giovedì 27 febbraio 2025

Conclave ( Edward Berger , 2024 )

 




Conclave (2024) on IMDb
Giudizio: 5/10

Conclave di Edward Berger, incredibilmente selezionato nella categoria miglior film per la serata degli Oscar, si propone di immergere lo spettatore nei meandri segreti del Vaticano, raccontando l'intricato processo di elezione di un nuovo Papa. 
Diretto con ambizioni di thriller politico e morale, il film parte da un'idea potenzialmente interessante: rivelare le tensioni, i giochi di potere e le lotte ideologiche all'interno della Chiesa cattolica, attraverso il punto di vista del cardinale decano Thomas Lawrence, incaricato di supervisionare, il Conclave dopo la morte improvvisa di Papa Gregorio XVII. Tuttavia, se la prima parte del film riesce a costruire un’atmosfera carica di mistero e tensione, lo sviluppo successivo tradisce le premesse iniziali con una narrazione fiacca, stereotipata e priva di mordente.
La prima metà del film è senza dubbio la più riuscita. L’ambientazione solenne e austera del Vaticano è resa con grande cura visiva: i chiostri ombrosi, le stanze affrescate, la residenza di Santa Marta e la Cappella Sistina  contribuiscono a creare un’atmosfera di sospensione, quasi fuori dal tempo. 
In questa cornice, il film gioca bene le sue carte iniziali: intrighi sotterranei, votazioni incerte, conversazioni cariche di tensione morale e politica. I candidati al soglio pontificio incarnano diverse correnti della Chiesa: il liberale Aldo Bellini, il conservatore Joshua Adeyemi, il tradizionalista Joseph Tremblay e l’ultra-tradizionalista Goffredo Tedesco. 
Questa diversità offre uno spunto di riflessione interessante sui contrasti interni alla Chiesa e sulle direzioni che essa potrebbe intraprendere nel futuro.
In questa fase iniziale, il film riesce a costruire una tensione palpabile, giocando con il dubbio e l’incertezza morale. Il protagonista, il cardinale Lawrence, appare come una figura razionale e riflessiva, il cui compito non è solo quello di gestire il Conclave, ma anche di comprendere quali siano le vere intenzioni dei candidati e chi tra loro sia il più degno di guidare la Chiesa. 



Questo substrato morale, che sfida le certezze dogmatiche dei cardinali e li costringe a confrontarsi con le proprie ambizioni personali, è il punto più interessante del film. Peccato che questa tensione si disperda rapidamente nella seconda parte.
Se la prima parte funziona nel creare aspettative e nel delineare un intrigo avvincente, il resto del film spreca progressivamente ogni elemento di interesse scivolando in un finale quasi grottesco e quanto mai irreale che ha anche la pretesa di veicolare uno stantio e dozzinale messaggio. 
La narrazione si appiattisce in un procedere prevedibile, fatto di rivelazioni telefonate e personaggi che si riducono a semplici stereotipi. I cardinali, inizialmente introdotti con sfumature psicologiche interessanti, diventano presto delle caricature: il liberale idealista, il conservatore rigido, il tradizionalista oscuro, senza mai approfondire realmente il loro conflitto interiore o le loro reali motivazioni.
La tensione che il film aveva saputo costruire viene dissipata in una serie di colpi di scena che risultano forzati e poco credibili, fino alla comparsa , autentico deus ex-machina di un cardinale di cui nessuno conosceva l’esistenza giunto a bussare alla porta del Conclave.
Le dinamiche del voto, che avrebbero potuto essere il cuore pulsante della narrazione, si rivelano meccaniche e ripetitive, senza la suspense che ci si aspetterebbe da un thriller politico ben costruito. I dialoghi, invece di approfondire la complessità del dilemma morale alla base della scelta del nuovo Papa, spesso scadono in una retorica pomposa e priva di incisività.

mercoledì 26 febbraio 2025

Queer ( Luca Guadagnino , 2024 )

 




