Giudizio: 8/10
Dopo avere raccontato per anni la decadenza e la morte di una civiltà e di uno stile di vita, quello della Cina comunista pre liberalizzazione, che lasciava dietro di sé immensi monumenti decadenti ( Il Distretto di Tiexi) o ferite rimaste aperte nel profondo degli animi umani dalla Rivoluzione Culturale ( He Fengming e The Ditch ) , lo sguardo di Wang Bing si è negli ultimi anni concentrato sulla nuova civiltà e il nuovo mondo che la via intrapresa dalla Cina ha creato: ragazzine rimaste sole tra le montagne perché i genitori vanno in città a cercare fortuna ( Three Sisters) oppure il problema degli emarginati ricoverati negli istituti di cura per malti di mente ( Feng Ai) fino ad approdare al racconto del flusso migratorio all’interno del paese che sposta masse di campagnoli in cerca di fortuna nelle città in rapida e caotica espansione.
Bitter Money ( Ku Qian ), presentato nella Sezione Orizzonti della 73° Mostra del Cinema di Venezia, è il risultato del consueto colossale studio antropologico sociale nel quale il regista cinese trasforma ogni suo lavoro: migliaia di ore girate nell’arco di due anni, 200 ore montate ovviamente ridotte a circa due ore mezza nel suo ultimo lavoro.
La telecamera di Wang Bing, mai così partecipe stavolta, riprende le condizioni di lavoro in una delle tante città dello Zhejiang ( Huzhou in questo caso) pullulanti di piccole e grandi imprese tessili nelle quali si riversano lavoratori in cerca di fortuna proveniente dalle aree rurali.
Con il suo ormai inconfondibile stile asciutto e lucido Wang Bing ci mostra non solo le condizioni di lavoro dettate da orari massacranti, ma ci mostra i lavoratori nei loro momenti di pausa dal lavoro, nelle loro sporadiche e fugaci interazioni con gli altri colleghi, calati in una città dove l’umidità trasuda e che dipinge con aloni di foschia le luci.
La recensione completa può essere letta su LinkinMovies.it
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