Giudizio: 8.5/10
Con Do Not Expect Too Much from the End of the World, Radu Jude confeziona un'opera che unisce sarcasmo tagliente, riflessione sociale e sperimentazione narrativa, offrendo un affresco tanto ironico quanto inquietante della Romania contemporanea e del suo rapporto ambiguo con l'Occidente.
Il film, diviso idealmente tra passato e presente, riesce a mettere in dialogo due epoche attraverso un racconto che si muove tra il tragico e il grottesco, confermando Jude come uno dei registi più originali del panorama attuale dirigendo un’opera che ha molti punti in comune con l’osannato Sesso sfortunato o follie porno sia dal punto di vista narrativo che da quello delle tematiche discusse.
Al centro del film troviamo Angela ( una eccellente Ilinca Manolache ), un'assistente di produzione freelance che trascorre le sue giornate guidando freneticamente per Bucarest alla ricerca di lavoratori infortunati per un video aziendale commissionato da una multinazionale per una campagna rivolta alla sicurezza sul lavoro; nei momenti di pausa la protagonista da voce e volto sommariamente truccato da software su Tim Tok al suo alter ego Bobita un esaltato che sproloquia in perfetto stile trash da social.
Per gran parte del segmento iniziale la sua figura è messa in parallelo con quella di un'altra Angela, protagonista del film rumeno Angela Moves On (1981) di Lucian Bratu. Quest'ultimo racconta le vicende di una tassista nella Romania comunista, creando un parallelo efficace tra le due epoche.
Il confronto tra le Angela – la tassista di ieri e l'assistente stressata di oggi – rappresenta una riflessione potente sull'evoluzione della società rumena: se l'Angela degli anni '80 navigava in un sistema rigido e prevedibile, quella contemporanea è immersa in un mondo frammentato e alienante, dove il capitalismo ha sostituito il controllo centralizzato, ma non ha alleviato il peso dell'oppressione.
La sovrapposizione di frammenti del film di Bratu con la narrazione contemporanea crea un dialogo ironico e malinconico, suggerendo che le dinamiche di potere e sfruttamento restano immutate, seppur cambino le forme e i colori , visto che il film dell’Angela comunista è in un bel colore d’annata mentre quello della Angela-Bobita post comunista è un bianco e nero sporco e sgranato.
Una delle scene più emblematiche del film che occupa tutta la lunga parte finale in un piano sequenza interminabile, è quella in cui Angela filma Ovidiu, un lavoratore infortunato su una sedia a rotelle. La sua testimonianza, che dovrebbe raccontare un incidente sul lavoro, viene manipolata per soddisfare le esigenze di comunicazione della multinazionale.
Questo processo di distorsione etica non solo svilisce la voce di Ovidiu, ma mette in evidenza le dinamiche di potere insite nelle strategie di corporate storytelling. Simili pratiche, ormai diffuse globalmente, trasformano storie autentiche in strumenti di marketing, sollevando interrogativi sulla responsabilità morale di chi gestisce tali narrazioni.
La scena, in questo senso, funge da specchio inquietante per il modo in cui la società moderna spesso monetizza il dolore personale, rendendo la verità un elemento secondario rispetto agli obiettivi commerciali. Questa dinamica non si limita a una critica alla realtà rumena, ma diventa uno specchio delle tendenze globali, dove la narrazione personale è spesso subordinata alle logiche aziendali.
La ripetizione ossessiva delle battute, che devono essere perfettamente allineate alla narrativa aziendale, evidenzia l'ipocrisia e la disumanizzazione del capitalismo contemporaneo. Il caso di Ovidiu non è un'eccezione, ma un esempio paradigmatico di come i lavoratori vengano ridotti a "storie" utili per alimentare il consenso o la promozione di valori aziendali. Questa manipolazione riflette un fenomeno globale, in cui le vite dei singoli sono strumentalizzate per creare contenuti appetibili e politicamente convenienti.