Queer (2024) on IMDb
Giudizio: 5.5/10


Luca Guadagnino affronta con Queer una sfida complessa e a quanto pare perseguita per anni: adattare per il cinema uno dei testi più personali e difficili di William S. Burroughs. Il romanzo dal titolo omonimo, scritto nei primi anni '50 ma pubblicato solo nel 1985, rappresenta un tassello fondamentale della letteratura beat, non solo per il suo contenuto esplicitamente omosessuale, ma per la sua natura frammentaria, febbricitante, ossessiva e drammaticamente visionaria. 
Il film, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, cerca di restituire l’essenza del libro con un rigore filologico che, tuttavia, finisce per limitarne l’efficacia cinematografica; come ogni opera di Guadagnino anche Queer ha creato una profonda divisione riguardo ai giudizi espressi dalla critica: capolavoro (o quasi) per qualcuno , deludente e scialbo per altri, confermando una caratteristica del cinema di Guadagnino capace di suscitare sentimenti diametralmente opposti.
Il protagonista della storia è William Lee , un alter ego trasparente di Burroughs, che vaga per  Città del Messico dove si è rifugiato per sfuggire alla legge americana che perseguita i tossicodipendenti, una pistola sempre nella fondina , in bella vista, come si fosse in un western metropolitano; passa il tempo con altri americani rifugiati oltre confine in locali per gay in cerca di avventure estemporanee almeno finchè non compare il giovane Gene Allerton ,  anche lui americano probabilmente in fuga anch’esso, uomo con cui intrattiene un rapporto ambiguo e irrisolto. 
Tra bar decadenti, stanze d’hotel impregnate di solitudine e un Sud America esotizzato ma mai realmente afferrato, il film segue il percorso errante del protagonista, accompagnandolo nella sua deriva esistenziale, che nella parte centrale prende una direzione autenticamente allucinata e visionaria, imperniata dalla ricerca nel Sud America di una pianta che aumenterebbe le capacità telepatiche.
Guadagnino opta per una trasposizione fedele, quasi reverente, del romanzo. I monologhi interiori di Lee, carichi di desiderio e disperazione, vengono tradotti in voice-over, e le situazioni ripetitive, quasi ossessive, in cui il protagonista cerca di catturare l’attenzione di Gene sono riproposte con una pedanteria che, se da un lato rispetta la struttura del libro, dall’altro rischia di appesantire il film. 
La fedeltà al testo, pur rispettosa, soffoca la possibilità di una vera reinterpretazione cinematografica, lasciando la pellicola priva di un’identità autonoma; l’impressione più forte che rimanda Queer è quella di un film confezionato con l’unica  finalità di esaltare il testo di riferimento e di farlo assurgere a soggetto cinematografico scintillante.
Uno degli aspetti più interessanti di Queer, sebbene non sviluppato compiutamente per la scelta quasi aprioristica della fedeltà al testo, è la sua esplorazione dell’ossessione amorosa come sintomo di una più profonda alienazione esistenziale. 
William Lee non è semplicemente innamorato di Gene: è ossessionato da lui, lo insegue con un bisogno che rasenta la dipendenza. Questa dinamica riflette il senso di spaesamento e di esclusione che Burroughs stesso provava, amplificato dal senso di colpa per la tragica morte della moglie Joan Vollmer, uccisa accidentalmente da lui in un gioco al bersaglio.



