venerdì 21 novembre 2025

Le verità ( Kore'eda Hirokazu , 2019 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10

Kore-eda Hirokazu arriva per la prima volta in Europa con Le verità, film che conserva il garbo riflessivo del suo cinema ma lo rotea volutamente verso un palcoscenico occidentale: una grande diva del cinema (Catherine Deneuve) nella sua villa parigina, una figlia sceneggiatrice (Juliette Binoche) sposata con un attore americano tornata dopo anni, e una serie di visite e confessioni che smuovono memorie, omissioni e menzogne. 
Quel che Kore-eda mette in scena non è tanto un “giallo” della verità oggettiva quanto una partitura delicata e stratificata sul rapporto tra finzione e vita, su come il mestiere dell’attore , e l’atto di raccontare , possano rimodellare l’identità, i valori e perfino la percezione della verità stessa.
Al cuore del film c’è un’interrogarsi sottile e costante: fino a che punto l’attore, nel dar voce a personaggi e memorie, finisce per imporre una propria versione del reale sulle persone che lo circondano? Kore-eda sviluppa questo quesito attraverso la figura della diva , una donna la cui fama è costruita su ruoli che, per il pubblico e talvolta anche per lei, finiscono per sovrapporsi alla persona. L’attore diventa dunque un agente di verità (o di falsità): la sua interpretazione può rivelare, occultare, tradire. È la recitazione che porta a galla ricordi sopiti, che piega i fatti in funzione di un’immagine più vendibile o più sopportabile.
La protagonista (Fabienne nella pellicola) incarna la tensione fra persona pubblica e intimità privata: il suo passato, il suo essere madre e donna di spettacolo, è un “testo” continuamente riletto e reinterpretato. 
La figlia, che si trova a raccontare e ricostruire eventi, offre la voce del racconto che cerca la verità , ma la verità emerge sempre filtrata, mediata da memoria, risentimento, narrazione personale. Kore-eda ci ricorda che la verità non è solo un dato fattuale, ma una costruzione fragile e plurale.
L’azione è largamente confinata nella villa-residenza della protagonista, scelta registica che trasforma il film in una specie di racconto da camera. Questo spazio chiuso funziona da lente: i dialoghi, gli sguardi, i piccoli gesti guadagnano peso; i conflitti familiari e professionali si concentrano e si intensificano. 
Kore-eda usa l'ambiente domestico come set drammaturgico , la quotidianità diventa palcoscenico e la casa stessa un teatro delle illusioni. La villa, con i suoi corridoi, le stanze affrescate, gli specchi, è luogo di prova: qui si mettono in scena memorie, si fanno prove di verità, si recitano giustificazioni.
Questa economia di spazio ricorda i migliori “film di salotto” europei  e allo stesso tempo conserva l’attenzione ai dettagli relazionali tipica del regista giapponese. Lo scontro tra intimità e spettacolarità si gioca in pochi ambienti, ma ogni inquadratura è calibrata per far emergere la rete di affetti ambivalenti, l’imbarazzo e la complicità che legano madre e figlia.
Kore-eda costruisce la narrazione per strati: conversazioni che sembrano banali diventano rivelatrici; flash di memoria si insinuano come piccoli terremoti emotivi. Non c’è un’unica rivelazione risolutiva ma una progressiva sedimentazione di punti di vista. Questa scelta strutturale sottolinea la natura multiforme della verità: non la cerchiamo come un enigma da risolvere, ma la scopriamo come risultato di ascolto, confronto, spesso di fraintendimenti che però dicono qualcosa di autentico su chi parla.



