Trent'anni di storia di Shanghai
E' passato lasciando poco il segno l'ultimo lavoro di Stanley Kwan, ormai sei anni orsono, forse un po' troppo frettolosamente e erroneamente catalogato come un surrogato di atmosfere e immagini mutuate dal Wong Kar-wai di In the mood for love.
Il lavoro di Kwan, seppure rimanendo distante dalla grandezza di altri suoi film, invece ha la sua buona ragione di essere, a prescindere dall'analogia con Wong: semmai andrebbe ricordato che quelle atmosfere e quella ricerca iconografica fanno parte del bagaglio della cinematografia kwaniana da ben prima che Wong incantasse col suo lavoro più famoso e stilisticamente più connotato.
Semmai il richiamo può essere trovato ancora nel capiente sacco di farina di Kwan , volgendo lo sguardo indietro a tredici anni prima al meraviglioso Center Stage , o ancor prima , all'altrettanto splendido Rouge che rimangono i due capolavori indiscussi del regista.
Semmai il richiamo può essere trovato ancora nel capiente sacco di farina di Kwan , volgendo lo sguardo indietro a tredici anni prima al meraviglioso Center Stage , o ancor prima , all'altrettanto splendido Rouge che rimangono i due capolavori indiscussi del regista.
Stanley Kwan ha cercato con Everlasting regret di ricostruire dall'imediato dopoguerra agli anni 80 quello che Center Stage era stato per gli anni 30 e cioè un affresco di Shanghai, citta crogiulo di arte, cultura, glamour e rivoluzione e lo fa raccontando lungo l'arco di oltre 30 anni la storia della bellissima Qiyao, donna dalla vitalità prormpente, impegnata ad affermare la propria personalità in ogni epoca e situazione storica.
La figura della protagonista funge da specchio di un epoca che vede la città cinese dapprima epicentro della mondanità e poi punto di partenza di fiumi di persone in cerca di fortuna nella occidentale Hong Kong fino alla Rivoluzione culturale e inziale motore della modernizzazione e dell'aperura al capitalismo: in questo lasso di tempo si consumano i fasti e gli abbandoni di Qiyao, incapace di dare stabilità alla sua vita sentimentale, trovandosi sempre al centro di burrasche che la scuotono senza affondarla, almeno fino al tragico finale che si disegna di epicità.
Dosando con la capacità riconosciuta tratti da melodramma a momenti di lirico intimismo, il regista riesce a raccontare in due ore, con salti temporali anche arditi, 30 anni di una eistenza fatta di amori impossibili, di tragedie, di tradimenti e di amicizia.
La cura formale dell'immagine e della messa in scena, dote naturale di Kwan, lascia però in qualche momento più di un dubbio, non avendo quella leggerezza magnifica e quella compatezza che contraddistingueva Rouge ad esempio, al punto che l'impressione che se ne ricava è di una latente incompletezza, soprattutto laddove alcuni passaggi sono un po' troppo frettolosamente messi da parte.
Va detto comunque che il film lascia quel senso di inquitudine e di mestizia piacevole che rende comunque la visone consigliata anche grazie ad una regia che , se pecca in parte di certo formalismo spinto, sa ben costruire una narrazione tutta giocata negli interni e alla ottima prova di Sammi Cheng, pienamente nel solco tracciato da Meggie Cheung in Center Stage e Anita Mui in Rouge, nel ruolo di Qiyao e di Tony Leung Kai-fai nei panni del fotografo Chen.
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