Accanto alla tematica del desiderio irrealizzabile, il film affronta il tema della dipendenza, sebbene in modo meno esplicito rispetto ad altri adattamenti di Burroughs (Il pasto nudo, di David Cronenberg, ad esempio, ne fa un elemento centrale). Qui la droga è più un sottotesto che un protagonista, uno status che il protagonista vive come simbolo del suo dolore interiore ,mentre il vero centro del racconto è il bisogno compulsivo di un altro essere umano, con il quale è impossibile stabilire una relazione soddisfacente.
Se la prima parte del film si concentra sull’ossessione amorosa e sulla deriva esistenziale di Lee, è nella parte centrale che Guadagnino introduce una dimensione più marcatamente allucinatoria e psichedelica. Mentre il protagonista e Gene si spostano verso l’interno del Sud America alla ricerca di una pianta con proprietà telepatiche, la narrazione si sfalda progressivamente, trasformandosi in un viaggio lisergico tra percezioni alterate e allucinazioni disturbanti.
Guadagnino utilizza effetti visivi come distorsioni dell’immagine, sfocature e una fotografia che vira su toni acidi e surreali per immergere lo spettatore nella mente frammentata di William Lee. Sequenze che mescolano realtà e immaginazione si susseguono in un crescendo ipnotico, con scene che evocano l’instabilità psichica del protagonista attraverso montaggi sincopati e bruschi cambi di prospettiva.
In questo frangente, il film riesce a distaccarsi per un attimo in maniera più netta dal rigore letterario per abbracciare un’estetica più libera, ispirata tanto al cinema sperimentale quanto all’opera di tanti registi che hanno fatto della psichedelia il loro credo cinematografico . 
Il viaggio psichedelico di Lee, segnato da incontri con personaggi enigmatici e simbolici, funge da metafora per la sua incapacità di distinguere tra desiderio e realtà, tra memoria e proiezione fantastica.

domenica 23 febbraio 2025

Io sono ancora qui [aka I'm Still Here , aka Ainda Estou Aqui ] ( Walter Salles , 2024 )

 




I'm Still Here (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10

Walter Salles, regista di grande versatilità e sensibilità , oltre che animato di poderoso senso civico, capace di trasformare il dolore della storia in una narrazione personale e universale, ci regala con Io sono ancora qui un’opera intensa, tra le migliori della sua filmografia alla pari probabilmente di Central do Brazil, esempio di grande cinema neorealista moderno, che si immerge nel dramma della dittatura brasiliana degli anni '70. Il film, basato su eventi realmente accaduti e intriso di una memoria storica dolorosa, va ben oltre il semplice racconto di una scomparsa politica: diventa una meditazione sulla fragilità umana, sulla forza interiore e sulle ripercussioni sociali di un regime autoritario.
Ambientato a Rio de Janeiro nel 1971, Io sono ancora qui colloca lo spettatore in un periodo segnato dalla paura e dalla repressione messi in atto da un regime totalitario in perfetto stile America Latina anni 70-80.
La storia ruota attorno alla figura di Rubens Paiva, un ex deputato laburista la cui misteriosa sparizione diventa emblema delle violenze perpetrate dal regime militare: prelevato in casa senza alcuna spiegazione , trasferito nei famigerati centri semiclandestini di interrogatorio e di tortura, accusato di essere un fiancheggiatore di gruppi terroristi, irrintracciabile e scomparso come si addice ad un vero “desaparecido” la cui storia avrà fine solo decenni dopo , col ritorno della democrazia  in Brasile, che porterà finalmente alla conclusione dell’indagine che ne decretò la tortura e la morte  avvenuta subito dopo il suo prelevamento. 
La sua scomparsa non rappresenta soltanto una tragedia personale, ma diventa il simbolo del “desaparecido”, una delle tante vittime di una politica di silenzi e cancellazioni che ha segnato la storia politica del Brasile. Salles utilizza questo tragico evento per esplorare come il potere politico, armato di autoritarismo e terrore, riesca a penetrare in ogni ambito della vita civile, distruggendo legami, fiducia e speranze.
Al centro del film vi è l’analisi del clima politico che ha reso possibili atrocità sistematiche. L’opera denuncia la brutalità di un regime che, attraverso arresti arbitrari e sparizioni forzate, ha instillato un clima di terrore e sospetto. Walter Salles non si limita a presentare fatti storici, ma ci offre una riflessione critica su come il potere venga utilizzato per eliminare ogni forma di dissenso. 
La ricerca inesorabile della verità da parte di Eunice, moglie di Rubens, assume qui una valenza politica fondamentale: ogni documento ritrovato, ogni testimonianza raccolta diventa un atto di ribellione contro l’oblio imposto dal regime. In questo senso, la sua lotta si trasforma in un manifesto di resistenza, un invito a non dimenticare e a dare voce a chi è stato cancellato dalla storia ufficiale. 
Parallelamente al filone politico e civile , il film si poggia su quella che per tutta la prima parte appare come una storia famigliare, tra giornate in spiaggia, giochi dei ragazzini, pranzi, feste , fotografie, il ritratto insomma di una famiglia come tante negli anni 70 che furono duri non solo in Sudamerica messo sotto scacco da una serie di regimi totalitari spietati, ma per diverse ragioni anche in Europa ed in Italia in particolare.



