Giudizio: 8.5/10
No Other Choice ( pedissequamente tradotto in Non c'è altra scelta nella versione italiana) di Park Chan-wook —autore che torna a Venezia giusto 20 anni dopo Lady Vendetta, è un’opera che, manifesta con forza la cifra estetica e morale del suo autore il quale dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio anche al di fuori del suo ambito cinematografico nazionale.
Il film, ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake e già portato sullo schermo col titolo Cacciatore di teste da Costa Gravas cui Park dedica la sua opera, racconta la storia di You Mansu (interpretato da un eccellente Lee Byung-hun), un uomo che, dopo aver dedicato 25 anni della sua vita a un’industria cartaria, viene improvvisamente licenziato in seguito ad una riorganizzazione dettata dai nuovi proprietari americani della industria.
Di colpo, la sua sicurezza economica, la sua posizione sociale, la quotidianità della famiglia — basata su uno status acquisito — vengono spazzate via. In un mercato del lavoro feroce e implacabile, in un Paese dove la competizione è spietata e i posti sempre più rari, Mansu decide di reagire a modo suo: architetta un piano spietato per ottenere un nuovo impiego, una sorta di gioco ad eliminazione.
Questa parabola al limite dell’assurdo — eppure tragicamente credibile — è l’asse attorno a cui ruota il film, che, pur partendo da una premessa quasi grottesca su cui Park indugia molto mostrando il suo consueto humor nero e sarcasmo, si trasforma progressivamente in un poderoso atto di denuncia sociale e di riflessione esistenziale che culmina in un finale agrodolce nel quale si sedimenta tutto il dramma della vicenda.
Uno dei temi centrali di No Other Choice è come il lavoro, nella società contemporanea , e in particolare in quella sudcoreana, con le sue pressioni economiche e sociali e la sfrenata competitività , non sia solo un mezzo di sostentamento, ma l’asse intorno a cui ruota la dignità individuale, l’identità, lo status. Per Mansu la perdita del lavoro non è una semplice “perdita di stipendio”: è un’“ascia” che tronca le aspirazioni, cancella certezze, distrugge gerarchie familiari.
Il film evidenzia come, di fronte alla precarietà e all’“ottimizzazione” spietata del capitale, ogni elemento identitario ( mestiere, posizione, abitazione, ruolo di capofamiglia ) diventi fragile.
La narrazione scava nella paura molto reale della discesa sociale: la perdita del lavoro significa non solo crollo economico, ma perdita di status, vergogna, impotenza. Mansu teme non solo per sé, ma per la sua famiglia, per il tenore di vita, per il futuro dei figli. La tensione sociale, la competitività esasperata, la scarsità di opportunità rendono quasi inevitabile la deriva verso la disperazione che si concretizza nella rinuncia alle automobili, agli indici dello status sociale agiato quale le lezioni di tennis della moglie, persino l'abbandono dei cani "perchè non ce la facciamo a sfamare tutte queste bocche".
Il film mette in luce il crollo delle certezze e le conseguenze psicologiche — gelosia, tensioni, sfiducia — che si intrecciano col senso di colpa e la percezione di impotenza. La disgregazione non è solo materiale, ma morale e familiare.
Il film, ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake e già portato sullo schermo col titolo Cacciatore di teste da Costa Gravas cui Park dedica la sua opera, racconta la storia di You Mansu (interpretato da un eccellente Lee Byung-hun), un uomo che, dopo aver dedicato 25 anni della sua vita a un’industria cartaria, viene improvvisamente licenziato in seguito ad una riorganizzazione dettata dai nuovi proprietari americani della industria.
Di colpo, la sua sicurezza economica, la sua posizione sociale, la quotidianità della famiglia — basata su uno status acquisito — vengono spazzate via. In un mercato del lavoro feroce e implacabile, in un Paese dove la competizione è spietata e i posti sempre più rari, Mansu decide di reagire a modo suo: architetta un piano spietato per ottenere un nuovo impiego, una sorta di gioco ad eliminazione.