In questa scena, girata come detto in un lungo piano sequenza, l'alienazione kafkiana emerge con forza: la macchina da presa si sofferma con insistenza su dettagli apparentemente insignificanti, come il volto teso di Ovidiu o i movimenti monotoni di Angela, enfatizzando la ripetitività e l'assenza di via d'uscita. Il ritmo lento e claustrofobico del piano sequenza, unito alla scelta di inquadrature statiche o strette, sottolinea il senso di impotenza e assurdità, trasportando lo spettatore in un microcosmo di alienazione e sfruttamento, le parole ripetute fino alla loro completa perdita di significato trasformano un dramma umano in una farsa. Jude utilizza questo momento per sottolineare come le narrazioni ufficiali non siano mai innocue, ma strumenti per mantenere lo status quo. Al tempo stesso, il regista ci invita a riflettere su come queste pratiche si siano ormai infiltrate nei media globali, rendendo la critica urgente e universale.
Lo stile di Jude è volutamente frammentato e multistrato, combinando bianco e nero, riprese digitali, citazioni di cinema d'archivio e momenti surreali. La scelta di includere l'alter ego di Angela su TikTok – un personaggio volgare e satirico che prende di mira misoginia e stereotipi – aggiunge una tematica ormai universale che riflette sul nostro rapporto con i media e l'identità digitale.
Ma come nel precedente Sesso sfortunato o follie porno, soprattutto nella scena del “processo” che gli abitanti del condominio inscenano contro la protagonista, cui fa da specchio la citata scena finale , Radu Jude molla le redini e ne sentiamo di tutti i colori: dopo essersela presa con Goethe, avo della Ceo della multinazionale che ha commissionato il video ( una Nina Hoss algida), i protagonisti a turno ne hanno per tutti: da quell’ebreo di Bob Dylan fino a Putin, dai comunisti, agli anticomunisti e ai post comunisti, dai fascisti ai nazisti e via di seguito, in un ribollire di dialoghi, battute, verbosità molesta che se da un lato fanno ridere di gusto , dall’altro testimoniano il degrado della comunicazione intesa come forma e modalità di rapportarsi.
Allo stesso tempo, il film è una critica feroce alle contraddizioni della Romania contemporanea, che cerca di appartenere al mondo occidentale pur mantenendo un certo riserbo. Jude esplora il desiderio del Paese di essere accettato in un sistema capitalistico che, al contempo, aliena e sfrutta, facendo emergere le tensioni tra aspirazioni globali e una realtà ancora fortemente radicata nelle disuguaglianze del passato.
Do Not Expect Too Much from the End of the World è un film che intreccia satira pungente e riflessione profonda per costruire una critica alle derive della società contemporanea, non solo rumena ma globale. Attraverso l'alternanza tra passato e presente, ironia e tragedia, Radu Jude espone le contraddizioni di un mondo in cui il progresso economico e sociale convive con alienazione, sfruttamento e disuguaglianze, rendendo universale il suo discorso.
Attraverso il personaggio di Angela e il dialogo con il film di Bratu, Radu Jude offre una lettura complessa della modernità, denunciandone le storture attraverso un’acuta analisi delle contraddizioni del capitalismo globalizzato, del rapporto con i media digitali e della mercificazione dell’identità personale. Il suo stile, caratterizzato da frammentazione narrativa, citazioni cinematografiche e incursioni metatestuali, amplifica la portata di queste critiche, rendendole non solo rilevanti ma anche profondamente ironiche e provocatorie.
Un'opera che non si limita a raccontare la Romania, ma che attraverso la sua specificità parla a un pubblico universale, costringendoci a riflettere sulle derive del nostro tempo: Radu Jude confeziona insomma un’altra opera di grande valore , tassello del suo personale mosaico che mette in scena il suo paese e le derive della società europea moderna, confermandosi come uno degli autori più originali ed importante del cinema europeo contemporaneo.
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