Il film non si ferma alla dimensione politica, ma scava anche nelle ripercussioni sociali di un regime che divora il tessuto stesso della società. La famiglia Paiva viene rappresentata come un microcosmo in cui il dolore individuale si fonde con il trauma collettivo. La scomparsa di Rubens non è solo un fatto isolato, ma una ferita aperta che mina la coesione e la fiducia all’interno di un nucleo familiare e, per estensione, della comunità in cui vive. 
La paura e l’incertezza invadono ogni relazione: il tradimento, l’isolamento e l’autocensura sono elementi che emergono in modo struggente, rivelando una società imprigionata dall’angoscia e dalla sospensione del quotidiano. 
In questo contesto, Io sono ancora qui si fa portavoce delle storie di chi ha dovuto sopportare il peso della censura e dell’oppressione, rendendo palpabile la sofferenza di intere generazioni.
Nel cuore della narrazione si trova la figura di Eunice, autentica eroina  che col passare del tempo diventa la vera protagonista del film , personaggio di altissimo spessore civile e morale, interpretata con grande intensità da Fernanda Torres che pone una seria candidatura al premio Oscar come migliore attrice protagonista. 
La trasformazione della protagonista è il fulcro emotivo del film: all'inizio, Eunice appare come una donna intrappolata in un’esistenza segnata dalla perdita e dal silenzio imposto; la scomparsa del marito la lascia vulnerabile e disorientata. Tuttavia, con il procedere della storia, emerge il suo inaspettato coraggio: intraprende un percorso di autodeterminazione che la porta a confrontarsi non solo con il passato, ma anche con le ingiustizie che hanno segnato la sua vita, intraprende una infinita lotta civile volta al riconoscimento della morte del marito e di tutti gli scomparsi perseguitati dal regime. La scelta di abbracciare il dolore come strumento di verità e di giustizia rappresenta un potente messaggio di forza civile. In un ambiente in cui l’indifferenza politica cerca di cancellare le identità, la determinazione di Eunice a non lasciarsi inghiottire dall’oblio diventa un atto di ribellione e un simbolo della forza interiore umana.

lunedì 17 febbraio 2025

The Girl with the Needle ( Magnus von Horn , 2024 )

 




