giovedì 24 aprile 2025

Sons ( Gustav Möller , 2024 )

 




Sons (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Con Sons, Gustav Möller, regista svedese di nascita ma danese cinematograficamente, compie un passo rischioso e necessario: si allontana dal thriller claustrofobico e sperimentale di The Guilty, la sua interessante opera prima, per abbracciare una narrazione più classica, fisica, che si nutre del corpo e dello spazio tanto quanto della tensione interiore. 
Ambientato quasi interamente tra le mura di un carcere  danese, il film racconta una storia apparentemente semplice: Eva, agente penitenziaria integerrima e rispettata, si trova a dover gestire il nuovo arrivato, Mikkel, giovane detenuto con un passato di violenza e sofferenza. Che l'agente abbia qualcosa a che fare col detenuto lo si capisce subito da quando osserva dalla finestra il suo arrivo al carcere e poi chiede di essere trasferita nella sezione per delinquenti incalliti e considerati irrecuperabili dove appunto è indirizzato il nuovo arrivato.
Tra i due si instaura da subito un rapporto ambiguo tra carnefice e vittima carico di tensione in cui i ruoli tendono a ribaltarsi  , un rapporto che progressivamente porta a galla colpe rimosse, ferite non rimarginate, bisogni di vendetta mascherati da aneliti di redenzione.
Möller costruisce il suo film come un duello silenzioso, dove ogni scambio, ogni gesto di vicinanza o di sfida, ogni sguardo trattenuto diventa un movimento nel gioco complesso del dominio psicologico. 
Non c'è mai, in Sons, una netta distinzione tra vittima e carnefice: Eva e Mikkel si osservano, si manipolano, si feriscono, in un ribaltamento continuo dei ruoli che smantella qualsiasi certezza morale. E proprio su questo crinale ambiguo si gioca la potenza del film: Möller non offre punti di vista privilegiati, non chiede allo spettatore di schierarsi, ma lo trascina in una zona grigia dove redenzione e vendetta si intrecciano fino a diventare indistinguibili.
La prima parte del film è un esempio magistrale di costruzione della tensione. Senza ricorrere a colpi di scena o a facili espedienti, Möller lavora sulla compressione degli spazi, sulla ripetitività dei gesti quotidiani, sulla sottile violenza che si insinua nei silenzi. Il carcere non è solo il luogo fisico della reclusione, ma diventa il simbolo della prigionia emotiva che lega i due protagonisti: Eva è intrappolata nel suo bisogno di espiazione attraverso la vendetta, Mikkel nella sua furia impotente contro un mondo che lo ha tradito molto prima del suo ingresso in carcere. Entrambi cercano nell'altro una forma di liberazione che non potrà mai arrivare.


La redenzione in Sons è una chimera: Eva tenta disperatamente di redimere Mikkel non tanto per salvarlo, quanto per liberare sé stessa dal peso della propria colpa. Ma ogni tentativo di salvezza si rivela un atto egoistico, un gesto di appropriazione che non rispetta l'altro come essere autonomo. 
Allo stesso modo, la vendetta di Mikkel, più sottile e psicologica che fisica, è una risposta al tradimento del mondo adulto, un tentativo di riaffermare una dignità negata, anche a costo di distruggere chi tenta di aiutarlo.
In questa dinamica implacabile, Möller si dimostra spietato e rigoroso: non concede sconti emotivi, non offre facili redenzioni né redenzioni spettacolari. I personaggi si muovono in un limbo morale dove ogni scelta sembra condannata al fallimento. Il film evita il melodramma ma ne conserva l'intensità emotiva, dosando con sapienza momenti di apparente stasi a esplosioni improvvise di violenza contenuta.
Dal punto di vista formale, Sons conferma la maturità di Möller: la regia è asciutta, precisa, capace di trasformare i corridoi anonimi del carcere in spazi carichi di minaccia latente. La macchina da presa segue i personaggi con discrezione, senza virtuosismi inutili, ma anche senza mai perdere di tensione. L'uso degli spazi chiusi, la fotografia fredda e priva di concessioni estetiche, la scelta di evitare musiche invasive, tutto contribuisce a creare un'atmosfera claustrofobica, tornando quindi per altre vie a quelle atnmosfere che dominavano The Guilty, che rende palpabile il conflitto interno dei protagonisti.
Fondamentale è il lavoro degli attori: Sidse Babett Knudsen offre un'interpretazione intensa e controllata, restituendo con grande finezza la complessità di Eva, il suo oscillare tra forza apparente e fragilità profonda. 