La sceneggiatura privilegia i dialoghi misurati, gli scambi a volte ironici, che consentono agli attori di scavare nelle sfumature; il ritmo è lento ma attentamente modulato: Kore-eda concede tempo alla parola, ai silenzi, ai ritorni su un episodio che assume nuovi significati mano a mano che emergono altre testimonianze. È una struttura che riflette il suo cinema precedente (la sua inclinazione per il realismo riflessivo e le famiglie allargate), ma qui la posta in gioco è più meta-cinematografica: come si costruisce una narrazione, quali interessi la modellano.
Anche girando in Europa, Kore-eda non rinuncia alla propria cifra: la macchina da presa è discreta, spesso statica, attenta ai volti, ai piccoli movimenti che tradiscono emozioni. Tuttavia, lavorare con attrici del calibro di Deneuve e Binoche e inserirsi in un contesto francese introduce nel film una nuova tessitura stilistica , un certo gusto per la mise-en-scène più teatrale, per l’eleganza degli scorci domestici e per la parola come performance. Il risultato è un equilibrio tra la delicatezza minimalista che conosciamo e un registro stilistico più esplicito, più “francese-parigino” che a tratti ricorda in maniera decisa Francois Ozon, che non stride ma arricchisce l’opera.
Questa operazione cross-culturale ha un altro esito importante: Kore-eda dimostra una capacità di adattamento rara , accoglie il linguaggio e la teatralità occidentali senza subirle né snaturarsi. Il film funziona proprio perché riesce a mediare due tradizioni: la sensibilità intimista giapponese e la cultura del grande attore europeo che è al centro del racconto.
Le interpretazioni sono il vero cuore pulsante del film. La diva anziana riesce a incarnare il paradosso tra magnetismo pubblico e vulnerabilità privata; la figlia, con erranze emotive e sarcasmo, rappresenta la mediazione fra affetto e risentimento. Gli incontri con altri personaggi (partner, amici, colleghi) agiscono come specchi che riflettono versioni diverse di uno stesso fatto, costringendo lo spettatore a navigare fra prospettive discordanti.
Kore-eda dirige gli attori con mano lieve: sa quando chiedere il grande gesto e quando lasciare che un minuto sguardo dica tutto. Il tema del “ruolo che condiziona la vita” diventa evidente quando la carriera e le scelte dell’attrice si rivelano come elementi che hanno plasmato , e magari deformato , le relazioni familiari.
Una delle questioni morali più pregnanti del film è la responsabilità connessa al raccontare: chi ha il diritto di narrare la vita dell’altro? Quali omissioni sono giustificabili? 
Kore-eda ci mette davanti a dilemmi etici: l’arte libera, ma può ferire; la memoria sopravvive, ma si corrompe. Il regista invita a considerare la verità come qualcosa che ha conseguenze pratiche sulle vite delle persone: rivelare o tacere non è un esercizio puramente intellettuale, ma una scelta che incide sui rapporti, sulla dignità, sul futuro.
Chi conosce il lavoro del regista noterà continuità tematica ( l’attenzione per il nucleo familiare, la delicatezza nel tratteggiare rapporti umani, l’assenza di moralismo facile ) ma anche una messa a fuoco più esplicitamente meta-cinematografica in questa opera. Se Shoplifters o Like Father , Like Son esploravano legami di sangue, inganni e affetti, Le verità sposta il baricentro sulla parola e sull’immagine pubblica: il tema del racconto come pratica che costruisce realtà è più accentuato. Inoltre, la prospettiva europea introduce nel suo cinema una luce diversa, più teatrale, che si accorda bene con il soggetto.
Tra i pregi principali c’è la finezza psicologica: Kore-eda dimostra ancora una volta la sua capacità di ascoltare personaggi e spettatori, di lasciare spazio all’ambiguità e di porre domande più che erigere risposte. La messa in scena, il cast e la pulsione narrativa sulla verità rendono il film ricco di spunti.
Qualche limite emerge quando il film, per trovare equilibrio tra due culture registico-interpretative, rischia talvolta di non spingersi fino in fondo nella tensione drammatica: le rivelazioni più forti sono spesso suggerite piuttosto che esplorate in profondità, e spettatori in cerca di un grande confronto plateale potrebbero rimanere a desiderare. Ma questa moderazione è anche una scelta coerente con il linguaggio di Kore-eda: delicatezza invece di catarsi.
Le verità è un’opera che dimostra come Kore-eda possa, senza tradire se stesso, dialogare produttivamente con il cinema europeo. Il film porta avanti una meditazione importante sul ruolo dell’attore e sulla natura della verità: essa non è un mero fatto documentabile, ma una rete di narrazioni, interpretazioni e omissioni che plasmano le vite. 
Con misura, sensibilità e un cast all’altezza, Kore-eda costruisce un racconto da camera che funziona come specchio multiplo: restituisce non una singola verità, ma il teatro complesso e spesso contraddittorio del vivere sinceri e del recitare se stessi.
Per lo spettatore attento, il film offre molto: una riflessione morale, un gioco metatestuale sul potere della rappresentazione, e il piacere di vedere due tradizioni, giapponese e europea, incontrarsi in modo rispettoso e fruttuoso. Non è soltanto la storia di una madre e di una figlia: è una riflessione sul come raccontiamo le nostre vite  e su chi, alla fine, abbia il diritto di definirne la verità.

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