The Girl with the Needle (2024) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Siamo a Copenaghen nel 1919, sul finire della Grande Guerra; Karoline, una giovane operaia tessile, cerca di tirare avanti come può, dopo che il marito è partito per la guerra e non è mai più tornato; la fortuna sembra girare dalla sua parte quando il proprietario della fabbrica dove lavora si invaghisce di lei  e dal fugace rapporto ne esce incinta; ovviamente nella rigida e classista società dell’epoca , nonostante le promesse dell’uomo, il matrimonio non si farà mai grazie all’intervento della madre di lui che spegne ogni speranza nella giovane.
Senza risorse e in una società che non offre alcun sostegno alle madri nubili, si trova costretta a cercare aiuto. Disperata, si affida a Dagmar Overbye, una donna che gestisce un’attività illegale di adozioni, promettendo di trovare famiglie benestanti per i neonati non desiderati. 
La donna appare a Karoline come una insperata ancora di salvezza  salvo poi pian piano capire il tipo di attività che la donna svolge , cioè tenere le redini di una organizzazione che traffica  neonati macchiandosi anche di altri reati . Man mano che il rapporto tra le due donne si sviluppa, Karoline inizia a sospettare la verità e si trova di fronte a una scelta impossibile: restare in silenzio per salvarsi o cercare giustizia per le vittime innocenti. Il film segue il suo percorso tra il senso di colpa, la paura e il tentativo di spezzare il ciclo di violenza che si nasconde dietro le mura della città.
Presentato all’ultimo Festival di Cannes, ispirato ad eventi e personaggi reali , la pellicola è il terzo lungometraggio diretto dal regista svedese Magnus von Horn che ha collezionato numerosi riconoscimenti nei festival di tutto il mondo  e la nomination all'Oscar nella categoria del Miglior Film straniero.
L’ambientazione del film è uno degli elementi più suggestivi della pellicola. Siamo nel 1919, in una Copenaghen ancora segnata dalle ferite della Prima Guerra Mondiale. La società danese di quegli anni è scossa da forti disuguaglianze: da un lato, una borghesia che tenta di ricostruire il proprio benessere; dall’altro, una classe operaia allo stremo, fatta di donne e uomini che lottano quotidianamente per la sopravvivenza. Le condizioni di vita precarie spingono molte donne a scelte drammatiche, come la vendita dei propri figli a intermediari che promettono adozioni a famiglie più abbienti.
Il bianco e nero della fotografia non è solo un vezzo stilistico, ma un vero e proprio strumento espressivo: accentua il contrasto tra luce e ombra, tra speranza e disperazione, tra innocenza e colpa. Le strade fangose, i vicoli umidi e le stanze anguste della periferia industriale diventano il palcoscenico di una tragedia che si consuma tra silenzi e sguardi smarriti.
Al centro della narrazione troviamo due figure femminili potenti e tragiche, la cui interazione è il fulcro emotivo del film.



Karoline (interpretata da Vic Carmen Sonne) è una giovane operaia tessile che incarna la condizione delle donne proletarie dell’epoca. Quando scopre di essere incinta , a causa di una fugace relazione impossibile col padrone della fabbrica, il suo mondo già precario crolla definitivamente. Il marito è disperso in guerra e lei non ha alcun supporto economico né sociale, sebbene , come dimostra la prima scena del film, non le manchi certo la tenacia. La sua maternità, anziché essere un evento di gioia, diventa un peso insostenibile.
La figura della protagonista è straordinaria nel restituire l’angoscia di una donna intrappolata tra le convenzioni sociali e la cruda necessità della sopravvivenza. Il suo volto, spesso illuminato da luci fioche e instabili, è il ritratto della vulnerabilità: occhi pieni di terrore, gesti incerti, una voce che a tratti si spezza, un fantasma che spunta tra le brume scandinave.
Dagmar Overbye (interpretata dalla straordinaria Trine Dyrholm) è una figura diabolica e allo stesso tempo tristemente umana. Apparentemente una donna rispettabile, Dagmar gestisce un servizio di adozione clandestina, promettendo di trovare famiglie benestanti per i bambini indesiderati. Ma dietro questa facciata si nasconde un orrore indicibile che preferiamo non spoilerare sebbene il film non sia certo un thriller, semmai in alcuni momenti al climax della tensione si possa quasi configurare come un horror.
Dyrholm costruisce un personaggio complesso, che sfugge alla facile categorizzazione del “male assoluto”. 
Non si tratta di una semplice donna senza scrupoli, ma di una donna che, nel contesto disperato dell’epoca, ha trasformato il crimine in una sorta di impresa sistematica., una sorta di angelo pronto a liberare da un peso le persone che vorrebbero ma non hanno il coraggio di fare qualcosa ( in tal senso è emblematica la scena del processo in cui di fronte alle urla di odio che si sente addosso pronuncia la agghiacciante frase: “dovreste darmi una medaglia , perché io faccio quello che voi vorreste fare ma non ne avete il coraggio”). Il film lascia intravedere anche i fantasmi che la tormentano, le sue crepe emotive, il suo rapporto ambivalente con Karoline, che sembra risvegliare in lei un barlume di umanità soffocata, motivo per cui in alcuni  momenti la sua figura sembra perdere quell’aura di malefico in favore di una umanità forse grezza e tragica.
Uno degli aspetti più disturbanti del film è il modo in cui esplora la maternità non come un atto d’amore, ma come una condizione di vulnerabilità e dolore. Karoline e Dagmar rappresentano due facce della stessa tragedia: una donna che è costretta ad abbandonare il proprio figlio e un’altra che ne fa mercato. Il film pone domande inquietanti: quanto il contesto sociale influisce sulle scelte materne? Può una madre essere costretta ad abbandonare il proprio bambino per necessità e non per mancanza d’amore?

