Giudizio: 8.5/10
Sin dalla sua prima apparizione al Festival di Berlino del 2017 l'opera prima del giovane regista austriaco Adrian Goiginger ha raccolto numerosi riconoscimenti nelle rassegne cinematografiche di mezzo mondo, imponendosi come uno degli esordi più promettenti degli ultimi anni.
Lavoro dal fondamentale tratto autobiografico racconta la vita di un ragazzino di sette anni e della giovane madre tossicodipendente sul finire degli anni 90 in una Salisburgo ben diversa da quella da cartolina dove viene presentata come un luogo quasi fiabesco.
Adrian ed Helga vivono una esistenza praticamente simbiotica immersi in un mondo di emarginati e di persone la cui esistenza corre sempre in bilico sul baratro; sin dalla scena iniziale all'apparenza carica di poesia, vediamo infatti Helga che frequenta un gruppo di tossicodipendenti come lei, emarginati , ricercati dal polizia, esseri ormai distrutti dall'abuso di droghe, ma tutto ciò non è sufficiente per lei a impedirle di offrire al figlio quel mondo migliore possibile cui allude il titolo del film.
Adrian da parte sua è un ragazzino sveglio, ricco di grande immaginazione che sogna di diventare un avventuriero che gira il mondo, ma nei suoi sogni trova posto anche un demone difficile da sconfiggere che lo perseguita.
Il mondo reale dell'emarginazione e della droga e quello fantastico, pieno della felicità che può dare un amore reciproco madre-figlio totalizzante, riesce dunque a coesistere almeno finchè queste due entità non entrano in contatto in maniera violenta.
Come è facile capire anche grazie all'omaggio sui titoli di coda, il ragazzino di sette anni che vediamo nella storia è il regista , passato nella drammatica esperienza della tossicodipendenza della madre e dell'assenza del padre cui surroga però la presenza del nuovo compagno della madre stessa Gunter, tossicodipendente anch'esso; quindi The Best of All Worlds è un racconto di un giovane adulto che mette sullo schermo la sua esperienza tutt'altro che facile da ragazzino: questo è il nodo centrale intorno a cui si svolge il film e soprattutto spiega la riuscita straordinaria di questo lavoro; il film infatti vive di una silenziosa , grandiosa drammaticità, di violenza e di amore infinito, di vita e di morte e lo fa attraverso un racconto asciutto privo di facili espedienti, senza drammatizzazione ridondante, insomma nella maniera in cui lo può fare chi quell'esistenza drammatica e grandiosa insieme l'ha vissuta veramente e non necessita di orpelli narrativi nè di esacerbazioni fuori luogo.
Come ha spesso ripetuto il regista questo non è un film che parla di droga o di drogati, non è un film che vuole stupire con scene esecrabili o cariche di tragedia, è invece un grande racconto personale di amore vicendevole: quello di Helga per Adrian che riesce ad emergere anche nel buio di una vita vissuta ai margini e malata e che la ragazza non dimentica mai di anteporre a tutto, quello del ragazzino per la madre , unica fonte di vitalità e di felicità, attraverso un rapporto di indissolubilità che raggiunge dei livelli addirittura commoventi.
E proprio questa scelta del regista di presentare tutti i momenti, quelli drammatici, quelli violenti, quelli bui con un equilibrio carico di maturità espressiva che riesce addirittura a trasformare questi in qualcosa di quasi fiabesco, momenti che comunque non incrinano il legame simbiotico che porta madre e figlio ad annullarsi in un rapporto di grande amore e di affermazione del bisogno di esso.
Tutto ciò non deve far pensare che il film di Goiginger sia una lavoro superficiale o ancor peggio falso: il dramma c'è , la violenza pure, l'emarginazione di una vita vissuta sempre in bilico sul precipizio anche, ma il modo di raccontare tutto ciò passa attraverso una silenziosa e , immaginiamo, terribile assimilazione ed accettazione del ragazzino Adrian raccontata attraverso la storia del giovane Adrian; una storia vissuta prima interiormente e quindi raccontata con la forza e il pudore di chi ne ha sentito il peso sulle spalle.
La regia di Goiginger è asciutta con i tratti del cinema verista, spesso al limite col documentario tanto è legata alla realtà e si manifesta sia attraverso la descrizione di luoghi molto reali che per l'uso massiccio della camera a mano; unico neo la metafora del demone un po' troppo insistita e non particolarmente originale a sottolineare la drammaticità dell'esistenza del ragazzino, difetto, è bene dirlo, che non altera più di tanto il giudizio sull'opera.
Infine se The Best of All Worlds può leggittimamente definirsi come un lavoro importante, che colpisce e lascia il segno in maniera indelebile lo deve anche alla straordinaria prova dei due attori principali: Verena Altenberger bravissima nel ruolo della debole Helga che trova solo nell'amore per il figlio la forza di tirare avanti e uno stupefacente Jeremy Milker, un ragazzino nel quale si intravede oltre che la faccia da cinema il talento per poter diventare un attore di grande livello.
Tanti Auguri di Buone Feste!
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