Giudizio: 8,5/10
Presentato a Venezia alla ultima Mostra Internazionale del Cinema e liberamente ispirato al film coreano del 2003 Save the Green Planet di Jang Joohwan Bugonia parte da un’idea di base volutamente bizzarra e surreale come spesso succede con Yorgos Lanthimos che sembra quasi una distopia da fantascienza grottesca: due cugini complottisti , uno più scemo dell’altro, convinti che la potente CEO di una multinazionale farmaceutica, Michelle Fuller (interpretata da Emma Stone), sia in realtà un’aliena Andromediana venuta a distruggere il pianeta, la rapiscono e la torturano in uno scantinato.
L’ambientazione claustrofobica — un seminterrato degradato, sporco, quasi “teatrale” — spinge lo spettatore a concentrarsi su dialoghi, interrogatori, psicologie contorte, intenzioni oscure. La distinzione tra vittima e carnefice diventa labile: non è chiaro chi, in questa dinamica, sia davvero alieno, e chi invece umano ma irrimediabilmente contaminato da follia, risentimento o disperazione.
E’ la donna veramente una aliena? Ovviamente essendo il tutto possibile solo nella mente dello scemo complottasti, che comunque scopriremo nel tempo che è come lo vediamo anche per esperienze passate dolorose, e cioè la madre , ridotta a vegetale in seguito ad una terapia per curare la sua dipendenza che ha presentato una imprevista complicanza del farmaco prodotto dall’azienda della CEO rapita.
In Bugonia, non è la dimensione “aliena” in senso classico ciò che conta di più, quanto piuttosto l'allegoria: il rapimento, la prigionia, l’interrogatorio sono un pretesto per mettere in scena le dinamiche di potere, di sospetto, di follia collettiva, e per denunciare un mondo fatto di ingiustizie sociali, economiche, esistenziali in preda alla follia paranoica del complottismo, della violenza, del morboso legame con le armi, e con la brezza mai palesemente esplicitata del trumpismo, ma chiaramente leggibile.
Il titolo stesso, Bugonia, allude a un mito antico descritto da Virgilio nelle Georgiche: la credenza secondo cui dalle carcasse di animali morti , in particolare buoi , possano nascere spontaneamente delle api. Un’idea che evoca rigenerazione, rinascita dalla morte, rigenerazione post-catastrofica.
In questo senso, la metafora è potente: il mondo (o l’umanità) come un organismo morente, le sue carcasse , simbolo di devastazione, collasso, distruzione , come potenziali germogli di qualcosa di nuovo, o quantomeno come una fase di passaggio.
Lanthimos sospende la dicotomia rosea della “rinascita”, mostrandoci invece un presente marcio, malato, in cui la rigenerazione può assumere forme grottesche, contorte, deliranti.
L’ipotesi di rigenerazione come in un rituale primordiale, quasi pagano , viene contaminata da paranoie, complotti, isterie. In questo modo, la catastrofe ecologica non è un orizzonte futuribile, bensì un’ombra concreta sulle nostre vite. L’“estinzione” non è solo biologica, ma anche morale e sociale: il film suggerisce che siamo già nel baratro, se accettiamo di ignorare le crepe.
Questa interpretazione conferisce al film un forte valore allegorico, e lo rende più di una semplice distopia paranoide: una critica sociale e ambientale radicale.
La figura di Michelle Fuller , CEO spietata, implacabile, elegante, che parla come menzioni aziendali, incarnando un freddo linguaggio “corporate” , diventa quasi un archetipo: non un mostro alieno in senso fantascientifico, ma una creatura del capitalismo estremo, divoratrice di valori umani e quindi di fatto quasi un essere al di fuori dell’umano, più vicina “mostro”.
Il contrasto tra i due cugini uno convinto complottista / apicoltore, l’altro chiaramente di puro interesse psichiatrico, e la donna “aliena” rappresenta lo scontro tra due mondi deformati: da un lato la disperazione, la rabbia, la paranoia; dall’altro un potere sociale, economico disumanizzante, che riduce l’umanità a numeri, profitti, efficienza sterile.
Lanthimos sembra dire: non è più tanto la natura a minacciarci come specie bensì la logica del profitto, della manipolazione, della disconnessione morale. La razionalità corporativa, con la sua facciata di professionalità, tolleranza, inclusione, maschera solo un vuoto morale, una voragine di indifferenza e spersonalizzazione.
Bugonia è anche un film sul potere corrosivo delle credenze, delle paure, delle visioni paranoiche , di come certe persone siano disposte a credere a narrazioni assurde, perché rispondono a un bisogno profondo: quello di dare un senso al caos. I due protagonisti si costruiscono un mondo parallelo, abitato da alieni, minacce cosmiche, complotti farmaceutici: è un mondo parallelo, ma per loro è reale, accentuando nel loro pensiero una teoria di catastrofe imminente e di ineluttabilità.
Lanthimos non dà risposte facili: lascia che lo spettatore sia corroso dal dubbio: Michelle è davvero un’aliena? O è semplicemente un essere umano , o qualcosa di peggio: una rappresentazione della corruzione e del cinismo del sistema?
Il confine tra follia e verità, tra denuncia e delirio, è sfocato. Questo è forse uno degli aspetti più inquietanti: la consapevolezza che in una società dove la verità è liquida bombardata come è da fake news, teorie, disinformazione, santoni, influencer e autentitici folli dementi, la convivenza tra visioni del mondo radicali e contraddittorie è non solo possibile, ma pericolosamente attuale.
L’intento del regista non è costruire un horror fantascientifico tradizionale, ma un ritratto disturbante, grottesco, di quel malessere sociale che, a noi spettatori occidentali “moderni”, può sembrare esagerato eppure appare tanto reale.