giovedì 6 febbraio 2025

The Brutalist ( Brady Corbet , 2024 )

 




The Brutalist (2024) on IMDb
Giudizio: 10/10

Brady Corbet torna alla regia con The Brutalist, trionfa a Venezia ottenendo un meritatissimo Leone d’Oro che diventa l’avvio di una messe di riconoscimenti ( compresa una decina di nomination per gli Oscar) come raramente si era visto negli ultimi anni: opera monumentale che esplora l'arte, il potere, la memoria e l'identità attraverso la vita di Laszlo Toth, un architetto ungherese sopravvissuto all'Olocausto e un cast stellare  con Adrien Brody , Guy Pearce e Felicity Jones, il film si pone come un riflessione ambiziosa sull'ambivalenza del sogno americano, sulle dinamiche di sfruttamento nell'arte , sul peso del passato, ma soprattutto come un gigantesco racconto che racchiude in sé tutte le vicende del XX secolo, strutturandosi come un opera maestosa, dal sapore antico, intrisa di quella  magnificenza propria del Cinema eroico, quello che negli anni 50 e 60 ha costruito il sogno su cellulosa di milioni di persone.
La pellicola segue la vita di Laszlo Toth ( personaggio di finzione), un brillante architetto ebreo ungherese che emigra negli Stati Uniti, raggiungendo un cugino emigrato già da anni, dopo essere sopravvissuto ai campi di sterminio  alla fine della Seconda guerra mondiale mentre la moglie rimane bloccata in Europa in attesa di raggiungerlo. 
Il film copre un arco temporale di circa trent'anni, raccontando le difficoltà di inserimento in una società americana apparentemente accogliente, ma in realtà segnata da pregiudizi, razzismo e discriminazioni. All’inizio la vita è difficile, la separazione dal cugino lo porterà a lavorare nei cantieri fino a quando incontrerà il magnate dell'industria Harrison Lee Van Buren che  sembra aprire a Laszlo una porta verso il successo e il ritorno alla sua arte, ma la loro relazione si trasforma rapidamente in un intricato gioco di potere che culmina in un drammatico confronto.
Il film alterna piani temporali diversi, utilizzando il formato VistaVision per creare una narrazione epica e senza tempo, in cui il passato di Laszlo continua a riecheggiare nel suo presente.
Il film inoltre si compone di un prologo, due atti e un epilogo che danno una struttura narrativa mirabile all’opera completa.
Parlare di The Brutalist senza eccedere in iperboli o in aggettivi superlativi non è facile, così come potrebbe non essere semplice seguire il film nei suoi 215 minuti di durata, ma questo è un'opera nella quale , va detto, non esiste un minuto che sia seppur minimamente superfluo, perché al suo interno c’è il racconto di un’epoca che diventa epopea nel suo carico di drammaticità.



