Giudizio: 8/10
Le desolate e inquietanti steppe della Anatolia, il buio pesto appena squarciato dai fari di una piccola carovana di macchine che solca le strade nella notte, un assassino reo confesso che cerca di condurre le autorità sul luogo dove ha sepolto il morto, tre personaggi che scandiscono con le loro inquietudini i ritmi del racconto, una notte lunghissima che sembra non avere mai fine nella quale il destino ha fissato il punto d'arrivo in cui ognuno dovrà fare i conti con la propria coscienza, un lungo , a tratti pesantissimo, percorso costellato di angosce personali e di rimpianti; C'era una volta in Anatolia non è un thriller , come frettolosamente e stoltamente viene classificato: non c'è nessuna suspance, non c'è nessun nodo da sciogliere nè misteri da scoprire, c'è semmai un angoscioso stordimento di fronte a storie cui il titolo, quasi fosse l'incipit di una favola, rimanda.
Il lavoro di Nuri Bilge Ceylan è opera difficile da sostenere, lunga, che spesso sembra gettare nelle braccia di Morfeo, cadenzata da ritmi blandi, da movimenti di macchina misurata, logorroica nei suoi silenzi nello stesso modo come lo è negli altrettanto lunghi dialoghi, dominata , soprattutto nella prima parte, dai suoni della natura dell'altopiano stepposo, stormire di fronde, tuoni minacciosi, calpestii su terreni sassosi ed introdotta da una lungo piano sequenza iniziale attraverso una finestra il quale solo verso il finale riemerge nel suo significato.
Sulle tre macchine che solcano la notte dell'Anatolia c'è l'assassino e il suo complice e ci sono un solerte commissario di polizia , un procuratore ed un medico, il vagare tra campi e piccoli villaggi è inframezzato da lunghe discussioni e da lunghi silenzi e soprattutto c'è la storia della giovane donna che decise di morire che fa da collante del racconto, dipanata ad episodi , riferita a frammenti dal procuratore.
Sono proprio le vite , il carico di delusioni e di angosce dei tre personaggi chiave il nodo centrale del film: una lunga notte ed un primo mattino trascorsi nel tentativo di risolvere un caso , ma in fondo la ricerca è dentro sè stessi e i propri drammi.
Nuri Bilge Ceylan ha il suo stile, immutabile, ben riconoscibile che si tramuta spesso in un macigno per lo spettatore: macigno carico di tematiche frequentemente minimaliste , ma anche peso narrativo dai ritmi insostenibili; il regista turco vuole stipulare con chi guarda un patto scellerato: " Guarda tutto, sostieni il peso e alla fine capirai".
Ed in effetti è così, perchè al di là dell'esercizio dalle tinte lievemente masochistiche, C'era una volta in Anatolia è lavoro che lascia dentro molto: una perfezione stilistica che fa dell'essenziale e della mancanza di sovrastrutture la sua ragione d'essere primitiva, uno sguardo profondo all'interno del complesso universo dell'animo umano tormentato da domande spesso senza risposta, una narrazione sincopata che alterna sguardi, silenzi e dialoghi in maniera armonica e soprattutto una serie di domande e di riflessioni che rimangono nella mente ben oltre i titoli di coda.
Di fronte ad un'opera che mostra i suoi volti in maniera quasi schizofrenica, la Giuria del Festival di Cannes del 2011 ha pensato di chinarsi al carisma festivaliero del regista turco regalandogli il Gran Premio Speciale della Giuria , confermando una volta in più come il regista turco goda di una considerazione a livello dei Festival che raramente ci è data di vedere e che fa di lui il classico autore da rassegna impegnata; la critica ha gridato al capolavoro scorgendo tematiche e metafore insite nel film piuttosto forzate ( su tutte quella della Turchia alla ricerca di una sua stabilità sociale e politica); di sicuro C'era una volta in Anatolia è lavoro che conferma la rigorosa cifra stilistica del regista turco e soprattutto, seppur carico di molti dubbi e di alcune imperfezioni, regala dei momenti di Cinema degno dei più grandi capolavori, basta accettare il patto scellerato.
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