Una delle scelte più coraggiose di Lanthimos è quella di non accettare un registro unico: Bugonia oscilla continuamente tra commedia nera, thriller paranoico, dramma esistenziale ed apocalisse imminente , come suggerisce il sorprendente finale. Questo scarto di toni , a volte sbilanciato, a volte volutamente disturbante , crea un effetto di straniamento che mette in crisi lo spettatore: la risata di adesso può diventare lo sgomento e l’angoscia di un attimo dopo, il clima ridanciano da commedia può degenerare in un un battito di ciglia nella violenza più cruda.
Il regista sfrutta al massimo il contrasto tra il linguaggio formale, quasi da “buone maniere sociali” tipico degli ambienti corporate, delle presentazioni di lavoro, delle facciate di civiltà e la brutalità primitiva nascosta sotto la superficie. Il pasto a tavola con dialoghi educati che nascondono odio, rabbia, disperazione è un momento emblematico che riflette la doppia natura della società contemporanea: l’apparenza e il contenuto, la facciata e il veleno.
Questa alternanza di registri , ironia cruda, sarcasmo grottesco, momenti drammatici e angosciosi , è probabilmente uno dei punti più riusciti del film; perché è proprio attraverso l’ironia, il grottesco, la commedia nera, che Lanthimos riesce a raggiungere la parte più dolorosa: quella che riguarda la paura, la solitudine, la disillusione, la rabbia repressa, la disperazione esistenziale.
La scelta stilistica operata da Lanthimos espone il film ad un unico grande pericolo: per quanto “Bugonia” colpisca per lucidità, stile, ambizione, in apparenza potrebbe sembrare che non riesca a coinvolgere sul piano puramente emotivo come da diverse parti si può leggere :alcune recensioni segnalano che, nonostante la perfezione formale e l’idea forte, il film “ipnotizza più che coinvolgere”, risultando talvolta freddo, quasi distante; personalmente ritengo invece che sia proprio l’esatto contrario , cioè l’evitare il manierismo stilistico in base al registro narrativo utilizzato riesce a far raggiungere il messaggio dell’opera in maniera più decisa.
Se guardiamo al percorso di Lanthimos , dal cinema greco più intimista e provocatorio, fino alla sua recente fase internazionale , Bugonia rappresenta, a mio giudizio, il suo lavoro forse più convincente in lingua inglese, almeno da un punto di vista di coerenza stilistica e tematica, dimostrando ormai in maniera quasi inequivocabile che il pericolo di contaminazione eccessiva sia brillantemente schivato: ri dimostra un regista maturo, consapevole, capace di gestire generi diversi, ma sempre con una cifra estetica e morale forte e coerente.
Il fatto che il film mantenga una tensione costante tra dramma, follia, satira e non si perda in concessioni “commerciali facili” dimostra che Lanthimos non ha ceduto al compromesso: il suo sguardo resta spietato, critico, spesso disturbante.
Allo stesso tempo, dimostra che questo sguardo può essere mediato attraverso un linguaggio cinematografico (messa in scena, dialoghi, attori) accessibile, pur se scomodo, al grande pubblico.
Un’ultimo accenno merita il frequente parallelismo che viene fatto fra Bugonia e Eddington di Ari Aster relativamente ad un certa comunanza di tematiche e di stili: mentre Aster tende a costruire con il suo cinema horror una tensione psicologica molto radicata nel trauma, nell’orrore lento, nella deriva interpersonale, Lanthimos in Bugonia preferisce la distanza allegorica, la satira, l’iperbole grottesca.
Dove Aster spinge lo spettatore a sentire il peso del trauma, lo scuote dentro, Lanthimos lo costringe a guardare da fuori: come in uno specchio deformato che riflette non solo la paranoia, ma la società. L’ironia nera, la commedia macabra, la scelta di non dare certezze ( ad esempio se la CEO è davvero un’aliena o no) diventano la chiave per un tipo di critica che non pretende di spiegare, ma di smascherare. In questo senso, Bugonia è forse l’antitesi estetica e morale di un film come quelli di Aster: più spietato, più cerebrale, ma anche più aperto, ed ambiguo, reso possibile dalla sospensione del giudizio, dal dubbio, dal grottesco.
Per chi ama un cinema provocatorio e intellettuale, può essere un contraltare potente , un monito per chi preferisce l’impatto emotivo immediato.
Bugonia è un film che non cerca di rassicurare. Non offre consolazioni né risposte facili. È un’esperienza disturbante, a tratti grottesca, spesso volutamente ambigua.
È però per questo anche una delle voci cinematografiche più acute del 2025. Con lucidità, ironia nera, coraggio formale e morale, Lanthimos porta sullo schermo paure reali: della natura che muore, delle multinazionali che divorano vite, della disillusione per un mondo che sembra già condannato; ma lo fa senza sermoni bensì con satira, grottesco, follia controllata.
Questo approccio, che in un’epoca di polarizzazioni e semplificazioni appare quasi rivoluzionario, funziona: ci costringe a guardare, non a chiudere gli occhi.
E in un tempo in cui le crisi ambientali, economiche, sociali galoppano , ma spesso nascoste dietro schermi, algoritmi, indifferenza , Bugonia suona come un campanello d’allarme, con la voce di un regista che non ha paura di sporcarsi le mani con le ombre del presente.
Non appare quindi fuori luogo l’affermazione che al momento appare come il lavoro più significativo di Lanthimos nella sua fase internazionale: una parabola sulla follia contemporanea, sulla fine (forse non definitiva) dell’umano, e sulla possibilità labile ma presente di chiedersi che cosa vogliamo salvare, e a che prezzo.

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