Bird ( Andrea Arnold , 2024 )

 




Bird (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10

Andrea Arnold è da anni una delle voci più sensibili e coerenti del panorama cinematografico internazionale. Fin dai tempi di Red Road (2006) e Fish Tank (2009), la regista britannica ha raccontato con sguardo sincero la vita ai margini, scegliendo sempre storie di giovani donne in lotta con un contesto sociale difficile. Il suo cinema, caratterizzato da uno stile visivo ruvido e partecipato, si è sempre mosso tra il realismo più crudo e improvvisi slanci di lirismo.
Con Bird, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2024, Andrea Arnold torna a raccontare il mondo degli ultimi, ma questa volta lo fa spingendosi ancora più in là nella ricerca di una forma narrativa libera, quasi istintiva, capace di fondere realismo sociale, favola urbana e racconto di formazione. 
Il risultato è un film che mantiene la durezza del reale pur aprendosi a spazi di immaginazione e di meraviglia, costruendo una storia che ha la leggerezza di un sogno ma il peso specifico delle esistenze ferite.
Al centro del film c’è Bailey, una dodicenne cresciuta in un ambiente familiare instabile: il padre, Bug, è un eterno adolescente incapace di prendersi responsabilità, più amico che genitore, mentre la madre è assente, persa in un’altra deriva pseudosentimentale tossica con a carico altre tre figli piccoli avuti da qualcun’altro e verso cui Bailey ha però un sincero affetto e amore quasi da surrogato materno. 
Quando Bug si prepara a risposarsi con una nuova compagna molto più giovane di lui, Bailey si sente tradita e smarrita. È in questo momento di crisi che la ragazza incontra Bird, una figura misteriosa, al tempo stesso reale e simbolica: un ragazzo-uccello, forse uno spirito libero, forse una creatura della sua immaginazione, sicuramente un essere bastonato anch’esso dalla vita sin dalla sua infanzia.
Attraverso l'incontro con Bird, Bailey intraprende un percorso di crescita fatto di scoperte, abbandoni, piccole rivolte e riconciliazioni interiori. Arnold costruisce la narrazione evitando la linearità tradizionale: la storia si sviluppa per accumulo di sensazioni, di piccoli eventi quotidiani, di dialoghi frammentati e immagini che evocano più di quanto raccontino esplicitamente.



Bird si iscrive nella lunga tradizione del realismo britannico, ma Andrea Arnold se ne distacca con decisione, rifiutando ogni didascalismo o giudizio: se si sente forte l’influsso di Ken Loach dal punto di vista delle atmosfere e delle ambientazioni, per certi versi però Bird richiama più alcuni tratti del cinema di Sean Baker e della sua impronta poetica.
Il contesto sociale in cui vive Bailey è quello di una working class disgregata, intrappolata in una periferia degradata e priva di futuro: case popolari fatiscenti, lavori precari, rapporti familiari sfilacciati. Tuttavia, il film non insiste sul degrado in modo compiaciuto o accusatorio. La regista mostra la povertà materiale e affettiva senza trasformarla in spettacolo, mantenendo sempre una profonda compassione per i suoi personaggi.
In questo senso, il tema della "famiglia" è centrale. Ma è una famiglia fragile, disfunzionale, in continua ridefinizione: non più un'istituzione rigida, bensì una rete instabile di relazioni, affetti spezzati e ricostruiti, errori ripetuti. Bug, interpretato con struggente verità da Barry Keoghan, incarna perfettamente questa ambiguità: è affettuoso ( a modo suo) ma irresponsabile, tenero ( sempre a modo suo) ma incapace di proteggere chi ama.
Il film si muove su un crinale sottile tra il dramma realistico e la favola contemporanea. Bird è il personaggio che introduce questa dimensione sospesa: figura eterea e sfuggente, a metà tra un ragazzo vagabondo e un'entità magica, egli incarna il desiderio di fuga e di leggerezza che Bailey prova ma non riesce a esprimere a parole. La regista non chiarisce mai del tutto la natura di Bird: è un vero outsider? Un angelo custode? Una proiezione della mente della ragazza? Un altro prodotto di una società spietata? Questa ambiguità è una delle forze del film: Arnold non cerca risposte definitive, ma suggerisce possibilità, aprendosi a un immaginario che richiama la letteratura fiabesca senza perdere il contatto con il terreno accidentato della realtà.
Il volo, la libertà, la trasformazione sono simboli ricorrenti. L'uccello — da sempre figura mitologica di passaggio, di cambiamento — diventa emblema del percorso interiore di Bailey, del suo bisogno di trovare uno spazio proprio nel mondo, di staccarsi da una condizione che sembra predeterminata.
Bird è anche e soprattutto un racconto di formazione in cui però, per fortuna, manca tutto quel corredo stilistico e di situazioni piuttosto dozzinali che si riscontra di sovente;  Bailey si muove attraverso un territorio emotivo accidentato: il senso di abbandono, il desiderio di essere vista e amata, la scoperta della propria forza. Arnold riesce a raccontare questa crescita senza didascalismi o tappe forzate, non c’è un evento traumatico risolutivo, ma una lenta, faticosa, bellissima presa di coscienza, costruita con la sua forza interiore e con il suo sguardo da adolescente matura.

