
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