Questa parabola al limite dell’assurdo — eppure tragicamente credibile — è l’asse attorno a cui ruota il film, che, pur partendo da una premessa quasi grottesca su cui Park indugia molto mostrando il suo consueto humor nero e sarcasmo, si trasforma progressivamente in un poderoso atto di denuncia sociale e di riflessione esistenziale che culmina in un finale agrodolce nel quale si sedimenta tutto il dramma della vicenda.
Uno dei temi centrali di No Other Choice è come il lavoro, nella società contemporanea , e in particolare in quella sudcoreana, con le sue pressioni economiche e sociali e la sfrenata competitività , non sia solo un mezzo di sostentamento, ma l’asse intorno a cui ruota la dignità individuale, l’identità, lo status. Per Mansu la perdita del lavoro non è una semplice “perdita di stipendio”: è un’“ascia” che tronca le aspirazioni, cancella certezze, distrugge gerarchie familiari.
Il film evidenzia come, di fronte alla precarietà e all’“ottimizzazione” spietata del capitale, ogni elemento identitario ( mestiere, posizione, abitazione, ruolo di capofamiglia ) diventi fragile.
La narrazione scava nella paura molto reale della discesa sociale: la perdita del lavoro significa non solo crollo economico, ma perdita di status, vergogna, impotenza. Mansu teme non solo per sé, ma per la sua famiglia, per il tenore di vita, per il futuro dei figli. La tensione sociale, la competitività esasperata, la scarsità di opportunità rendono quasi inevitabile la deriva verso la disperazione che si concretizza nella rinuncia alle automobili, agli indici dello status sociale agiato quale le lezioni di tennis della moglie, persino l'abbandono dei cani "perchè non ce la facciamo a sfamare tutte queste bocche".
Il film mette in luce il crollo delle certezze e le conseguenze psicologiche — gelosia, tensioni, sfiducia — che si intrecciano col senso di colpa e la percezione di impotenza. La disgregazione non è solo materiale, ma morale e familiare.
In questo scenario, la morale tradizionale è schiacciata dalla logica della sopravvivenza. Nel film, “non c’è altra scelta” diventa la frase-salvezza: un alibi che giustifica il tradimento, la menzogna, persino l’omicidio e che al contempo, paradossalmente è anche quello che dicono al protagonista nel momento in cui chiede spiegazioni sul licenziamento: "non abbiamo altra scelta" , un mantra che vale per chi subisce e per chi invece mette in atto l'azione.
Il fatto che ogni personaggio, direttamente o indirettamente, pronunci quella frase rende evidente come la crisi del lavoro e del mercato abbia effetti sistemici: non solo su un individuo, ma su un intero tessuto sociale, dove la competizione diventa guerra, e la sopravvivenza un “diritto” da conquistare a qualsiasi prezzo.
Il film non è quindi solo un dramma individuale, ma una radiografia crudele e impietosa di una società che sacrifica l’umano sull’altare del profitto, dell’efficienza, del rendimento; relativamente a questo aspetto non può non tornare in mente la lotta di classe che Bong Joonho racconta in Parasite opera cui per qualche aspetto il film di Park sembra avvicinarsi.
Una delle caratteristiche più riuscite di No Other Choice è la miscela di humour nero, assurdo e violenza ,un cocktail che, nelle mani di Park, diventa un potente strumento di satira: il film inizia quasi come una commedia nera, con battute taglienti, situazioni surreali, un primo omicidio quasi “cartoonesco” nella sua tragicomica goffaggine.
Ma quella risata si fa sempre più amara, e la commedia sfuma nella tragedia. Il passaggio non è solo di tono, ma di profondità: la brutalità e il grottesco lasciano il posto alla disperazione, all’alienazione, alla dissoluzione dei legami. È una transizione lenta ma inesorabile, che riflette il crollo dell’interiorità umana, assediata da un sistema che svuota di senso.
