sabato 30 agosto 2025

Her Story / 好东西 ( Shao Yihui / 邵艺辉 , 2024 )

 




Her Story (2024) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Dopo B for Busy (2021), piccolo caso di commedia urbana tutta al femminile, Shao Yihui torna a osservare la contemporaneità cinese con un film che ne afferma pienamente lo sguardo autoriale, una opera seconda che conferma brillantemente il talento della regista cinese. 
Her Story è un’opera che nasce dall’interno della società cinese, non contro di essa, ma con un’ambizione gentile e radicale: quella di raccontare le donne nella loro verità quotidiana, senza bisogno di ribellioni spettacolari, ma con una costanza narrativa che disinnesca lo stereotipo, lavora sulla realtà e la restituisce senza filtri ideologici. 
È un film che potrebbe sembrare piccolo, ma che si rivela invece enormemente denso: non solo per i temi che affronta, ma per il modo, per il tono, per la scelta stilistica del non detto, del lasciar emergere, dell’invito allo sguardo; un nuovo modo di guardare alla Cina e ai suoi abitanti ormai giunti all’approdo della nuova società con tutti i pregi, difetti e problemi che comporta; lo sguardo di Shao è molto più simile al nostro di occidentali incalliti perchè le problematiche , i vizi e le virtù, i travagli e le scelte tormentate ed ineluttabili collidono e si fondono.
Il film racconta la quotidianità di Wang Tiemei (una splendida Song Jia), madre single che si trasferisce con la figlia Moli in un quartiere popolare della Shanghai contemporanea. Non c’è una trama in senso stretto, ma un movimento lento che segue le interazioni tra le due e la nuova vicina, Xiao Ye, giovane musicista anticonformista, interpretata da Zhong Chuxi. Le tre donne, attraverso incontri, confronti e piccoli gesti, costruiscono una rete silenziosa di ascolto e sostegno reciproco.
Ma Her Story non è un inno alla sorellanza in stile patinato: è un racconto che si prende il tempo della sfumatura, della contraddizione. La madre non è sempre paziente, la figlia non è sempre innocente, la vicina non è sempre disponibile. Le dinamiche di potere, i ruoli interiorizzati, le aspettative su cosa significhi essere donna, madre, figlia, vengono scardinate scena dopo scena. Il film non le rifiuta, ma le osserva da vicino. E questo “guardare” è già un gesto politico.
La città ha un ruolo fondamentale nel film: Shao Yihui ci restituisce una Shanghai non da cartolina, ma viva e stratificata, in cui la modernità convive con la precarietà. Non c’è il glamour da skyline, ma cortili condivisi, condomini con pareti sottili, autobus affollati, piccoli caffè, scuole affannate. Uno spazio femminile che si muove tra pubblico e privato, tra lavoro e casa, tra pressione sociale e desiderio di autonomia.
Shanghai è uno specchio: non solo di una Cina che corre, ma anche di una società che non sa come affrontare la trasformazione dei ruoli femminili. Le tre protagoniste si muovono dentro questi spazi cercando di ritagliarsi un’identità che non sia funzionale solo agli altri — al marito, al figlio, al datore di lavoro, alla società — ma a loro stesse. E il film ci mostra come questa ricerca non si traduca mai in affermazioni nette, ma in micro-resistenze quotidiane: dire no, uscire, cucinare diversamente, restare in silenzio.



Uno degli aspetti più sorprendenti del film è il modo in cui riesce a parlare apertamente (eppure senza proclami) di temi ancora fortemente tabù nel cinema mainstream cinese: mestruazioni, aborto, desiderio femminile, famiglia disfunzionale. 
In una scena che ha fatto discutere, la bambina Moli parla apertamente del ciclo mestruale della madre con candore e assenza di vergogna. Un gesto minuscolo, ma rivoluzionario. Il corpo femminile non è idealizzato, ma mostrato nella sua normalità biologica e nei suoi limiti. È un corpo che lavora, che cresce figli, che ha bisogno di spazio.
Il fatto che Her Story abbia passato indenne le forche caudine dalla censura è un piccolo miracolo, forse perché Shao Yihui non grida, non attacca, ma pone domande. E forse anche perché, dopo l’enorme successo di pubblico e critica di B for Busy, il suo sguardo è ormai riconosciuto come rappresentativo di una sensibilità urbana, colta e popolare allo stesso tempo. Ma il merito è tutto nel modo: nel raccontare queste donne senza renderle simboli, senza sacrificarle al bisogno di rappresentatività.
Lo stile visivo è fedele alla poetica della regista: camera fissa, montaggio rarefatto, dialoghi scritti con cura ma pieni di respiri e sovrapposizioni. Shao Yihui si conferma maestra del dettaglio domestico: una sedia spostata, un paio di calze lavate, un gesto di fastidio tra madre e figlia, un sorriso accennato durante un pasto. 