L’inizo del film, un prologo di pochi minuti, mette già chiaramente i paletti su cosa dobbiamo aspettarci: Laszlo si muove in una moltitudine di persone, gomitate, spallate, urla , grida, in un miscuglio di lingue fino a quando il buio inizia a lasciare spazio ad un barlume di luce sempre più potente  e alla fine la prima immagine che vede Laszlo vomitato fuori dalla nave, e che vediamo anche noi, è la Statua della Libertà capovolta: Brady Corbet  in The Brutalist destruttura il mito del sogno americano, presentandolo come una promessa illusoria per chi non appartiene all'élite dominante, lo trasformerà in un incubo, sbriciolerà quella che è stata una illusione per molti e  il protagonista, pur essendo un genio dell'architettura, si scontra con le barriere sociali ed economiche che limitano la sua ascesa in una America del dopoguerra che è dipinta come un luogo di opportunità solo per alcuni, mentre gli emigrati devono lottare contro la diffidenza e il cinismo di una società che non ha ancora superato le sue contraddizioni interne, ma che già ha eletto il profitto e il dollaro a divinità pagana cui immolarsi.
Questa disillusione si manifesta non solo nelle difficoltà economiche e professionali di Laszlo, ma anche nell'umiliazione costante di dover accettare compromessi imposti da chi detiene il potere. Il personaggio di Harrison Lee Van Buren incarna il volto oscuro, l'altra faccia, del sogno americano: un uomo di successo che sfrutta il talento altrui, trasformando l’arte in un'arma di dominio, ma al tempo stesso un personaggio che soffre della sua inferiorità culturale, specchio dell’annoso complesso che pesa sulla schiena dell’americano rispetto all’europeo. 
Laszlo si trova così a vivere una doppia condizione di esilio: non solo come emigrato in una terra straniera, ma anche come artista costretto a sacrificare la propria integrità per sopravvivere, a subire umiliazioni sottili, quando non sfacciate, a dover scendere a compromessi con persone che chiaramente non possiedono le sue conoscenze maturate nella prestigiosa Bauhaus e quindi a dovere in qualche modo rinnegare il suo concetto di arte.
Uno degli aspetti più potenti di The Brutalist è il modo in cui la storia personale di Laszlo si intreccia con gli eventi del XX secolo, trasformando il film in una cronaca intima e universale al tempo stesso. La narrazione attraversa periodi storici cruciali: l’Europa devastata dalla guerra, l’affermarsi degli Stati Uniti, non distrutti dalla guerra, come paese dominante, l’industrializzazione forzata del dopoguerra, l’emergere di una nuova élite capitalista che modella l’arte e la cultura secondo i propri interessi, le persecuzioni subite dagli ebrei, il sogno della terra promessa che diventa realtà, salvo trasformarsi anch’esso in una tragedia, l’arte che sopravvive alla devastazione della guerra.
Il film non si limita a raccontare la vita di un uomo, ma diventa un affresco storico che evidenzia le dinamiche di potere e le ingiustizie che hanno segnato il secolo scorso. Attraverso il destino di Laszlo, lo spettatore assiste al tramonto delle illusioni di un'intera generazione di intellettuali e artisti emigrati, che hanno trovato in America non solo una nuova patria, ma anche un nuovo teatro di lotta per l'affermazione della propria identità.

sabato 1 febbraio 2025

Nosferatu ( Robert Eggers , 2024 )

 




