
Giudizio: 7.5/10
A distanza di sei anni dal suo ultimo lungometraggio, Outrage Coda, Takeshi Kitano torna al cinema con un film ambizioso e destabilizzante: Kubi. Lo fa riscrivendo le regole del jidaigeki – il film storico giapponese per eccellenza – e realizzando, nel suo stile beffardo e iconoclasta, una riflessione feroce e sarcastica sulla brama di potere, sull’instabilità delle alleanze, sull’assurdità della guerra e, in definitiva, sulla tragicommedia della storia umana.
Kubi significa "testa”, ed è esattamente quello che rotola per tutto il film. Ma le teste che cadono non sono solo trofei di guerra o punizioni per i traditori: diventano simboli di una civiltà costruita sulla violenza, sulla gerarchia e sulla perdita d’identità.
Kitano non gira un film di samurai “in costume”, ma un’opera sul presente travestita da passato, capace di mettere a nudo le pulsioni di ogni epoca: la sete di potere, l’avidità, il cinismo. E lo fa senza retorica, ma con un sarcasmo irresistibile che mina ogni presunzione epica.
Il film prende spunto da un fatto storico reale: l’“incidente di Honnō-ji” del 1582, in cui il potente daimyo Oda Nobunaga venne tradito e costretto al seppuku da uno dei suoi più fidati generali, Akechi Mitsuhide. Kitano – che si ritaglia il ruolo di Mitsuhide – non si limita a raccontare i fatti, ma li destruttura, li trasforma in una spirale vertiginosa di tradimenti, colpi di scena, massacri e beffe, in cui ogni personaggio è pronto a pugnalare l’altro alla prima occasione.
La struttura narrativa è volutamente disorientante: le scene si susseguono con ellissi improvvise, i dialoghi si troncano, la storia salta avanti e indietro con una logica che ricorda più un sogno febbrile che una cronaca storica con una miscela quasi roboante di piani spazio-temporali.
Lo spettatore è chiamato a ricomporre il puzzle, ma ogni tentativo di fare ordine è frustrato dalla natura caotica del potere, che è poi il vero protagonista del film.
In una recente intervista a Kinema Junpo, riguardo al concetto di ambizione,Kitano ha dichiarato
«Non mi interessava glorificare la storia. Mi interessa il modo in cui gli esseri umani diventano mostri quando l’ambizione prende il sopravvento.»
L’ossessione per il potere è la vera linfa che muove Kubi: ogni personaggio – da Hideyoshi a Tokugawa, dai vassalli minori ai generali più ambiziosi – è spinto da una brama incontrollabile di ascesa, di rivalsa, di dominio. Ma questa corsa non porta mai alla gloria: porta solo alla dissoluzione morale, alla paranoia, al sangue. Nessuno è mai veramente al sicuro, nessuno può fidarsi di nessuno.
La guerra è mostrata come un gioco sporco, dove la lealtà è una maschera e l’onore una parola svuotata di senso.
Kitano distrugge l’immagine romantica del samurai: i suoi personaggi sono vili, ridicoli, spesso grotteschi. Eppure, in questa ridicolizzazione, emerge qualcosa di profondamente umano e tragico.
In una conferenza a Cannes 2023, quasi a rafforzare uno dei suoi concetti cardine della sua prospettiva Kitano ha detto con il suo solito tono ironico:
«Nel mio film, nessuno è un eroe. Sono tutti idioti che si uccidono per un pezzo di potere. Forse è così anche nella politica di oggi.»
Il film diventa così una feroce parabola universale, che travalica i confini del Giappone feudale per parlare di ogni sistema di potere, in ogni tempo, con le sue dinamiche perverse e intricate.
Pur essendo tratto da un suo stesso romanzo storico (pubblicato nel 2019), Kitano non realizza una ricostruzione accademica del periodo Sengoku. I costumi, le architetture, le dinamiche tra clan sono credibili e curate, ma il regista si diverte a sabotare la gravità del contesto con scene al limite del grottesco, come samurai impacciati che inciampano, generali ridicolizzati, scene slapstick che ricordano il Kitano comico degli esordi televisivi.
Dal punto di vista stilistico, Kubi è puro Kitano-cinema, sebbene l’opera non tocchi le vette sublimi raggiunte dai suoi capolavori . Il suo cinema continua a rifiutare qualsiasi schema prestabilito. Non c’è un arco narrativo classico, non c’è un protagonista da seguire con empatia.
La regia è precisa ma imprevedibile, fatta di lunghi silenzi interrotti da esplosioni improvvise di violenza, piani fissi che sfociano in massacri, sequenze contemplative alternate a scene farsesche.
Anche il montaggio è dissonante: le scene non sempre seguono una logica temporale o causale, ma si giustappongono come frammenti di memoria, visioni, improvvisi strappi nel tessuto della narrazione. È un cinema anarchico, libero, in cui la forma diventa contenuto , uno dei paradigmi immutabili dell'arte kitaniana, e a tal proposito il regista ha dichiarato di recente:
«Non ho mai voluto fare film 'coerenti'. La coerenza è una gabbia. Preferisco che lo spettatore si perda, si irriti, ma esca dalla sala con qualcosa che lo disturba.»
Kubi è un’opera scomoda, che sfida lo spettatore a trovare un senso nel caos della storia, nella brutalità della politica, nella fragilità dell’essere umano.
Kitano mette in scena una parata di teste tagliate e risate amare, lasciando che lo spettatore si interroghi su cosa davvero meriti di essere ricordato.
È un film che respinge l’eroismo, che ridicolizza il potere, che riduce la gloria a una maschera tragica. Ma è anche un’opera d’arte autentica, guidata da una libertà creativa che pochi registi oggi si possono permettere. A quasi ottant’anni, Kitano continua a essere una voce unica, capace di raccontare la violenza del mondo con una risata sulle labbra e il montaggio come arma.
Nel sangue e nella beffa, Kubi è il suo testamento politico e poetico. E come ogni grande testamento, è pieno di verità scomode.
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