domenica 24 agosto 2025

Sotto le foglie [aka When Fall is Coming] ( François Ozon , 2024 )

 




When Fall Is Coming (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10


Michelle, anziana vedova che vive nella campagna francese, divide le giornate tra la cura della casa e del giardino e l’amicizia con Marie-Claude, vicina di lunga data, madre di Vincent, un ragazzo che sta per uscire dal carcere dopo piccoli reati. 
Michelle ha un rapporto difficile con la figlia Valérie, donna divorziata, e riversa tutto il suo affetto sul nipote Lucas, un ragazzino che adora la nonna e ne è il centro di gravità. Quando Vincent torna in libertà, Michelle lo accoglie assumendolo come giardiniere. Il giovane, riconoscente, decide di aiutare la donna tentando una mediazione con Valérie per ricucire la frattura familiare. Ma durante l’incontro , Valérie muore precipitando dal balcone. Per alcuni un tragico incidente, per altri un gesto che nasconde ambiguità. L’equilibrio fragile tra colpa, perdono e seconda possibilità si incrina definitivamente, mentre il destino dei personaggi rimane sospeso tra la condanna sociale e l’illusione di una riconciliazione.
François Ozon, con When Fall Is Coming, realizza un film che si inserisce nella tradizione del dramma-thriller della provincia francese, capace di alternare la delicatezza dei gesti quotidiani e la durezza dei conflitti familiari. 
L’autunno del titolo non è soltanto una cornice stagionale, ma un vero e proprio stato d’animo: le foglie che cadono, i campi in riposo, la luce obliqua diventano specchio della fragilità dei rapporti umani e della loro precarietà.
Il cuore del film è l’ambiguità: la morte di Valérie ha solo un testimone sul quale grava il peso del suo passato prossimo segnato dal carcere e resta sospesa tra caso e colpa. Ozon evita di dare una risposta definitiva, l’incidente diventa così un prisma che riflette i timori e i pregiudizi dei vari personaggi. Vincent, ex detenuto appena reinserito, è il primo a cadere sotto il sospetto, anche solo per il suo passato; Michelle oscilla tra l’amore incondizionato per il nipote e la colpa per non aver saputo sanare prima lo strappo con la figlia; la comunità circostante si fa giudice silenzioso, pronta a emettere verdetti senza prove; ma soprattutto , grazie alla sua narrazione precisa e tagliente che spande sul film il seme del dubbio che si trasforma lentamente in tensione, Ozon sembra costruire un ambiente nel quale vanno a convergere personaggi distanti tra loro ma che comunque sembrano uniti  sotto una sorta di famiglia surrogata protettrice che va a sostituire e se necessario a distruggere quella tradizionale.



La colpa attraversa il film in più strati: individuale, familiare, comunitaria. Ozon lavora con grande sensibilità sulla dimensione religiosa della colpa: i riti cattolici, i funerali, le immagini sacre nelle case rurali sono costanti richiami a un’idea di peccato che non si cancella, ma può essere affrontato. 
La redenzione non è mai scontata, Vincent cerca di riparare attraverso gesti di lavoro, di servizio, di ascolto; Michelle, invece, è chiamata a guardare in faccia il fallimento del suo ruolo materno. 
L’autunno diventa quindi la stagione della resa dei conti: niente fioriture improvvise, ma la lenta consapevolezza che ciò che è caduto può solo trasformarsi in humus per qualcosa di nuovo.
Lucas, il nipote, rappresenta il futuro che osserva gli adulti e ne subisce le conseguenze. Il suo sguardo innocente interroga le bugie e i silenzi, e diventa la posta in gioco più alta: che tipo di eredità emotiva riceverà? 
Ozon affronta con tatto il tema dell’educazione dei figli: protezione e verità si scontrano, mostrando come la crescita passi non dal silenzio ma dall’assunzione del dolore. Lucas impara che la vita non è fatta di certezze, ma di zone grigie, e che proprio in quelle ambiguità si misura la possibilità di diventare adulti.
Il film si interroga sul tema cruciale del diritto a una seconda possibilità: Vincent, con il suo passato carcerario, incarna la figura del “colpevole già giudicato” che fatica a reinserirsi in una comunità pronta a ricordargli i suoi errori. Ozon non costruisce un ritratto agiografico, ma mostra la fatica quotidiana del reinserimento, la diffidenza sociale, la necessità di guadagnarsi ogni gesto di fiducia. 