lunedì 21 aprile 2025

The Shrouds [aka The Shrouds-Segreti Sepolti] ( David Cronenberg , 2024 )

 




The Shrouds (2024) on IMDb
Giudizio: 6.5/10

The Shrouds (sottotitolo italiano: Segreti sepolti) è l’ultima fatica del regista David Cronenberg, presentata in concorso al Festival di Cannes 2024. Un’opera profondamente personale, inquieta, stratificata, che sembra sintetizzare molti dei temi cardine della sua filmografia — il corpo, la tecnologia, la perdita di identità — attraverso una narrazione intima e algida, carica di dolore esistenziale e riflessione filosofica. 
È anche il suo film più esplicitamente autobiografico, nato come una elaborazione del lutto per la morte della moglie Carolyn Zeifman, avvenuta  nel 2017. The Shrouds è quindi un’opera sulla morte, ma anche della speculazione sul futuro, sul corpo e sull’irreversibilità della perdita.
Il protagonista Karsh (interpretato da Vincent Cassel, in uno dei ruoli più complessi e asciutti della sua carriera, quasi un clone anche fisicamente del regista stesso) è un imprenditore sessantenne che, devastato dalla morte della moglie Becca, ha sviluppato un’innovativa tecnologia funeraria chiamata “GraveTech” strutturata su un cimitero privato ( con annesso ristorante di alta qualità) nel quale attraverso  un sistema iper tecnologico basato su un sudario che permette di osservare in tempo reale la decomposizione dei corpi dei propri cari attraverso delle telecamere installate nei sudari stessi e nelle bare. La finalità — o forse l’illusione — è quella di continuare a “comunicare” con chi non c’è più, di prolungare un legame, di non arrendersi al vuoto definitivo del distacco.
Quando un atto vandalico distrugge alcune tombe dotate di GraveTech, tra cui quella della moglie, Karsh si ritrova coinvolto in un’indagine che è prima di tutto interiore. Il film prende presto però una piega cospirativa, con complotti che coinvolgono russi americani cinesi, hacker e soggetti oscuri senza diventarre però mai un thriller a tutti gli effetti. 
È piuttosto una riflessione disturbante e contemplativa sulla memoria, sul bisogno di dare forma alla perdita, sull’identità fratturata. Attorno a Karsh ruotano figure enigmatiche: la sorella gemella  di Becca (interpretata da Diane Kruger, in un doppio ruolo ambiguo), un maldestro hacker nonché  ex cognato , la moglie di un magnate di origini franco-coreane e i fantasmi — reali o immaginati — del passato coniugale.



