Giudizio: 6.5/10
Lady Gaga e tante griffe
La suoneria del cellulare (rigorosamente iPhone) suona ininterrottamente Bad Romance di Lady Gaga in lungo e in largo per tutto il film; gli amanti si dedicano Bad Romance nei locali, cantata da improvvisati chitarristi in stile fraschetta romana, passano gli emblemi delle più importanti griffe di moda italiane, giovani studiano il francese e dialogano nella lingua di Victor Hugo, Pechino , molto defilata e sufficientemente anonima, conformata allo stile occidentale, offre la sua immagine più glamour in cui non c'è più spazio per le bacchette per mangiare ma solo per vini rossi (probabilmente francesi); in questo scenario si muovono, spesso come anime vaganti, sette personaggi che cercano di colmare la loro solitudine con l'amore e che , simbolicamente , si incontreranno per un attimo fuggente, quasi onirico in un finale che lascia poco spazio per la luce, nonostante l'ostentato luccichio che deriva da uno stile di vita che guarda ad ovest come al modello principe.
Bad Romance è il film d'esordio di Francois Chang, giovane regista cinese che fa tutto lui (soggetto, montaggio, sceneggiatura ), che solo un'importante spinta produttiva francese ha sottratto alle cesoie della censura cinese, che, seppur meno austera di qualche anno, ben difficilmente digerisce tematiche gay e scene di nudo integrale e di sesso sufficientemente esplicito.
Quanto la Bad Romance di Lady Gaga abbia ispirato il regista non lo sappiamo, di sicuro però nelle tematiche le storie hanno ben poco di "cattivo", semmai sono lo specchio di un disagio metropolitano che dilata i rapporti umani e che crea delle solitudini esistenziali per le quali l'amore è come l'acqua per i pesci: un mezzo per sopravvivere ad ogni costo.
Sono storie di amore gay, di triangoli amorosi, di improvvisi scoppi di passione, di gelosie incrociate che offrono il substrato ad un racconto che pur zoppicando molto riesce comunque ad essere interessante; nel suo intimo Bad Romance è un film che ha il suo valore, peccato solo che almeno un paio di forzate ostentazioni ne limitino di molto il valore complessivo: troppe volte il giovane Chang di sente Wong Kar Wai e ritiene che basta azionare lo slow motion e sostenerlo con musiche struggenti per poter rievocare atmosfere da In the Mood for Love; ben più fastidioso è il continuo incessante impatinare di occidentale tutto il film usando qualsiasi cosa che simboleggi benessere e ricchezza mittleeuropea o americana, al punto che il film quasi perde la sua identità peculiare, cioè quella di essere una storia che ha al centro una tematica molto sentita nella Cina del Terzo Millennio come quella della solitudine che nasce dai profondi cambiamenti e che altri registi cinese hanno reso in maniera ben più profonda.
Errori di gioventù probabilmente, perchè per il resto Chang dimostra di avere ben chiare le regole della regia e di sapere comunque tenere in piedi una storia articolata e non semplice: aspettiamolo al varco nel suo prossimo lavoro per capire quale strada prenderà la sua carriera di regista.
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