lunedì 22 dicembre 2025

Sirat ( Oliver Laxe , 2025 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

Sirat di Oliver Laxe, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes, è un film che chiede allo spettatore qualcosa di raro nel cinema contemporaneo: non tanto di “capire”, quanto di attraversare. Attraversare un territorio fisico e mentale, un racconto che si spoglia progressivamente di coordinate narrative tradizionali per farsi esperienza sensoriale, mistica, quasi iniziatica.
Un’opera che nasce come road movie angosciato, sembra calcare le orme di Mad Max e finisce per trasformarsi in un viaggio spirituale dentro un mondo che sta morendo  o che forse è già morto da tempo.
La trama è esilissima: un uomo col figlio ragazzino si imbarcano nell'impresa di cercare la figlie e sorella scomparsa da cinque mesi: si recano a cercarla in un  rave che si svolge tra le montagne e il deserto del Marocco; qui si aggregano ad una piccola carovana di ravers (tutti autentici) diretti in una altra zona , al confine con la Mauritania, dove è previsto un altro incontro rave; col passare del tempo i due mondi ,freakkettoni mezzi freaks ( con tanto di maglia coi personaggi del film di Todd Browning) con due monchi da un lato, un padre pingue piccolo borghese dall'altro, trova modo di collimare e di afrontare il viaggio che diventa una apologia di misticismo.
Il titolo non è un semplice riferimento suggestivo, ma una vera chiave di lettura: nella tradizione islamica, il Sirat è il ponte sottilissimo che, nel Giorno del Giudizio, ogni anima deve attraversare per raggiungere il paradiso o precipitare nell’inferno. Un passaggio pericoloso, instabile, che richiede fede, equilibrio, abbandono. 
Laxe costruisce l’intero film come una metafora di questo attraversamento: non un cammino lineare, ma una prova, un’esperienza liminale in cui i personaggi , e con loro lo spettatore , sono costretti a confrontarsi con la fine, con la perdita di senso, con l’idea stessa di salvezza.
Il Sirat, qui, non è solo un luogo ultraterreno: è il mondo contemporaneo, ridotto a un corridoio fragile sospeso sopra il baratro.
Nella sua prima parte, Sirat si presenta come un road movie nervoso e inquieto: i personaggi si muovono, fuggono, inseguono qualcosa che non è mai del tutto esplicitato. La strada diventa uno spazio di transito e di ansia, un movimento continuo che non porta a una meta rassicurante. Ma progressivamente il film si spoglia della sua struttura narrativa più riconoscibile.
Quando il racconto approda nel deserto, tutto cambia. Il paesaggio non è più solo uno sfondo, ma una condizione dell’anima. 
Il deserto di Laxe non è naturalistico: è una idealizzazione metafisica, uno spazio astratto in cui il tempo sembra collassare e la vita è ridotta al suo battito primordiale. È qui che la rave music, con il suo pulsare ossessivo, diventa il vero cuore vitale del film: una musica tribale, ipnotica, che guida i corpi come un rito collettivo.



La rave non è evasione, ma ultima forma di comunità, ultimo tentativo di sentirsi vivi mentre tutto intorno si disgrega. Il deserto diventa così una cattedrale laica, un luogo di trance in cui la vita insiste, ostinata, anche sull’orlo dell’estinzione.
Il film è attraversato da un sottotesto costante e inquietante: i rumori della guerra, lontani ma persistenti, non vediamo mai il conflitto, ma lo sentiamo e lo intuiamo dai dispacci radiofonici e dalle carovane militari che attraversano il deserto. È una presenza fantasma, come una minaccia che incombe su ogni inquadratura. Laxe non racconta un’apocalisse futura, ma un mondo già avviato verso la fine.
Emblematica la frase che attraversa il film come una sentenza:
“È arrivata la fine del mondo?” “La fine del mondo è iniziata già da molto tempo.”
In queste parole si condensa l’intero senso dell’opera. Sirat non parla di un evento improvviso, ma di un processo lento e inesorabile di disfacimento: delle relazioni, delle comunità, delle certezze spirituali e politiche. La fine non è spettacolare, è silenziosa, stratificata, quasi invisibile, e proprio per questo più angosciante.
Il finale del film è carico di una tensione quasi insostenibile. Laxe non offre spiegazioni, non concede catarsi. Ciò che conta non è ciò che accade, ma come viene vissuto. Il climax finale è una prova ultima, un attraversamento definitivo del Sirat, in cui la sopravvivenza fisica diventa secondaria rispetto a quella spirituale.
Il carico metaforico è evidente: il passaggio finale è un giudizio senza giudice, una soglia che ognuno deve attraversare da solo. Il film si chiude lasciando lo spettatore sospeso, costretto a interrogarsi non sul destino dei personaggi, ma, con angoscia, sul proprio.
Fondamentale, in questo percorso, è la scelta registica di Laxe di girare in Super 16mm, una decisione tutt’altro che nostalgica, che conferisce al film una potenza visiva ruvida, materica, quasi tattile. La grana dell’immagine amplifica il senso di precarietà, di mondo sul punto di sgretolarsi,ogni fotogramma sembra fragile, esposto al rischio di scomparire.
Il Super 16mm restituisce al cinema una fisicità che dialoga perfettamente con il corpo dei personaggi, con il sudore, la polvere, la fatica. È un’immagine che non consola, ma ferisce e proprio per questo rafforza il messaggio del film.
Il trionfo di Sirat a Cannes va letto anche nel contesto di una storia di fedeltà reciproca tra il festival e Oliver Laxe. Regista “mezzo spagnolo e mezzo francese”, Laxe è da tempo uno degli autori più coerenti e radicali del panorama europeo, e Cannes ha saputo riconoscerne il valore, esercitando quella tipica operazione di padrinaggio verso cineasti che hanno scelto la Croisette come casa naturale delle proprie opere.
I giudizi entusiastici ricevuti dal film non sono solo il frutto di una strategia festivaliera, ma il riconoscimento di un cinema che non scende a compromessi, che osa essere difficile, sensoriale, profondamente spirituale in un’epoca che diffida della spiritualità.
Sirat può apparire impegnativo, ostico, persino respingente ma il suo segreto sta proprio qui: non chiede interpretazioni immediate, bensì una disponibilità all’ascolto, è un film che lancia un grido  di dolore, di paura, ma anche di resistenza  e che chiede allo spettatore di accoglierlo senza difese.
Oliver Laxe firma un’opera che è insieme cinema e rito, racconto e attraversamento. Un film che non offre risposte, ma pone una domanda radicale sul nostro tempo, sulla nostra capacità di restare umani mentre tutto crolla. E forse, come il Sirat della tradizione islamica, anche questo film è una prova: sottile, pericolosa, necessaria.

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