L’opera può essere vista come un attacco frontale — seppur camuffato da thriller — a quel capitalismo contemporaneo di derivazione americana ( ben sottolineato nel primum movens della vicenda) che riduce gli esseri umani a “risorse”: intercambiabili, sacrificabili, sostituibili. Il protagonista non è un “cattivo” canonico: è un uomo normale, spinto dal panico, dalla paura, dalla necessità di sopravvivere. E la sua discesa morale è presentata come possibile “da chiunque”. Così, il film espone l’assurdità e la crudeltà di un sistema che trasforma la sopravvivenza in guerra fratricida nella quale si perde ogni minimo residuo di etica e di moralità che non sia la sopravvivenza bruta
Chi conosce il cinema di Park Chanwook — dalla sua fama consolidata con svariati lavori — riconoscerà in No Other Choice una sua cifra distintiva: l’attenzione ossessiva per l’inquadratura, la composizione, la messa in scena; ogni dettaglio visivo ,dalla scenografia alla fotografia, fino al suono e al montaggio , contribuisce a costruire un mondo che vive di contrasti forti: il già visto del quotidiano e il disturbante dell’imprevisto.
La scenografia spesso minimalista, domestica, borghese diventa simbolo delle crepe interiori del protagonista; gli spazi si fanno oppressivi, la familiarità diventa inquietante, la camera segue da vicino i volti, le mani, gli oggetti: tutto sembra ordinario, fino a quando la tensione esplode.
Eppure, non manca lo humour: la gestione del ritmo, l’uso del grottesco, la progressiva escalation di violenza sempre equilibrata da una vena ironica mostrano che Park non ha abbandonato la sua inclinazione a miscelare con sapienza bellezza e brutalità, eleganza e orrore.
Un elemento che spicca in No Other Choice non è la vendetta , tema caro a Park , a guidare l’azione, ma la disperazione di una classe media in sfacelo. Non c’è un antagonista esterno come nei thriller classici, ma un sistema impalpabile, diffuso che diventa nemico. Questo spostamento di paradigma, da “vendetta personale” a “lotta per la sopravvivenza”, segna una maturazione tematica significativa del regista.
Inoltre, la scelta del tono da commedia nera , con momenti di humor nero così crudo da far ridere e rabbrividire ,evidenzia la volontà di Park di esplorare nuove forme espressive, senza rinunciare alla sua potenza visiva e morale. La tragedia non è solo nei gesti finali, ma nella quotidianità: nella fragilità della speranza, nella precarietà del lavoro, nella paura del domani.
Rispetto a film fondamentali come Oldboy o Lady Vendetta, qui non c’è la vendetta come catarsi, ma lo sconforto come condanna: la crudeltà è sistemica, non personale; il film non offre redenzione, ma un’amara riflessione.
Pur riconoscendo l’audacia e la forza di No Other Choice, è inevitabile notare alcuni aspetti: il bilanciamento tra satira, commedia nera e tragedia , se da un lato è fonte di vitalità, dall’altro rischia, secondo qualcuno, di diluire la forza esplosiva della denuncia diluendo l'impatto etico e quindi rendendo l'opera troppo ambigua: ciò può essere vero in parte , ma il registro utilizzato da Park è sempre lo stesso in tutto il racconto ed è la caratteristica dell'opera capace di regalare momenti sopra le righe ma sempre con un potente sottofondo ironico.
No Other Choice è di certo una delle opere più coraggiose e rilevanti di Park Chanwook negli ultimi anni. Con la sua miscela di satira feroce, dramma familiare, critica sociale e gusto per l’estetica visiva, il film si impone come una riflessione dura e a tratti disperata sul valore del lavoro, sull’identità, sulle fragilità di una classe media avvilita.
Park non cerca facili catarsi, vendette spettacolari o redenzioni consolatorie: resta fedele al suo sguardo sul male , ma lo sposta dal piano del singolo al piano del sistema. E lo fa con un umorismo nero che non attenua la tragedia, ma la rende ancor più insidiosa, quotidiana, inquietante.
In questo senso, No Other Choice non è solo un film da vedere: è un film da pensare. Un monito, un invito a guardare al di là del privilegio e della sicurezza e a chiedersi: quante volte abbiamo realmente «nessun’altra scelta» ?

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