Muko e Tsuma formano una coppia felice, affiatata che vive in un piccolo villaggio non lontano dal mare: il primo è un scrittore alle prime armi che cerca nell'atmosfera bucolica l'ispirazione , lavorando nel frattempo con grande passione e umanità nell'ospedale per anziani; lei ha sfidato la famiglia che era contraria al matrimonio e possiede il dono soprannaturale di comunicare con animali e piante.
Una atmosfera quasi New Age, verrebbe da dire, con i due che assaporano i pomodori che coltivano, vivono in grande tranquillità e armonia non solo tra di loro ma anche con il vicinato.
Sotto questa coltre rassicurante che emana calore umano però covano episodi del passato che riemergono e che hanno segnato le loro vite, traumi non risolti, piccoli segreti , cose non dette: all'improvviso si scopre che conoscono uno dell'altro molte meno cose di quanto pensassero, il difetto di comunicazione pare chiaro; oltre tutto Muko oltre a scrivere la bozza del suo nuovo romanzo tiene un diario segreto che Tsuma scoprirà e che diverrà un tramite con il quale comunicare tra di loro una volta giunti al punto di empasse in cui lei sa che lui sa che lei sa.
Quando Muko , al culmine della crisi di comunicazione, decide di andare a Tokyo per risolvere una volta per sempre qualcosa che gli è rimasto attaccato addosso (in tutti i sensi) , sembra proprio che la coppia sia sul punto di scoppiare, ma se risolvere gli affari pendenti con il passato è la cura del malessere, allora forse c'è la salvezza dietro l'angolo.
Ispirato ad un romanzo di Nishi Kanako, in veste qui di sceneggiatore, questo lavoro di Hiroki sembra volere riportare il regista verso zone narrative più consone a quanto ci aveva fatto vedere in passato, dopo le delusioni abbastanza cocenti di River e The Egoists: sebbene Yellow Elephant non sfiori neppure lontanamente i livelli di It's Only Talk e di Vibrator, se non altro ci mostra il consueto interesse di Hiroki per le tematiche legate alla solitudine e alla incomunicabilità.
Il risultato che ottiene con questa pellicola è contraddittorio: i temi a lui solitamente cari sono ben presenti, quello che difetta è una certa convenzionalità del racconto cui non bastano le innumerevoli metafore e i simbolismi, spesso arcani, a regalare quella originalità di cui si avvalgono molti dei suoi lavori precedenti.
Il tema della incomunicabilità, abusato non poco soprattutto in certo cinema d'autore giapponese, sembra qui estrinsecarsi soprattutto nel rapporto di coppia: anche laddove tutto sembra perfetto e dove sembra dominare persino una sovrannaturale ipercomunicabilità, in effetti nel profondo c'è una grossa carenza di empatia e di confidenza e non a caso , anche se così può sembrare, nella storia trovano spazio anche se in maniera defilata, una coppia di anziani e una di adolescenti, gli antipodi della dinamica affettiva uomo-donna.
Da un lato il passato non risolto, dall'altro una incapacità di esprimersi, al punto che Tsuma passa parte del suo tempo a confidarsi con una palma in giardino, sono lo specchio di una difficoltà che nasce e si alimenta poco alla volta fino al punto di non ritorno.
L'elefante giallo del titolo è quello che regala a Tsuma, quando aveva cinque anni ed era malata, la straordinaria capacità di ascoltare le voci della natura, in un inserto che tecnicamente è tra i momenti meglio riusciti del film, raccontato con una serie di tavole a colori disegnate dall'autore stesso del romanzo: è l'inizio del cammino di iperpercezione sensoriale di Tsuma che vede nella luce gialla abbagliante della luna, che solo lei riesce a vedere, il suo momento di massima espressione.
Con Yellow Elephant il regista giapponese torna insomma su sentieri a lui più consoni , ma il risultato non è pienamente soddisfacente come detto, nonostante la regia sia elegante e pulita, magari troppo spesso più rivolta ad una certo gusto estetico che ad un reale sviluppo narrativo.
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