Giudizio: 8.5/10
Il secondo capitolo della Trilogia paradisiaca di Ulrich Seidl è senza dubbio quello in cui l'occhio critico del regista austriaco risulta più spietato e caustico. La Fede, perno del racconto, raccontata con quei toni che ondeggiano tra l'assurdo e il drammatico, ma non per questo poco credibili e reali, è l'approdo di una massa di repressi ed esaltati, personaggi nei quali il vuoto esistenziale viene colmato da qualcosa troppo grande per essere abbracciato e che dona, illusoriamente, un senso di compiutezza e di pienezza.
Il secondo capitolo della Trilogia paradisiaca di Ulrich Seidl è senza dubbio quello in cui l'occhio critico del regista austriaco risulta più spietato e caustico. La Fede, perno del racconto, raccontata con quei toni che ondeggiano tra l'assurdo e il drammatico, ma non per questo poco credibili e reali, è l'approdo di una massa di repressi ed esaltati, personaggi nei quali il vuoto esistenziale viene colmato da qualcosa troppo grande per essere abbracciato e che dona, illusoriamente, un senso di compiutezza e di pienezza.
Anna Maria è la sorella di Teresa, la cinquantenne che in Love abbiamo seguito nelle sue peripezie turistico sessuali in Kenya, in cerca di sesso e amore prezzolato; al contrario della sorella è una donna che vive con fervore estasico e con fanatismo la fede religiosa: si fustiga per espiare i peccati del mondo, si infligge punizioni corporali, gira per le case con una statua della Madonna a redimere anime perse e abbandonate, canta le lodi del Signore seduta alla pianola, organizza incontri di preghiera grotteschi in un sottoscala adibito a cripta, vive un rapporto di adorazione quasi corporale con Cristo e la sua effige crocifissa.
Il ritorno a casa del marito, paraplegico in seguito ad un incidente che ha dato la stura alla deriva mistica della donna, di religione islamica, sebbene molto più laico e immigrato è la miccia che da il via alla deflagrazione di un racconto che fino alla comparsa dell'uomo si svolge su temi volutamente monotoni oltre che monocromatici.
Il marito vorrebbe riacquisire il suo ruolo, la donna invece lo vede come una sorta di prova divina che testi la sua integrità, ma sta di fatto che con il ritorno a casa del marito Anna Maria comincia a scoprire quanto la sua sessualità sia repressa dalla scelta di vita spirituale che ha intrapreso.
Sarà forse la tematica che fa da pilastro della storia, ma Siedl in Faith da fondo a tutto il suo disprezzo verso il rapporto con la religione che in un paese come l'Austrai raggiunge spesso livelli di fanatismo estremo, accodando a ciò anche il tema della xenofobia, fino a intraprendere scelte narrativa che non poche critiche , ovviamente, hanno suscitato: la scena della pulsione sessuale della protagonista che raggiunge l'acme in una sorta di amplesso col crocifisso non poteva non far gridare allo scandalo, ma nel contesto della storia risulta assolutamente credibile e coerente, mettendo in evidenza una delle caratteristiche più straordinarie di cinema del regista austriaco, quello di far sembrare normale ed ovvio anche gli avvenimenti apparentemente più estremi.
Dei tre film della Trilogia Faith risulta il più bello, il più duro, quello in cui Seidl sembra trovarsi più a suo agio, in cui con il consueto sarcasmo che sfocia spesso nell'ilarità più sfrenata ( ad esempio la scena della visita di Anna Maria con la Madonna in mano a casa dell'uomo in mutande) riesce a trasformarsi nell'elegia delle miserie umane, avvalendosi come non mai di quella tecnica di ripresa fatta di piani fissi, di geometrie fredde e spigolose e di vuoti incolmabili.
Raggiungere il paradiso in terra con la fede , per Seidl, è ancora più difficile che provarci con l'amore: se Teresa in Kenya scopre che ogni gesto d'amore ha il suo prezzo, Anna Maria comprende, forse, che dietro la fede si nasconde una punizione divina, quella che si abbatte sulle vite vuote come ceste per la spesa da riempire.
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