La morte, da sempre una delle grandi ossessioni cronenberghiane, in The Shrouds non è tanto un evento biologico quanto un enigma metafisico e mediatico. L’idea di “guardare” la decomposizione del corpo attraverso uno schermo riprende in modo inquietante le teorie di Jean Baudrillard e l’estetica del postumano: ciò che è morto continua a esistere come immagine, dato, simulacro. È un lutto tecnologico, anestetizzato, ma mai elaborato davvero. La visione diventa una forma di controllo e di negazione della perdita: osservare la corruzione del corpo come se ciò bastasse a contenerne la scomparsa.
Karsh è un uomo che ha digitalizzato il dolore, che ha mercificato il cordoglio, ma non per cinismo: è un atto disperato, quasi religioso, che cerca una trascendenza là dove la biologia ha messo un punto. Il sudario tecnologico diventa così il nuovo sacrario, e Cronenberg insinua un parallelo tra la sacralità dei riti funebri e le nuove forme di culto digitale.
Il corpo, che nel cinema di Cronenberg è sempre stato teatro di trasformazione, qui è corpo morto, putrefatto, osservato. Dall’horror della carne mutante di The Fly e Videodrome si passa a una fissità glaciale: l’orrore non è più nella mutazione ma nell’inerzia, nella decomposizione. 
La tecnologia non serve più a potenziare il corpo, ma a fossilizzarlo e in questo senso, The Shrouds rappresenta una svolta nella poetica del regista: il postumano non è più un’estensione del desiderio, ma una forma di paralisi emotiva.
Karsh è un alter ego evidente di Cronenberg,è un uomo colto, ossessivo, solitario, che usa la creazione come forma di elaborazione del dolore. Ma come sempre nei personaggi cronenberghiani, la creazione sfugge di mano, si contamina, si ritorce contro il suo artefice. La paranoia cresce: chi ha distrutto le tombe? Perché? Cosa nascondeva davvero Becca? Cosa sono quei fenomeni post mortem che sembrano crescere adesi alle ossa della donna? 
La morte diventa anche occasione per riscrivere la narrazione dell’altro, per proiettare su di lui i propri fantasmi; ma è proprio su questi punti che il film mostra vistose pecche: tutte le sottotrame complottiste geopolitiche, di guerra digitale addirittura intercontinentale, sembrano un qualcosa di assolutamente superfluo, per lo meno elaborato in questa maniera, anche perché il film non è , e non vuole essere , un thriller classico; semmai Cronenberg ha cercato maggiormente , non riuscendoci neppure bene, una tensione e una inquietudine interna alla sua riflessione sulla morte e sulla elaborazione del lutto facendo affidamento sui suoi consueti canoni di narrazione.

venerdì 18 aprile 2025

Wonderland ( Kim Taeyong , 2024 )

 




Wonderland (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Con Wonderland, il regista coreanoKim Taeyong propone un'opera di fantascienza intima e riflessiva, capace di affrontare con sensibilità e profondità temi complessi come il lutto, l'identità e l'intelligenza artificiale. Il film si inserisce in una tradizione cinematografica ormai ben consolidata, soprattutto negli ultimi anni che indaga il rapporto tra uomo e tecnologia, ma lo fa attraverso una prospettiva emozionale piuttosto che distopica. 
Al centro della narrazione vi è un servizio innovativo, denominato "Wonderland", che permette alle persone di interagire con versioni digitali dei loro cari scomparsi o inaccessibili, ricostruite grazie all'intelligenza artificiale. Un espediente narrativo che apre la strada a numerose riflessioni etiche ed esistenziali.
La storia si sviluppa attraverso due linee narrative principali. Da un lato, Jungin (Bae Suzy), assistente di volo, utilizza il servizio Wonderland per interagire con il fidanzato Taeju (Park Bogum), in coma dopo un incidente. Attraverso l'IA, può continuare a "parlare" con lui, colmando un'assenza che altrimenti sarebbe insopportabile. 
Dall'altro, Bai Li (Tang Wei), madre single affetta da una malattia terminale, sfrutta il servizio per garantire alla figlia Jia una versione virtuale di sé stessa, assicurandole così un affetto materno che si prolunga oltre la sua morte.
Entrambi i racconti mettono in luce le implicazioni di una tecnologia che, se da un lato permette di mantenere vivi i legami, dall'altro solleva interrogativi sull'autenticità delle relazioni, sull'elaborazione del lutto e sui limiti dell'intelligenza artificiale nel sostituire la presenza umana e nel creare un pericoloso corto circuito di identità
Uno dei fulcri emotivi del film è la gestione della perdita: il servizio Wonderland si presenta come una risposta tecnologica al dolore, offrendo un'illusione di continuità con chi non c'è più. Jungin si aggrappa disperatamente alla replica digitale del fidanzato, ma quando Taeju si risveglia dal coma, la realtà si rivela più complessa e dolorosa di quanto lei fosse pronta ad accettare creando una pericolosa dicoltomia tra il personaggio reale e quello digitale con cui era abituata a interagire. La sua esperienza solleva una domanda fondamentale: l'accesso a una replica digitale aiuta realmente ad affrontare il lutto, o lo prolunga in un limbo emotivo?
Allo stesso modo, Bai Li cerca di proteggere la figlia dal trauma della sua imminente scomparsa, sostituendo la sua assenza con un'ombra digitale. Ma può un'immagine algoritmica davvero sostituire la fisicità e il calore di un genitore? Il film suggerisce che la tecnologia, per quanto avanzata, non può ricreare la profondità dell'interazione umana, rivelando le fragilità di una soluzione apparentemente perfetta.