mercoledì 20 agosto 2025

Kubi ( Kitano Takeshi , 2023 )

 




Kubi (2023) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

A distanza di sei anni dal suo ultimo lungometraggio, Outrage Coda, Takeshi Kitano torna al cinema con un film ambizioso e destabilizzante: Kubi. Lo fa riscrivendo le regole del jidaigeki – il film storico giapponese per eccellenza – e realizzando, nel suo stile beffardo e iconoclasta, una riflessione feroce e sarcastica sulla brama di potere, sull’instabilità delle alleanze, sull’assurdità della guerra e, in definitiva, sulla tragicommedia della storia umana.
Kubi significa "testa”, ed è esattamente quello che rotola per tutto il film. Ma le teste che cadono non sono solo trofei di guerra o punizioni per i traditori: diventano simboli di una civiltà costruita sulla violenza, sulla gerarchia e sulla perdita d’identità. 
Kitano non gira un film di samurai “in costume”, ma un’opera sul presente travestita da passato, capace di mettere a nudo le pulsioni di ogni epoca: la sete di potere, l’avidità, il cinismo. E lo fa senza retorica, ma con un sarcasmo irresistibile che mina ogni presunzione epica.
Il film prende spunto da un fatto storico reale: l’“incidente di Honnō-ji” del 1582, in cui il potente daimyo Oda Nobunaga venne tradito e costretto al seppuku da uno dei suoi più fidati generali, Akechi Mitsuhide. Kitano – che si ritaglia il ruolo di Mitsuhide – non si limita a raccontare i fatti, ma li destruttura, li trasforma in una spirale vertiginosa di tradimenti, colpi di scena, massacri e beffe, in cui ogni personaggio è pronto a pugnalare l’altro alla prima occasione.
La struttura narrativa è volutamente disorientante: le scene si susseguono con ellissi improvvise, i dialoghi si troncano, la storia salta avanti e indietro con una logica che ricorda più un sogno febbrile che una cronaca storica con una miscela quasi roboante di piani spazio-temporali. 
Lo spettatore è chiamato a ricomporre il puzzle, ma ogni tentativo di fare ordine è frustrato dalla natura caotica del potere, che è poi il vero protagonista del film.
In una recente intervista a Kinema Junpo, riguardo al concetto di ambizione,Kitano ha dichiarato
«Non mi interessava glorificare la storia. Mi interessa il modo in cui gli esseri umani diventano mostri quando l’ambizione prende il sopravvento.»



L’ossessione per il potere è la vera linfa che muove Kubi: ogni personaggio – da Hideyoshi a Tokugawa, dai vassalli minori ai generali più ambiziosi – è spinto da una brama incontrollabile di ascesa, di rivalsa, di dominio. Ma questa corsa non porta mai alla gloria: porta solo alla dissoluzione morale, alla paranoia, al sangue. Nessuno è mai veramente al sicuro, nessuno può fidarsi di nessuno.
La guerra è mostrata come un gioco sporco, dove la lealtà è una maschera e l’onore una parola svuotata di senso. 
Kitano distrugge l’immagine romantica del samurai: i suoi personaggi sono vili, ridicoli, spesso grotteschi. Eppure, in questa ridicolizzazione, emerge qualcosa di profondamente umano e tragico.
In una conferenza a Cannes 2023, quasi a rafforzare uno dei suoi concetti cardine della sua prospettiva  Kitano ha detto con il suo solito tono ironico:
«Nel mio film, nessuno è un eroe. Sono tutti idioti che si uccidono per un pezzo di potere. Forse è così anche nella politica di oggi.»
Il film diventa così una feroce parabola universale, che travalica i confini del Giappone feudale per parlare di ogni sistema di potere, in ogni tempo, con le sue dinamiche perverse e intricate.
Pur essendo tratto da un suo stesso romanzo storico (pubblicato nel 2019), Kitano non realizza una ricostruzione accademica del periodo Sengoku. I costumi, le architetture, le dinamiche tra clan sono credibili e curate, ma il regista si diverte a sabotare la gravità del contesto con scene al limite del grottesco, come samurai impacciati che inciampano, generali ridicolizzati, scene slapstick che ricordano il Kitano comico degli esordi televisivi.
Il film è un continuo alternarsi di momenti iperrealistici e deviazioni assurde, come a suggerire che la storia – anche quella più tragica – non è mai lineare né seria quanto vogliamo credere. È caos, disordine, casualità. E chi cerca di dominarla, finisce travolto.
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