La tensione che cresce silenziosa
E' un thriller con robusta iniezione di psicologia e di psicanalisi Sweet revenge, un lavoro condotto sul filo di una tensione sottile ma inesorabilmente crescente in cui fino alla fine non è chiaro se quello che emerge è una disamina di personalità schizofreniche o uno studio sui traumi infantili rimasti sepolti nell'abisso della psiche.
Yung e Siu-chun sono fratello e sorella, la loro vita è silenziosamente e irrimediabilmente segnata da un episodio dell'infanzia in cui persero i genitori a causa di una rapina in casa finita nel sangue: lei ,dall'apparenza fragile e delicata, soffre di una malattia cronica che la obbliga a contiune terapie e visite, lui felicemente sposato lavora come agente assicurativo con la sindroma nascosta del Robin Hood.
Tutto all'inizio scorre come fosse un noioso ed inutile racconto di disagi personali, almeno fino a quando Yung incontra un antiquario alcolizzato, col quale entra subito in sintonia grazie alla loro reciproca fragilità, che possiede in casa un oggetto che la ragazza riconosce essere del defunto padre.
Da lì la storia inizia a riannodare un po' di particolari che si era lasciata dietro di pari passo all'indagine che porta Yung a rivisitare il terribile episodio di venti anni prima; una indagine che troverà impulso dalle scene di un vecchio film in bianco e nero visto in TV.
La trama si ingarbuglia di pari passo con l'emergere della tensione , assecondata dall'apparente ambiguità che sembra trasparire da ogni personaggio.
Finale forse scontato , ma bello nella sua drammaticità.
Se è vero che la prima parte del film indugia un po' troppo su ritmi compassati e troppo riflessivi non mostrando, almeno in apparenza, nessuno dei canoni del thriller, la seconda parte è decisamente valida,: buon ritmo, tensione che lievita di nascosto , in maniera impercettibile, tema dell'identità che si affaccia prepotente, ambiguità della realtà in cui ciò che appare non è necessariamente ciò che è, sprazzi di indagine psicologica, tutti fattori che pian piano incollano allo schermo, e se il tema generale di per sè non certo tra i più originali, Ho sa gestire bene la narrazione, regalandosi momenti di bel cinema con immagini dosate con arte.
Il trio di attori protagonisti da il meglio di sè: Fan Bing-bing, bella e convincente nel suo ruolo impregnato di infelicità, Anthony Wong nel crepuscolare ruolo dell'antiquario perde forse un po' in quanto a esuberanza ma offre una buona prova e soprattutto Nick Cheung, camaleontico e bravissimo, che dimostra di saper reggere bene sia i ruoli da canaglia che quelli da buono.
Yung e Siu-chun sono fratello e sorella, la loro vita è silenziosamente e irrimediabilmente segnata da un episodio dell'infanzia in cui persero i genitori a causa di una rapina in casa finita nel sangue: lei ,dall'apparenza fragile e delicata, soffre di una malattia cronica che la obbliga a contiune terapie e visite, lui felicemente sposato lavora come agente assicurativo con la sindroma nascosta del Robin Hood.
Tutto all'inizio scorre come fosse un noioso ed inutile racconto di disagi personali, almeno fino a quando Yung incontra un antiquario alcolizzato, col quale entra subito in sintonia grazie alla loro reciproca fragilità, che possiede in casa un oggetto che la ragazza riconosce essere del defunto padre.
Da lì la storia inizia a riannodare un po' di particolari che si era lasciata dietro di pari passo all'indagine che porta Yung a rivisitare il terribile episodio di venti anni prima; una indagine che troverà impulso dalle scene di un vecchio film in bianco e nero visto in TV.
La trama si ingarbuglia di pari passo con l'emergere della tensione , assecondata dall'apparente ambiguità che sembra trasparire da ogni personaggio.
Finale forse scontato , ma bello nella sua drammaticità.
Se è vero che la prima parte del film indugia un po' troppo su ritmi compassati e troppo riflessivi non mostrando, almeno in apparenza, nessuno dei canoni del thriller, la seconda parte è decisamente valida,: buon ritmo, tensione che lievita di nascosto , in maniera impercettibile, tema dell'identità che si affaccia prepotente, ambiguità della realtà in cui ciò che appare non è necessariamente ciò che è, sprazzi di indagine psicologica, tutti fattori che pian piano incollano allo schermo, e se il tema generale di per sè non certo tra i più originali, Ho sa gestire bene la narrazione, regalandosi momenti di bel cinema con immagini dosate con arte.
Il trio di attori protagonisti da il meglio di sè: Fan Bing-bing, bella e convincente nel suo ruolo impregnato di infelicità, Anthony Wong nel crepuscolare ruolo dell'antiquario perde forse un po' in quanto a esuberanza ma offre una buona prova e soprattutto Nick Cheung, camaleontico e bravissimo, che dimostra di saper reggere bene sia i ruoli da canaglia che quelli da buono.
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