La creazione di simulacri digitali solleva questioni profonde sull'identità. Le copie artificiali di Wonderland non sono semplici repliche: interagiscono, apprendono, simulano emozioni. Ma sono davvero le stesse persone che rappresentano, o si tratta di un'illusione sofisticata? Taeju, una volta risvegliatosi, scopre che una versione di lui ha continuato a "vivere" nei ricordi della fidanzata. Ma chi è il vero Taeju? Quello in carne e ossa o quello rimasto nella memoria artificiale?
Il film riflette sul concetto stesso di esistenza: siamo definiti dai nostri corpi e dalle nostre esperienze dirette, o dalle impressioni e dai ricordi che lasciamo negli altri? In un'epoca in cui le nostre vite digitali diventano sempre più preponderanti, Wonderland mette in discussione la nostra percezione di realtà e di autenticazione dell'individuo.
Il film invita a una riflessione sulla moralità dell'intelligenza artificiale applicata alle relazioni umane. Chi controlla la memoria digitale delle persone? Wonderland è un servizio concepito come supporto terapeutico o nasconde una logica commerciale e manipolatoria? Se è possibile interagire con un defunto, chi garantisce che questa interazione non venga sfruttata a fini economici o politici? 
Il film non offre risposte definitive, ma lancia interrogativi inquietanti che risuonano nel nostro presente, dove l'IA si insinua sempre più nelle dinamiche della nostra esistenza, ed in effetti il valore del film sta proprio nella serie di infinite domande che ci fa porre , a noi stessi per primi.

mercoledì 16 aprile 2025

The Substance ( Coralie Fargeat , 2024 )

 




The Substance (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

The Substance di Coralie Fargeat è un'opera che si colloca con prepotenza nel panorama contemporaneo del cinema di genere, mescolando body horror, satira sociale e critica all'ossessione per l'immagine. Il film si distingue per il suo stile viscerale e per una narrazione che affonda le radici nell'angoscia dell'invecchiamento e nel culto della giovinezza, temi sempre più centrali nell'era dell'iperconnessione e della visibilità mediatica al punto che appaiono piuttosto stupefacenti le nominations che l'opera ha ottenuto per la serata finale in cui si assegnavano gli Oscar, essendo la Hollywood mainstream piuttosto allergica ai film di genere quale è questo, nonostante la tematica centrale sia ben presente nel mondo di lustrini del cinema hollywoodiano.
La protagonista, Elisabeth Sparkle (una convincentissima Demi Moore), è una celebrità in declino che ha costruito la sua carriera e identità sull'aspetto fisico e sulla notorietà. Quando il mondo dello spettacolo inizia a voltarle le spalle, viene a conoscenza di una sostanza sperimentale in grado di creare una versione giovane e perfetta di sé stessa: Sue (una scintillante Margaret Qualley). Il farmaco consente alle due versioni di coesistere alternandosi a scadenza settimanale, ma ben presto la dinamica tra Elisabeth e Sue si trasforma in una lotta per l'esistenza e il dominio dell'identità, nonostante sin dall'inizio del film in più di una occasione ci viene fatto sapere che però le due sono una unica persona e quindi ciò prevederebbe una assenza di competizione.
Quando le regole base di questo diabolico gioco di sopravvivenza vengono violate lo scontro tra le due anime della stessa persona ( ma sarà vero poi?...) portano all'inevitabile catastrofe.
La struttura narrativa del film segue una parabola discendente: inizialmente il "miracolo" della sostanza sembra un dono straordinario, ma con il passare del tempo si trasforma in una maledizione, mettendo in discussione non solo l'identità della protagonista, ma anche i concetti stessi di valore e riconoscimento sociale.
Il cuore pulsante di The Substance è la riflessione sulla società dell'immagine e sul terrore dell'oblio. Nel mondo dello spettacolo, e più in generale nella società contemporanea, l'invecchiamento è vissuto come una condanna. 