Nosferatu (2024) on IMDb
Giudizio: 6/10

Robert Eggers, noto per la sua capacità di fondere storia e mito in narrazioni cinematografiche avvincenti, quasi un capostipite del folk horror grazie al grande successo ottenuto con la sua opera prima The VVitch ,affronta con il suo Nosferatu una sfida ambiziosa: reinterpretare un classico del cinema espressionista tedesco del 1922, diretto da F.W. Murnau, e confrontarsi con le successive rivisitazioni, tra cui quella di Werner Herzog del 1979.
Il risultato è un'opera che, pur rispettando le radici del mito, offre una prospettiva più contemporanea e sicuramente personale, nonostante ciò non significhi automaticamente la perfetta riuscita dell’opera.
Ambientato in un'Europa del XIX secolo ricreata con meticolosa attenzione ai dettagli, il film segue la storia di Thomas Hutter , inviato in Transilvania per concludere una vendita immobiliare con il misterioso Conte Orlok che vorrebbe acquisire un vecchio e malridotto maniero  nella città in cui vive con la moglie che appare ben poco propensa al viaggio del marito, il quale da parte sua pensa con questa operazione immobiliare di guadagnare una bella cifra che possa portare beneficio alla sua famiglia. 
Ben presto scopriremo quale è il progetto del Conte , alias Nosferatu, con tanto di contratto estorto al malcapitato Hutter che causerà il coinvolgimento della moglie Ellen il vero bersaglio del Conte.
Un prologo molto ben costruito ci aveva già messo sulla giusta strada mostrandoci come Ellen sia perseguitata dalla presenza di Nosferatu sin dalla giovane età.
Deciso a far rispettare il contratto il Conte sbarcherà in Germania portandosi dietro, bara, terra di sepoltura e una miriade di topi portatori di peste.
A differenza della versione di Murnau del 1922, dove Ellen appare più come una vittima sacrificale, in questa rilettura il suo ruolo è più attivo e sfaccettato, si poterebbe azzardare addirittura antesignano del femminismo. 
Il vampiro non è solo un predatore assetato di sangue, ma una creatura tragica che sembra attratto da Ellen per qualcosa di più profondo della semplice sete. Questa dinamica ricorda la rappresentazione del Dracula di Coppola, dove il vampiro è una figura tormentata dal suo stesso amore impossibile ed in effetti per certi versi e fatte le dovute considerazioni il Nosferatu di Eggers può essere interpretato come una grande, infinita e tragica storia di amore.
Uno dei temi centrali del film è il rapporto tra amore e morte, tra attrazione e distruzione:la figura del vampiro incarna da sempre il binomio tra desiderio carnale e paura della fine, un archetipo che Eggers sviluppa attraverso la relazione tra il Conte Orlok ed Ellen.



La tensione tra Orlok ed Ellen si manifesta in un sottile gioco di seduzione e repulsione, nel quale la giovane donna si trova divisa tra la paura e il fascino di questa creatura immortale. Eggers sottolinea questa tensione attraverso un uso evocativo delle luci e delle ombre, oltre che con una regia che accentua il senso di minaccia costante.
Nel film di Murnau, il vampiro rappresentava la peste, una minaccia che si diffondeva come un morbo, portando morte e decadenza nelle città. Anche Eggers riprende questa simbologia, ma in una chiave più psicologica e sociale.
Orlok non è solo il portatore di un contagio fisico, ma anche di un male metafisico , e quindi ben più potente,che si insinua nelle vite dei personaggi, portando con sé paranoia, superstizione e disgregazione sociale. La sua presenza distrugge non solo i corpi, ma anche le menti, insinuando il sospetto e il caos.
Il vampiro di Eggers, interpretato da Bill Skarsgård, è una creatura solitaria e malinconica, più vicina alla rilettura gotico-espressionista  di Werner Herzog   che al mostro senza anima del 1922 e in effetti quella ombra orrorifca che si staglia sulle pareti ,sulle case e sulla città, l’ombra delle sue mani adunche come artigli mortali ricordano non poco il Klaus Kinski di Herzog
Orlok non è solo un predatore, ma una figura tragica, condannata a un’esistenza eterna senza amore e senza possibilità di redenzione. Il suo desiderio per Ellen non è solo una fame fisica, ma una ricerca disperata di connessione e calore umano. Tuttavia, ogni suo tentativo di avvicinarsi porta solo morte e distruzione, rendendolo un emarginato e segregato della società e un simbolo della condanna dell’immortalità.
Eggers accentua questa dimensione tragica attraverso la fotografia cupa e le ambientazioni gotiche, che enfatizzano l’isolamento del vampiro nel suo castello decadente.
Il film esplora anche il contrasto tra razionalità e credenza nel soprannaturale. Thomas Hutter, il protagonista, parte per la Transilvania con uno spirito pragmatico e scettico, ma si trova presto immerso in un mondo dove le leggi della scienza non sembrano più applicarsi.
I contadini locali, con le loro leggende e superstizioni, non vengono presentati come semplici ignoranti, ma come custodi di un sapere antico che il mondo moderno tende a rifiutare. Il film suggerisce che la negazione del soprannaturale da parte della società occidentale potrebbe aver lasciato scoperti i suoi abitanti di fronte a minacce che vanno oltre la comprensione umana.
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