Coralie Fargeat esaspera questo concetto, mostrandoci una protagonista che non può permettersi di essere dimenticata e che è disposta a sacrificare la propria umanità pur di restare sotto i riflettori.
L’uso della sostanza diventa una metafora per i metodi sempre più invasivi con cui la cultura popolare cerca di sconfiggere il tempo: interventi chirurgici estremi, trattamenti sperimentali, digitalizzazione dell’immagine e manipolazione della percezione pubblica. 
In un mondo in cui la visibilità sui social media e la rilevanza pubblica sembrano determinare il valore individuale, il film pone domande cruciali: chi siamo davvero al di là del nostro aspetto? Cosa rimane quando l’immagine non è più sufficiente?
Il film utilizza il body horror in modo efficace per rappresentare il terrore della trasformazione, quasi una maledizione metafisica per avere tentato di alterare le strade della natura; il corpo di Elisabeth, sottoposto a un continuo processo di rigenerazione e deterioramento, diventa un campo di battaglia tra il passato e il presente, tra la vecchia identità e la nuova. La relazione tra Elisabeth e Sue non è solo fisica ma anche simbolica: è la lotta tra il desiderio di rimanere eternamente giovani e la paura di essere sostituiti.
Il tema del doppio è stato esplorato in molte opere cinematografiche, ma The Substance lo declina in chiave postmoderna, facendo emergere le contraddizioni della cultura contemporanea. Sue rappresenta l’ideale inaccessibile della bellezza, ma anche una minaccia costante: se la società desidera solo la versione giovane e perfetta di Elisabeth, cosa succede alla "vera" Elisabeth?
Coralie Fargeat dimostra una padronanza registica notevole, bilanciando l'estetica patinata con sequenze disturbanti. La fotografia, dai colori accesi e saturi, richiama l'estetica della pubblicità e del mondo della moda, per poi sfaldarsi progressivamente in un incubo visivo fatto di carne, sangue e decomposizione.
La colonna sonora e il sound design contribuiscono a costruire un'atmosfera claustrofobica, enfatizzando la tensione crescente e il conflitto interiore della protagonista. I richiami a registi come David Cronenberg sono evidenti, soprattutto nel modo in cui il corpo diventa veicolo di ansie e ossessioni sociali.

mercoledì 2 aprile 2025

Mickey 17 ( Bong Joonho , 2025 )

 




Mickey 17 (2025) on IMDb
Giudizio: 8/10

Sei anni dopo il colossale trionfo sotto tutti i punti di vista ottenuto con Parasite, il regista coreano Bing Joonho torna alla regia con Mickey 17, liberamente ispirato al romanzo di fantascienza di Edward Ashton dal titolo Mickey 7; ripercorrendo il sentiero del genere di fantascienza come fatto già con Okja e con Snowpiercer Bong si affida ancora una volta ad un genere ben strutturato (la fantascienza appunto) per contaminarla poi con la commedia, il thriller , l’action movie ,la satira sociale e politica e con una profonda riflessione filosofica  semiseria, ma a tutti gli effetti drammatica , sulla condizione dell’uomo e sul suo rapporto con il progresso scientifico; possiamo dire sin da subito che è proprio questa fusione-contaminazione di stili e generi che il regista mette in atto uno dei capisaldi fondamentali della buona riuscita della pellicola, operazione che Bong spesso e volentieri ha già messo in atto in molte delle sue opere precedenti.
Siamo in un futuro neppure troppo remoto e la storia segue le vicende di Mickey Barnes che invischiato pericolosamente con degli strozzini feroci decide di fuggire lontano arruolandosi nella flotta di una astronave in partenza per un lontano pianeta inospitale colonizzato per arrivare sul quale saranno necessari molti mesi di navigazione nello spazio. 
Purtroppo per lui sulla nave sono rimasti solo posti per “sacrificabili” cioè soggetti che svolgeranno compito pericolosi che spesso si concludono con la morte che sarà però solo un passaggio da un corpo ad un altro, una volta morto il soggetto, perfettamente clonato  e caricato con il suo feedback e memoria di emozioni e conoscenze. Per Mickey sappiamo che siamo giunti alla sedicesima copia di se stesso e questa diciassettesima andrà incontro ad uno strano destino visto che qualcosa non funziona alla perfezione nelle tempistiche della sua morte e clonazione, evento che possiamo dire sia un po’ l’innesco sui molti interrogativi riguardanti  l’identità, il valore della vita umana e i limiti della scienza che il film porta con sé.
Bong Joonho sfrutta la premessa fantascientifica per indagare uno dei dilemmi più urgenti e pregnanti della modernità: il rapporto tra progresso scientifico ed etica. Il concetto di replicazione umana diventa un'allegoria della disumanizzazione imposta da un sistema che riduce l’individuo a mera risorsa sacrificabile, evocando riflessioni che spaziano dalla bioetica al transumanesimo. 
Mickey non è solo un ingranaggio in un meccanismo produttivo, ma rappresenta il paradigma dell’uomo contemporaneo, sempre più vincolato da logiche di efficienza e prestazione, dove l’identità individuale diviene un elemento secondario rispetto alla funzionalità. La tecnologia, anziché liberare, imprigiona Mickey in un ciclo senza fine in cui il valore della sua esistenza è determinato solo dalla sua utilità.
Dietro alla missione spaziale, alla clonazione, al controllo delle esistenze e al predominio dell’utilitarismo c’è a presiedere il tutto una losca cricca grottescamente capitanata  da un clone neppure troppo mimetizzato composto da un Trump incrociato con Musk, il che lascia facilmente immaginare il livello di idiozia e di spregevolezza che esso trasmette: Mr Kenneth Marshall impersonifica alla perfezione ( anche grazie ad un prova superlativa di Mark Ruffalo) il politicante opportunista, buzzurro, tecnocrate, pieno di soldi  e del suo poterucolo  ma privo della seppur minima dignità , visto che oltre tutto è anche un burattino nelle mani della folle e agghiacciante moglie. 



Sarà quindi anche per questo riferimento, mai così tempestivo al presente e agli eventi che accadono oltreoceano, che il film sembra riflettere su dinamiche reali, dalle politiche aziendali di sfruttamento del lavoro – in cui il singolo è sacrificabile per il bene della produzione – fino alle decisioni di leader politici e tecnocrati privi di scrupoli, pronti a giustificare scelte disumanizzanti in nome del progresso. 
La figura di Mickey può ricordare le situazioni di lavoratori sottoposti a condizioni estreme, come nei centri di produzione altamente automatizzati o nei laboratori di ricerca che trattano il progresso scientifico come fine assoluto, senza considerare le implicazioni etiche. 
In un’epoca in cui l'intelligenza artificiale e la manipolazione genetica pongono interrogativi sempre più pressanti, Mickey 17 si inserisce con forza nel dibattito sulla responsabilità morale di chi guida l’innovazione e sul pericolo di una società che antepone l’efficienza alla dignità umana.  Il film interroga lo spettatore su una questione cruciale: fino a che punto possiamo giustificare il sacrificio dell’individualità in nome dell’efficienza e del progresso? E cosa accade quando l’essere umano smette di essere considerato un fine e diventa solo un mezzo per un obiettivo più grande? Questi interrogativi emergono con forza nella narrazione, ponendo Mickey 17 in una posizione di assoluta rilevanza nel panorama della fantascienza contemporanea.
Uno dei tratti distintivi di Bong Joonho è la sua capacità di intrecciare critica sociale e intrattenimento. In Mickey 17, il regista sudcoreano costruisce una metafora della società moderna, dominata dal lavoro alienante e dalla perdita di significato dell’individuo. Il protagonista diventa simbolo di una classe operaia sfruttata e costretta a ripetere azioni meccaniche senza possibilità di fuga. La sua lotta per l’autodeterminazione è una riflessione sulla condizione umana in un mondo governato da logiche aziendali e dalla mercificazione della vita; se in Snowpiercer la lotta di classe era una metafora carica di violenza e in Parasite invece era presentata sotto la forma subdola della immedesimazione, in Mickey 17 siamo ad un livello superiore nella scala della condizione umana, la lotta di classe è infatti lo specchio di una società in cui pochi decidono e condizionano la vita e il ruolo della maggioranza a cui rimane solo il gesto violento per tentare di riconquistare la dignità calpestata. Questa è una tematica sulla quale Bing insiste molto perchè considera proprio le diseguaglianza sociali come il vero cardine della differenza tra i ceti oppressi e quelli dominanti divenuti ormai una oligarchia che possiede tutte i mezzi  con cui condizionare l’esistenza umana.
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